Versi editi ed inediti di Giuseppe Giusti/A Gino Capponi

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A Gino Capponi

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Il Delenda Cartago Al medico Carlo Ghinozzi contro l'abuso dell'Etere solforico
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Vedi un po’ Gino mio, che cosa vuol dire l’aver che fare co’ Poeti! Non contenti di scapriccirsi, rimando sul conto degli altri e sul proprio, chiamano anco gli amici a parte dei loro capricci, chi per affetto e chi per far gente. Anni sono, intitolai a te quella tirata sulle Mummie Italiche, scherzo cagnesco che risente della stizza dei tempi nei quali fu scritto; oggi che abbiamo tutti il sangue più addolcito, accetta questa aspirazione a cose migliori, scritta, come tu sai, quando il buono era sempre di là da venire, e anzi pareva lontanissimo. A chi sapesse che tu sei il solo al quale ho ricorso in tuttociò che passa tra me e me, non farà maraviglia questa pubblica confessione che io t’indirizzo; a chi non lo sapesse, ho voluto dirlo in versi, tanto più che dal Petrarca in poi pare una legge poetica che le affezioni dei rimatori siano sempre di pubblica ragione. Lasciami aggiungere, e lascia sapere a tutti, che io ti son tenuto di molti conforti e di molte raddirizzature: che se tuttavia mi restano addosso delle magagne, la colpa non è dell’Ortopedico.


Tuo Affezionatissimo
Giuseppe Giusti. [p. 253 modifica]


A GINO CAPPONI.1



Come colui che naviga a seconda
     Per correnti di rapide fiumane,
     Che star gli sembra immobile, e la sponda
     Fuggire, e i monti e le selve lontane;
     Così l’ingegno mio varca per l’onda
     Precipitosa delle sorti umane:
     E mentre a lui dell’universa vita
     Passa dinanzi la scena infinita,
          Muto e percosso di stupor rimane.

E di sordo tumulto affaticarme
     Le posse arcane dell’anima sento,
     E guardo, e penso, e comprender non parme
     La vista che si svolve all’occhio intento,
     E non ho spirto di sì pieno carme
     Che in me risponda a quel fiero concento:
     Così rapito in mezzo al moto e al suono
     Delle cose, vaneggio e m’abbandono,
          Come la foglia che mulina il vento.

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Ma quando poi remoto dalla gente,
     Opra pensando di sottil lavoro,
     Nelle dolci fatiche della mente
     Al travaglio del cor cerco ristoro,
     Ecco assalirmi tutte di repente,
     Come d’insetti un nuvolo sonoro,
     Le rimembranze delle cose andate;
     E larve orrende di scherno atteggiate
          Azzuffarsi con meco ed io con loro.

Così tornata alla solinga stanza
     La vaga giovinetta in cui l’acuta
     Ebrïetà del suono e della danza
     Nè stanchezza nè sonno non attuta,
     Il fragor della festa e l’esultanza
     Le romba intorno ancor per l’aria muta,
     E il senso impresso de’ cari sembianti,
     E de’ lumi e de’ vortici festanti,
          In faticosa visïon si muta.

Come persona a cui ratto balena
     Subita cosa che d’oblïar teme,
     Così la penna afferro in quella piena
     Del caldo immaginar che dentro freme.
     Ma se sgorgando di difficil vena
     La parola e il pensier pugnano insieme,
     Io, di me stesso diffidando, poso
     Dal metro audace, e rimango pensoso,
          E l’angoscia d’un dubbio in cor mi geme.

Dunque su questo mare a cui ti fide
     Pericolando con sì poca vela,
     Il nembo sempre e la procella stride,
     E de’ sommersi il pianto e la querela?
     E mai non posa l’onda, e mai non ride
     L’aere, e il sol di perpetue ombre si vela?
     Di questa ardita e travagliata polve
     Che teco spira, e a Dio teco si volve,
          Altro che vizio a te non si rivela?

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E chi sei tu che il libero flagello
     Ruoti, accennando duramente il vero,
     E che parco di lode al buono e al bello,
     Amaro carme intuoni a vitupero?
     Cogliesti tu, seguendo il tuo modello,
     Il segreto dell’arte e il ministero?
     Diradicasti da te stesso in pria
     E la vana superbia e la follia,
          Tu che rampogni, e altrui mostri il sentiero?

Allor di duol compunto, sospirando,
     De’ miei pensieri il freno a me raccolgo;
     E ripetendo il dove, il come, il quando,
     La breve istoria mia volgo e rivolgo.
     Ahi del passato l’orme ricalcando
     Di mille spine un fior misero colgo!
     Sdegnoso dell’error d’error macchiato,
     Or mi sento co’ pochi alto levato,
          Ora giù caddi e vaneggiai col volgo!

Misero sdegno, che mi spiri solo,
     Di te si stanca e si rattrista il core!
     O farfalletta che rallegri il volo,
     Posandoti per via di fiore in fiore,
     E tu che sempre vai, mesto usignolo,
     Di bosco in bosco cantando d’amore,
     Delle vostre dolcezze al paragone,
     In quanta guerra di pensier mi pone
          Questo che par sorriso ed è dolore!

Oltre la nube che mi cerchia e in seno
     Agita i venti e i fulmini dell’ira,
     A più largo orizzonte, a più sereno
     Cielo, a più lieto vol l’animo aspira,
     Ove congiunti con libero freno
     1 forti canti alla pietosa lira,
     Di feconda armonia l’etere suoni,
     E sian gl’inni di lode acuti sproni
          Alla virtù che tanto si sospira.

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O Gino mio, se a te questo segreto
     Conflitto della mente io non celai,
     Quando accusar del canto o mesto o lieto
     In me la nota o la cagione udrai,
     Narra quel forte palpito inquïeto,
     Tu che in altrui l’intendi e in te lo sai,
     Di quei che acceso alla beltà del vero
     Un raggio se ne sente nel pensiero,
          E ognor lo segue e non lo giunge mai.

£ anch’io quell’ardua immagine dell’arte,
     Che al genio è donna e figlia è di natura,
     £ in parte ha forma dalla madre, in parte
     Di più alto esemplar rende figura;
     Come l’amante che non si diparte
     Da quella che d’amor più l’assecura,
     Vagheggio, inteso a migliorar me stesso,
     £ d’innovarmi nel pudico amplesso
          La trepida speranza ancor mi dura.

  1. Ho tentato di rimettere in corso questo metro antico, dal quale, sebbene difficilissimo, credo si possa trar partito per aggiungere gravità e solennità all’ottava. Direi d’usarlo ne’ componimenti brevi; alla lunga forse stancherebbe.