Versi del conte Giacomo Leopardi/Il sogno

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Il sogno. Idillio IV

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La ricordanza Lo spavento notturno
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il sogno

IDILLIO IV




Era il mattino, e tra le chiuse imposte
Per lo balcone insinuava il sole
Ne la mia cieca stanza i primi raggi,
Quando in su l’ora che più leve il sonno
5E più soave le pupille adombra,
Stettemi allato e riguardommi in viso
Il simulacro di colei che amore
Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto.
Morta non mi parea, ma trista, e quale
10De gl’infelici è la sembianza. Al capo
Appressommi la destra, e sospirando,
Vivi tu, disse, e ricordanza alcuna
Serbi di noi? Donde, risposi, e come
Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto
15Di te mi dolse e duol: nè che tu fossi
Mai per saperlo io mi credeva; e questo
M’era cagion di più crudele affanno.
Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta?
Certo ch’io ’l temo. Or dimmi, e che t’avvenne?
20Se’ tu quella di prima? E che ti strugge

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Internamente? Obblivion ricopre
I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno;
Disse colei. Son morta, e mi vedesti
L’ultima volta, è già gran tempo. Immensa
25Doglia m’oppresse a queste voci il petto.
Ella seguì: nel fior de gli anni estinta,
Quando è ’l viver più dolce, e pria che ’l core
Certo si renda com’è tutta indarno
L’umana speme. A desiar colei
30Che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare
L’egro mortal; ma sconsolata arriva
La morte a i giovanetti, e duro è ’l fato
Di quella speme cui la tomba estingue.
Vano è ’l saper quel che natura asconde
35A gl’inesperti de la vita, e molto
A l’immatura sapienza il cieco
Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara,
Taci, taci, diss’io, chè tu mi schianti
Con questi detti il cor. Dunque se’ morta,
40O mia diletta, ed io son vivo, ed era
Pur fisso in ciel che quei sudori estremi
Cotesta cara e tenerella salma
Provar dovesse, a me restasse intera
Questa misera spoglia? Oh quante volte
45In ripensar che più non vivi, e mai

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Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo,
Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa
Che morte s’addimanda? Oggi per prova
Intenderlo potessi, e ’l capo inerme
50A gli atroci del fato odii sottrarre.
Giovane son, ma si consuma e perde
La giovanezza mia come vecchiezza;
La qual pavento, e pur m’è lunge assai.
Ma poco da vecchiezza si discorda
55Il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto,
Disse, ambedue; felicità non rise
Al viver nostro; e dilettossi il Cielo
De’ nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
Soggiunsi, e di pallor velato il viso
60Per la tua dipartita, e se d’angoscia
Porto gravido il cor; dimmi: d’amore
Già non favello; ma pietade alcuna
Del tuo misero amante in sen ti nacque
Mentre vivesti? Io disperando allora
65E sperando traea le notti e i giorni;
Oggi nel vano dubitar si stanca
La mente mia. Che se una volta pure
Mercè ti strinse di mia negra vita,
Consentimi ch’io ’l sappia e mi soccorra
70La rimembranza or che ’l futuro è tolto

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A i nostri giorni. E quella: ti conforta,
O sventurato. Io di pietade avara
Non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
Chè fui misera anch’io. Non far querela
75Di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l’amore
Che mi strugge, esclamai; per lo diletto
Nome di giovanezza e la perduta
Speme de i nostri dì, concedi o cara,
80Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
Soave e tristo, la porgeva. Or mentre
Di baci la ricopro, e d’affannosa
Dolcezza palpitando a l’anelante
Seno la stringo, di sudore il volto
85Ferveva e ’l petto, ne le fauci stava
La voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi
Gli occhi ne gli occhi miei, già scordi o caro,
Disse, che di beltà son fatta ignuda?
90E tu d’amore, o sfortunato, indarno
Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
Son disgiunte in eterno. A me non vivi
E mai più non vivrai: già ruppe il fato
95L’amor che mi giurasti. Allor d’angoscia

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Gridar volendo, e spasimando, e pregne
Di sconsolato pianto le pupille,
Dal sonno mi disciolsi. Ella ne gli occhi
Pur mi restava, e ne l’incerto raggio
100Del Sol vederla io mi credeva ancora.