Orlando innamorato/Libro primo/Canto ventesimottavo

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Libro primo - Canto ventesimottavo

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CANTO VENTESIMOTTAVO.


         Chi provato non ha che cosa è amore,
     Biasmar potrebbe e due baron pregiati,
     Che insieme a guerra con tanto furore
     E con tanta ira se erano afrontati,
     Dovendosi portar l’un l’altro onore,
     Ch’eran d’un sangue e d’una gesta nati:
     Maximamente il figlio di Melone,
     Che più della battaglia era cagione.

         Ma chi cognosce amore e sua possanza,
     Farà la scusa di quel cavalliero;
     Chè amore il senno e lo intelletto avanza,
     Nè giova al provedere arte o pensiero.
     Giovani e vecchi vanno alla sua danza,
     La bassa plebe col segnore altiero;1
     Non ha remedio amore, e non la morte;
     Ciascun prende, ogni gente et ogni sorte.2

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         E ciò se vide alora manifesto,
     Chè Orlando, qual di senno era compito,
     Di sua natura si cangiò sì presto,
     E venne impazïente allo appetito;
     Et a Ranaldo se fece molesto,
     Col qual fu de amistà già tanto unito.
     Ora nel campo a morte lo desfida,
     Suonando il corno ad alta voce crida:

         Non hai vicino il forte Montealbano,
     Che possa con sue mure ora camparte;
     Non è teco il fratel de Vivïano,
     Qual ti possa giovar con sua mala arte.
     Chi te potrà levar dalla mia mano?
     Come andarai fuggendo et in qual parte?
     Non è citade al mondo, o tenimento,
     Ove non abbi fatto un tradimento.

         Belisandra robbasti in Barbaria,
     Quando gli andasti come mercadante.
     Vôi tu forse tornar per quella via,
     O fuggir per il regno de Levante,
     Dove sette fratei per tua folìa
     E per le fraude tue, che son cotante,
     A tradimento son condutti a morte?
     Forse in Tesaglia andar te riconforte?

         Re Pantasilicor da te fo preso,
     Nè usata fu più mai tanta viltate,
     Perchè, essendo pregion, da te fu impeso,
     Sì che non passarai per sue contrate.
     E già non posso a pieno aver inteso
     Tutte le tue magagne e crudeltate;
     Ma scio che a Montalbano a notte scura
     Nè al chiaro giorno è la strata sicura.

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         So che robbasti il tesoro indïano,
     Che a me toccava per dritta ragione,
     Perchè il re de India, Durastante, al piano
     Fu da me morto, e non da te, ladrone.
     Sotto la tregua del re Carlo Mano
     Robbasti al re Marsilio il suo Macone.
     Ora te penti, e fa che ben m’intenda:
     Oggi di tanto mal farai l’amenda.3

         Ranaldo fece al conte aspra risposta,
     Forte suonando il suo corno bondino,
     Dicendo dopo il suon: Vieni a tua posta,
     Chè or sei vassallo, et eri paladino,4
     E poi che la tua mente è pur disposta
     Far la vendetta d’ogni Saracino,
     Di qualunque sia morto in ogni lato,
     Preso o disfatto, o sia da me robbato.

         Ma a te ramento che aggio a vendicare
     La morte iniqua d’ogni cristïano.
     Don Chiaro il paladin vo’ ricordare,
     Che l’occidesti in campo di tua mano;
     Perciò se ebbe Girardo a disperare,
     E per tua colpa divenne pagano.
     Ascolta, renegato e maledetto:
     Chi dà cagione al mal, lui n’ha il diffetto.

         Il padre de Olivier, malvaggio cane,
     Venne per tua cagion da Carlo occiso;
     Ranaldo di Bilanda per tue mane5
     Avanti al vecchio patre fo diviso.
     E tu quando ti levi la dimane,
     Credi acquistar zanzando il paradiso
     Con croce e patrinostri? Altro ci vole
     Che per rei fatti dar bone parole.

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         Ricordate, crudel, che a Monteforte,
     Per prender quel castello a tradimento,
     Il franco re Balante ebbe la morte,
     E ciò fu ben di tuo consentimento,
     Chè stavi apresso a Carlo Magno in corte;
     Nè ti bastando il core o l’ardimento
     Di scontrarti con lui sopra al sentiero,
     Altrui mandasti, e fu morto Rugiero.

         Queste parole et altre più diverse
     Dicea Ranaldo con voce rubesta.
     Ora più oltra il conte non sofferse,
     Ma contra lui se mosse a gran tempesta;
     Ciascadun sotto il scudo si coperse,
     E con alto furor la lancia arresta,
     E vengonsi a ferir con ardimento:
     Sembrâr quei duo destrier folgor’e vento.

         Come nel celo, o sopra la marina,
     Duo venti fieri, orribili e diversi
     Scontrano insieme con molta roina,
     E fan conche e navigli andar roversi;
     E come un rivo dal monte declina,
     Con sassi rotti et arbori dispersi;
     Così quei duo baron pien di valore
     Se urtarno con altissimo rumore.6

         Non fu piegato alcun di loro un dito,
     A benchè delle lancie smisurate
     Ciascun troncone insino al celo è gito.
     Già son rivolti et han tratto le spate;
     Nè intorno fu Pagan cotanto ardito
     Che non se sbigotisse in veritate,7
     Quando l’un l’altro rivoltò la faccia
     Piena de orrore e de ira e de minaccia.

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         Non vide il mondo mai cosa più cruda
     Che il fiero assalto di questa battaglia,
     E ciascun sol mirando trema e suda:
     Pensati che fa quel che se travaglia!
     In più parte avean lor la carne nuda,
     Chè mandate han per terra piastra e maglia.
     Ranaldo sopra al conte se abandona,
     Nel forte scudo il gran colpo risuona.

         Il scudo aperse e il brando dentro passa:
     Sopra la spalla gionse al guarnimento,
     La piastra del braccial tutta fraccassa.
     Sente a quel colpo il conte un gran tormento;
     Adosso de Ranaldo andar se lassa,
     E ben sembra al soffiar tempesta e vento;
     A man sinestra gionge il brando crudo,
     Sino alla spalla rompe e parte il scudo.

         A poco a poco più l’ira s’accende:
     Ranaldo sopra l’elmo gionse il conte;
     Taglio del brando a questo non offende,8
     Però che era incantato e fu de Almonte;9
     Ma il cavallier stordito se distende
     Per quel colpo superbo che ebbe in fronte,
     E rivenne in se stesso in poco d’ora;
     Ira e vergogna al petto lo divora.

         Stringendo e denti, il forte paladino
     Mena a Ranaldo un colpo nella testa;
     Gionse ne l’elmo che fu de Mambrino:
     Non fu veduta mai tanta tempesta.
     Quel baron tramortito andava e chino,
     Via fugge Rabicano, e non s’arresta,
     Intorno al campo, e par che metta l’ale;
     Al conte Orlando il suo spronar non vale.

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         Non fu veduto mai tanto peccato,
     Quanto era di Ranaldo valoroso,
     Ch’era sopra l’arcione abandonato,
     E strasinava il brando al prato erboso;
     Fuor de l’elmo uscia il sangue da ogni lato,
     Però che a quel gran colpo furïoso
     Tanta angoscia sofferse e tanta pena,
     Che ’l sangue gli crepò fuor d’ogni vena.

         Fuor della bocca usciva e fuor del naso,
     Già ne era l’elmo tutto quanto pieno;
     Spirto nel petto non gli era rimaso,
     Correndo il suo destriero a voto freno.
     E così stette in quel dolente caso
     Quasi una ora compita, o poco meno;10
     Ma non fu giamai drago ni serpente
     Quale è Ranaldo, allor che se risente.

         Non fu ruina al mondo mai maggiore,
     Chè l’altre tutte quante questa passa;
     Strazia dal petto il scudo, e con rumore11
     Contro alla terra tutto lo fraccassa.
     Fusberta, il crudo brando, a gran furore
     Stringe a due mane e le redine lassa,12
     E ferisce cridando al forte conte:
     Proprio lo gionse al mezo della fronte.

         Non puotè il colpo sostenire Orlando,
     Ma su le croppe la testa percosse;
     Le braze a ciascun lato abandonando,13
     Già non mostra d’aver l’usate posse.
     Di qua di là se andava dimenando,
     Et ambe l’anche di sella rimosse;
     Poco mancò che ’l stordito barone
     Fuor non uscisse al tutto de l’arzone.

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         Ma come quel che avea forza soprana,
     Ben prestamente uscì di quello affanno,
     E, riguardando la sua Durindana,
     Dicea: Questo è il mio brando, o ch’io m’inganno;
     Questo è pur quel ch’io ebbi alla fontana,
     Che ha fatto a’ Saracin già tanto danno.
     Io me destino veder per expresso
     S’io son mutato, o pur se ’l brando è desso.

         Così diceva: et intorno guardando,14
     Vidde un petron di marmore in quel loco;
     Quasi per mezo lo partì col brando
     Persino al fondo, e mancòvi ben poco.
     Poi se volta a Ranaldo fulminando;
     Torceva gli occhi, che parean di foco,
     D’ira soffiando sì come un serpente;
     Mena a due mani e batte dente a dente.

         O Dio del celo, o Vergine regina,
     Diffendete Ranaldo a questo tratto;
     Chè ’l colpo è fiero è di tanta ruina,15
     Che un monte de diamanti avria disfatto.
     Taglia ogni cosa Durindana fina,
     Nè seco ha l’armatura tregua o patto;
     Ma Dio, che campar volse il fio d’Amone,
     Fece che ’l brando colse di piatone.

         Se gionto avesse la spada di taglio,
     Tutto il fendeva insino in su l’arcione;
     Sbergo, ni maglia non giovava uno aglio,
     Et era occiso al tutto quel barone.
     Ma fu di morte ancora a gran sbaraglio,
     Chè il colpo gli donò tal stordigione,
     Che da l’orecchie uscia il sangue e di bocca;
     Con tanta furia sopra l’elmo il tocca.

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         Tutta la gente che intorno guardava
     Levò gran crido a quel colpo diverso;
     E Marfisa tacendo lacrimava,
     Perchè pose Ranaldo al tutto perso.
     Il conte ad ambe mano anco menava,
     Per tagliar quel baron tutto a traverso;
     E ben puoteva usar di cotal prove:16
     Ranaldo è come morto e non se move.

         Quel colpo sopra lui già non discese,
     Chè Angelica alla zuffa era presente.
     Lei tenne il conte, e per il braccio il prese,
     Et a lui volta con faccia ridente,
     Disse: — Barone, egli è chiaro e palese
     Che tra gentile e generosa gente
     Solo a parole se observa la fede:17
     Senza giurare l’uno a l’altro crede.

         Questa matina promisi e giurai
     Per una volta di farti contento,
     E come e quando tu comandarai;
     Ma prima tu dèi trare a compimento
     Una impresa per me, come tu sciai,
     La qual comandar posso a mio talento;18
     Sì che io te dico, franco paladino,
     Incontinente pòneti a camino.

         Prendi la strata per questa campagna,
     Nè te curar de indugia, nè de posa,
     Sin che sei gionto nel regno de Orgagna,
     Là dove trovarai mirabil cosa;
     Chè una regina piena di magagna19
     (Così Dio ne la faccia dolorosa!)
     Ha fabricato un giardin per incanto,
     Per cui destrutto è il regno tutto quanto.

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         Perchè alla guarda del falso giardino
     Dimora un gran dragone in su la porta,
     Qual ha deserto intorno a quel confino
     Tutta la gente del paese, e morta;
     Nè passa per quel regno peregino,
     Nè dama o cavalliero alla sua scorta,
     Che non sian presi per quelle contrate,
     E dati al drago con gran crudeltate.

         Onde te prego, se me porti amore,
     Come ho veduto per experïenza,
     Che questa doglia me levi del core,
     De la qual più non posso aver soffrenza;
     E scio ben che cotanto è il tuo valore
     E ’l grande ardire e l’alta tua potenza,
     Che, abenchè il fatto sia pericoloso,
     Pur nella fin serai vittorïoso.

         Orlando alla donzella presto inchina,
     Nè se fece pregar più per nïente,
     E con tanto furor ratto camina,
     Che uscito è già di vista a quella gente.
     Or, menando fraccasso e gran roina,
     Il fio d’Amon turbato se risente;
     Strenge a due mano il furïoso brando,
     Credendo vendicarse al conte Orlando.

         Ma quello è già lontan più de una lega:20
     Ranaldo se ’l destina di seguire,
     Chè mai non vôl con lui pace nè trega,
     Sin che l’un l’altro non farà morire.
     Marfisa, Astolfo e ciascuno altro il prega,
     E tanto ogniom di lor seppe ben dire,
     Che Ranaldo, che avea la mente accesa,
     Pur fu acquetato e lasciò quella impresa.

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         Questo fin ebbe la battaglia fella.
     Tornò Ranaldo a farse medicare;
     Parlar li volse Angelica la bella,
     Lui per nïente la volse ascoltare,
     Chè tanto odio portava a la donzella,
     Che apena la puoteva riguardare.
     Or lei si parte e vien sopra al girone;
     Ranaldo in campo torna al paviglione.

         Su nella rocca ritornò la dama,
     E de amor si lamenta e di fortuna;
     Piange dirottamente e morte chiama,
     Dicendo: Or fo giamai sotto la luna
     Per l’universo una donzella grama,
     O nello inferno passò anima alcuna,
     Che avesse tanta pena e tale ardore,
     Quale io sostengo a l’affannato core?

         Quel gentil cavallier l’alma m’ha tolta,
     Nè vôl ch’io campa, e non mi fa morire,
     Et è tanto crudel, che non m’ascolta.
     Che al manco gli potessi io fare odire
     Li affanni che sostengo, una sol volta,
     E di poi presto mia vita finire!
     Chè dopo morte ancor sarei contenta,
     Se egli ascoltasse il dôl che mi tormenta.

         Ma ciascuna alma disdegnosa e dura
     Amando e lacrimando al fin se piega,
     Sì che speranza ancor pur mi assicura
     Che a un tempo mi darà quel che or mi niega;
     E sol di quello è la bona ventura,
     Che pacïenzia segue e piange e prega;21
     E, s’io son fuor di tal condizïone,
     Pur stato non serà per mia cagione.

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         Io vincerò la sua discortesia;
     Ancor se placherà, se ben fia tardo,
     Faràgli ancor pietà la pena mia,
     E ’l fuoco smisurato ove io dentro ardo.
     Poi che seguir conviensi questa via,
     Io vo’ mandarli adesso il suo Baiardo,
     Chè, come intendo e per ciascun se nara,
     Cosa del mondo a lui non è più cara.

         Orlando più non tornarà giamai,
     Chè non giovarà forza nè sapere,
     Allo estremo periglio ove il mandai:
     Far posso del destriero il mio parere.
     Ahi re del cel! come forte fallai,
     A far perir colui che ha tal potere!
     Ma Dio lo sa ch’io non puote’ soffrire
     Quel che tanto amo vederlo morire.22

         Ora fia morto il bon conte di Brava,23
     Sol per campar la vita al fio d’Amone;
     Quel molto più che sua vita me amava,
     Questo non ha di me compassïone;
     E certo conscïenza assai me grava,
     E vedo ch’io fo pur contra ragione:
     Ma la colpa è d’Amor, che senza legge
     E’ soi subietti a suo modo corregge.

         Così dicendo chiede una donzella,
     Che fu con lei creata piccolina,
     Di aria gentile e di dolce favella;24
     Alla sua dama davanti se inchina.
     Disse Angelica a lei: Va, monta in sella,
     Calla nel campo di quella regina,
     Qual per suo orgoglio, contra ogni ragione,
     Sta nello assedio di questo girone.

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         Tu montarai sopra il tuo palafreno:
     Baiardo, quel destrier, menalo a mano.
     Di tende e paviglioni il campo è pieno:
     Cerca tu quel del sir de Montealbano.
     A lui del bon destrier dà in mano il freno,
     E digli, poi ch’egli è tanto inumano
     Che comporta ch’io pèra in tante brame,
     Non vo’ che il suo ronzon mora di fame.

         Io non potrebbi mai già comportare,
     Che ’l suo destrier patisse alcun disaggio,
     A benchè lui mi venne assedïare,
     E femmi oltra al dover cotanto oltraggio.25
     Sol d’una cosa me può biasimare:
     Ch’io l’amo oltra misura; et ameraggio26
     Sin che avrò spirto in core e sangue adosso,
     O voglia, o non, però che altro non posso.27

         A lui ragionarai in cotal guisa,
     Et a trarne risposta abbi lo ingegno;
     Chè tanto è la pietà da quel divisa,
     Che forse di parlarti avria disdegno.
     Partendoti da lui, vanne a Marfisa,
     Nè far de onore o reverenzia un segno;
     Senza smontar d’arcione a lei te accosta,
     E da mia parte fa questa proposta.

         Diragli ch’io credetti che Agricane
     Dovesse per suo exempio spaventare
     E le genti vicine e le lontane
     Dal non dover con me guerra pigliare;
     Ma da poi ch’essa ancor non se rimane,
     Che gli altri se potranno ammaestrare
     Per lo exempio di lei, che tanto è paccia,
     Che bisogno ha d’aiuto e pur minaccia.

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         La damisella uscì di quel girone,
     E giù nel campo subito discese;
     La sua ambasciata fece al fio d’Amone
     Con bassa voce e ragionar cortese:
     Sempre parlando stette ingenocchione.
     Io non scio dir se ben Ranaldo intese,
     Chè, come prima odì chi la mandava,
     Voltò le spalle e più non l’ascoltava.

         Era con lui Astolfo al paviglione,
     Il qual, veggendo la dama partire,
     Che seco ne menava il bon ronzone,
     Subitamente la prese a seguire,
     Dicendo a lei che per dritta ragione
     Questo destrier potrebbe ritenire28
     Come sua cosa, poi che era palese
     Che esso l’avea condutto in quel paese.

         A concluder, la dama puotea meno,
     E il modo non avea da contrastare,
     Onde se lasciò tuor di mano il freno:
     Adietro l’ebbe Astolfo a remenare.29
     Or per quel campo d’arme tutto pieno30
     La messagiera se pone a cercare:
     Cerca per tutto, e mai non se rafina,
     Sin che fu gionta avanti alla regina.

         E non se sbigotì di sua presenzia,
     Ma fece sua proposta alteramente,
     Con ardire mestiato di prudenzia.
     Quella regina, che ha l’animo ardente,
     La odìa parlar con poca pacïenzia,
     E sol rispose: Bene è tostamente
     Il minacciar d’altrui; ma il fin del gioco
     È di cui fa de’ fatti e parla poco.

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         Lasciamo il ragionar della donzella,
     La qual, nel modo che aviti sentito,
     Tornò davanti ad Angelica bella;
     E ragionamo di quel conte ardito,
     Che per li fiori e per l’erba novella
     Via caminando è de una selva uscito;
     Fuor della selva, a ponto in su quel piano,
     Armato è un cavallier con l’asta in mano.

         Sopra d’una acqua un ponte marmorino
     Tenia quel cavallier in sua diffesa;
     Alla ripa del fiume, ad un bel pino
     Stava una dama per le chiome impesa,
     La qual facea lamento sì tapino,
     Che avrebbe di dolor quella acqua accesa;
     Sempre soccorso e mercede domanda,
     Di pianto empiendo intorno in ogni banda.

         Di lei molta pietà si venne al conte,
     E per ella sligare al pino andava.31
     Ma il campïon, che armato era sul ponte,
     — Non andar, cavallier! forte cridava;
     Chè fai a tutto il mondo oltraggio et onte,
     Dando soccorso a quella anima prava;
     Perchè l’antiqua etade e la novella
     Non ebbe mai più falsa damigella.

         Per sua malizia sette cavallieri
     Sono perduti e per sua fellonia.
     Ma ciò contarti non mi fa mestieri,
     Che troppo è lungo: vanne alla tua via;
     Lasciala stare e prendi altri pensieri.
Cari segnori e bella baronia,
     Stati contenti a quel che aveti odito:
     Per questa fiata il canto è qui finito.



  1. Mer. plebbe.
  2. P. e d’ogni sorte.
  3. Ml. e Mr. lamenda; P. l’ammenda.
  4. Ml. vuaro; T. e Mr. nuaro.
  5. P. R. di Belanda ancor rimare.
  6. T., Ml. e P. se urtarno.
  7. T. sbigottisce.
  8. Ml. di brando.
  9. P. a chino.
  10. P. compiuta.
  11. P. del petto.
  12. T. la redine.
  13. T. branze.
  14. P. e int. riguardando.
  15. T. e Ml. e fiero e.
  16. Mr. uscir.
  17. Ml. a parlar.
  18. Ml. e Mr. posso comandar; P. Quel posso com.
  19. Mr. mangagna.
  20. Ml. più chuna.
  21. Ml. e Mr. priega.
  22. T. puoti.
  23. P. il gran.
  24. Mr. e dolce.
  25. P. fammi.
  26. P. e l’.
  27. T., Ml. e Mr, voglio.
  28. Ml. e Mr. potria; P. poteva.
  29. T., Ml. e Mr. d’arme eglie.
  30. P. fece la proposta.
  31. Ml. e Mr. [el]la dislegare.