Satire di Tito Petronio Arbitro/16

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Capitolo decimosesto - La conversazione s’ingrossa

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo decimosesto - La conversazione s’ingrossa
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CAPITOLO DECIMOSESTO

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la conversazione s’ingrossa.



In mezzo a ciò un littore picchiò all’uscio della sala, ed entrò uno vestito di bianco, accompagnato da moltissima gente. Io atterrito da quella maestà mi credetti che entrasse un Pretore, onde feci per levarmi e pormi a piè nudo sul terreno. Agamennone rise di questo mio timore, e dissemi: sta quieto, sciocchissimo che tu sei. Costui è il Sestoviro Abinna, scultore in marmo, ed eccellente in cose sepolcrali.

Confortato da tai parole mi rimisi al mio posto, guardando con grande ammirazione Abinna, che entrava. Costui di già ubbriaco appoggiavasi colle mani alle spalle di sua moglie; egli era carico di varie corone, e per la fronte gli colava sino agli occhi l’unguento: postosi al primo luogo, chiese di subito vino, ed acqua calda.

Piacendo a Trimalcione codesta ilarità, volle che gli si portasse il bicchier più grande, e gli domandò come fosse ita.

Nulla ci mancò, rispos’egli, fuori che te: qui era io col cuore, ma davvero, che tutto andò bene. Scissa [p. 81 modifica]celebrava il nono anniversario del suo servo Misello, che egli fe’ libero dopo morte: ed io credo che oltre alla sua vigesima ei si avesse una buona giunta, poichè dicono ch’egli avesse cinquanta mila sesterzj.1 E sebbene dovemmo versar la metà del nostro vino sulle ossicelle del morto, tuttavia fummo allegri.2

Cosa aveste però da cenare? disse Trimalcione.

Lo dirò, se il potrò, rispose l’altro: perchè io sono di sì fragil memoria, che talvolta lo stesso mio nome dimentico. Ebbimo dunque per prima pietanza un porco coronato con salciccie intorno, e colle interiora benissimo condite; eranvi biete, e pan bigio, che io preferisco al pan bianco; e siccome egli fortifica, così, poichè mi giova, non me ne lagno. La seconda pietanza fu una torta fredda, sulla quale era sparso un eccellente miele caldo di Spagna, cosicchè io nulla mangiai della torta, e molto meno del miele. Quanto ai ceci ed ai lupini, ed al resto de’ frutti nulla più ne mangiai di quel che Calva mi suggerisse; due pomi però mi son preso via, che tengo chiusi in questo tovagliolino, perchè se io non porto qualche regaluccio al mio servitorello, ei sgriderebbemi; del che madonna saviamente suole ammonirmi. Oltre a ciò avevam dinanzi un pezzo di orsa giovane, di cui Scintilla avendo imprudentemente gustato, fu per vomitar le budella; io al contrario ne mangiai quasi una libbra, perchè sapea di cinghiale. Se l’orso, diceva io, mangia l’omiciattolo, quanto più l’omiciattolo mangiar deve l’orso! Finalmente ebbimo del cacio molle, del cotognato, delle chiocciole senza guscio, della busecchia di capretto, del fegato ne’ bacini, dell’uova accomodate, e rape, e senape, e bazze che parean pinte; benedetto Palamede, che le inventò! E furon portate intorno in una marmitta le ostriche, che noi non troppo civilmente ci presimo a piene mani, perchè avevam rimandato il presciutto. Ma dimmi un po’, Caio, per qual ragione Fortunata non è qui a tavola?

[p. 82 modifica]Tu ben la conosci, rispose Trimalcione; ella non si metterebbe un sorso d’acqua in bocca, se prima non ha ordinata l’argenteria, e divisi gli avanzi ai servidori.

Ma io, soggiunse Abinna, s’ella non viene, me ne vo; e facea per alzarsi, se, dato il segnale, quattro e più volte non chiamavasi Fortunata da tutta la famiglia. Infin ella venne, succinta con un casacchin verde, sotto al quale apparia la gonna color di ciliegia, e i calzari attraversati intorno alle gambe, e le scarpettine alla greca indorate. Allora asciugandosi le mani in un fazzoletto, ch’ell’aveva al collo, si assise sul guancial medesimo, ove giacea Scintilla moglie di Abinna, cui fe’ un bacio, mentr’ella rallegrandosi le dicea: È permesso di salutarti? I discorsi arrivarono poi a tale, che Fortunata levandosi dalle braccia le sue grosse smaniglie le andava mostrando a Scintilla, che ne stava maravigliata. Finalmente ella sciolse anche i calzari, e l’aurea sua reticella, dicendo ch’ella era d’oro finissimo.

Trimalcione che vi avea badato, fece portare il restante degli ornamenti, e disse: osservate quanti inceppamenti che han le donne: così noi goffi ci spogliamo per esse. Queste smaniglie denno pesare sei libbre e mezza; ed io ne ho pure di dieci libbre, fatte coi frutti di alcuni miei capitali. In ultimo, perchè non paresse di avere esagerato, fe’ portare una bilancia, su cui si pesaron tutte una dopo l’altra. Scintilla non volle esser da meno: e levossi di testa una scatoletta d’oro, ch’ella chiamava la sua gioia, e due gemme in forma di crotali, e dielle a sua posta a vedere a Fortunata, e disse: niuno al certo ha più bei gioielli di questi datimi dal mio signore.

Caspita! riprese Abinna, tu mi hai spolmonato, perch’io ti comperassi queste fave di vetro. Oh davvero, che s’io avessi una figlia, le mozzerei le orecchie. Se non ci fossero donne, tutto ciò parrebbeci fango; ma ora ci bisogna mangiar caldo e bever freddo.

[p. 83 modifica]Le donne intanto ridevansi di questi frizzi, e ubbriache baciaronsi, l’una esaltando nell’amica la diligenza di una madre di famiglia, e l’altra la delizia e la bontà del marito. Mentre così stavano abbracciate, Abinna levossi pian piano, e presa Fortunata pei piedi rovesciolla sul letto. Ah, ah! gridò ella, sentendosi la gonna rialzata al di là de’ ginocchi; e indecentemente in grembo a Scintilla nascose il rossor della faccia, coprendola col fazzoletto.

Poco dopo avendo Trimalcion comandato che si portasse il secondo servizio, i servitori levaron tutte le mense, e ne portaron dell’altre, spargendo limatura tinta di zafferano e di minio, e sottil polvere di pietra speculare,3 locchè io non aveva più veduto.

Tosto Trimalcione soggiunse: io potrei esser contento di quanto si è mangiato; ma poichè la tavola è rimessa, se nulla hai di buono, porta.

Intanto il donzello d’Alessandria, che distribuiva l’acqua calda, prese ad imitar l’usignuolo. Ma Trimalcione gridò: si cangi; ed ecco farsi un altro gioco: lo schiavo, che sedeva ai piedi di Abinna, stimolato, credo io, dal suo padrone, diessi tutto ad un tratto a cantare:

Intanto Enea spinto dal vento in alto
Veleggiava a dilungo ecc.

Giammai peggior suono mi percosse gli orecchi, perchè oltre ai strafalcioni di quel barbaro, e la voce ora bassa, or falsetta, ei vi mischiava de’ versi comici, cosicchè fu allora la prima volta, che mi dispiacesse Virgilio. Quando finalmente per istanchezza ei si tacque, Abinna disse: non è egli vero che costui impara? Altre volte io udia che bisognava mandarlo ai circoli; pur vedete ch’ei non ha pari, o imiti egli i vetturini, o i saltimbanchi. Egli è poi ingegnosissimo, quando non ha un soldo; [p. 84 modifica]allora gli è calzolaio, cuoco, fornaio, allievo insomma di tutte le muse. Egli ha però due vizj, i quali se non avesse, non mancherebbegli nulla: egli è stordito e dormiglione; giacchè non faccio alcun caso, che egli sia losco. Ei guarda come Venere,4 ed è perciò che non sa tacere: lo pagai appena 300 denari, credendo che gli mancasse un occhio.

Scintilla lo interruppe, dicendo: tu non racconti tutte le malignità di questo birbantello. Gli è il tuo favorito; ma saprò ben io farlo bollare.

Sorrise Trimalcione, e disse: io conosco quel Cappadoce: ei non vuol perder nulla, e perdio, io ne lo lodo perchè ei non ha il suo simile; ma tu, Scintilla, non volerne esser gelosa: credi a me, te pure io conosco. Così, possa morir s’io mento, così io ho usato di assediare lo stesso Ammea, sicchè il padron nostro ne sospettò, onde mi relegò in campagna. Ma sta zitta, o io ti darò pan pe’ tuoi denti.

Lo schiavo briccone, quasi di ciò si tenesse lodato, trasse di seno una lucernetta di terra, e si fece a suonarla a guisa di trombetta per più di mezz’ora, accompagnato da un versaccio di Abinna, il qual colla mano tiravasi in giù il labbro inferiore. Finalmente ei si avanzò nel bel mezzo, ed or danzava battendo certe canne fesse, or coperto di una zimarra e colla frusta imitava il parlare de’ mulattieri, finattanto che Abinna chiamatolo il baciò, e diègli a bere, dicendo: sempre meglio, o Massa;5 io ti regalo un paio di calze.

Non sarebbe mai giunto il termine di questi fastidj, se non fosse venuta l’ultima portata composta di un pasticcio di tordi, di zibibbo, e di noci condite. Tenner dietro i pomi cotogni contornati di chiodelli di garofano, che pareano tanti porcispini: e tutto ciò era pur passabile, se non si fosse data un’altra sì pessima vivanda, che prima di mangiarne avremmo voluto morir di fame. Quando fu in tavola, noi pensammo che fosse [p. 85 modifica]un’oca ripiena contornata di pesci e d’ogni sorta d’uccelli; di che Trimalcione avvedutosi disse: tutto questo piatto sorte da un corpo solo.

Io, come uomo intelligentissimo, m’avvidi tosto di quel che era, e volgendomi ad Agamennone dissi: io resto maravigliato, come tutti codesti ingredienti sieno accomodati, in guisa che paion fatti di creta. E so di aver veduto a Roma nel tempo de’ Saturnali di simili cene finte.

Ancor non finivano queste mie parole, che Trimalcione disse: così possa io crescer di ricchezza se non di corpo, come tutti questi intingoli il mio cuoco ha fatti col maiale. Non può darsi più prezioso uomo di lui. Se il volete, egli di un conno vi farà un pesce, col lardo un piccione, col presciutto una tortora, delle budella di porco una gallina; perciò gli è stato a genio mio posto un bellissimo nome, perchè egli chiamasi Dedalo; e siccome ha egli gran fama, uno gli portò da Roma de’ coltelli di Baviera.6 E sì dicendo comandò che gli si recassero, li osservò con ammirazione, e ci permise di provarne la punta sui nostri labbri.

Al tempo stesso entrarono due schiavi in aria di litigar tra di loro un cingolo, di quelli cui si attaccano i vasi, che costoro si tenean sulle spalle. Trimalcione avendo pronunciata la sua sentenza, nè l’un nè l’altro volle accettarla, ma ciascheduno ruppe co’ bastoni il fiasco dell’altro.

Sopraffatti noi dall’insolenza di quegli ubbriachi li tenevam d’occhio, e vidimo che da quei rotti vasi eran cadute ostriche e pettini, le quali un donzello raccolse, e in una marmitta ci recò intorno.

Il cuciniere ingegnoso secondò queste splendidezze, perchè portò lumache sopra una graticola d’argento, e cantò con voce tremula e spaventosa. Io ho rossore a narrare ciò che seguì. Imperocchè i chiomati donzelli, (cosa non più udita) portando unguenti in un catin [p. 86 modifica]d’argento, unsero i piedi agli sdraiati commensali, dopo aver loro allacciate e gambe e piedi e calcagni con varie ghirlande. Poi l’unguento medesimo fecer colare ne’ vasi di vino, e nelle lucerne.

Fortunata avea già dato segno di voler saltare, già Scintilla facea più applausi che parole, quando Trimalcione disse: Permetto a te, Filargiro, e a te Carrione, che sei famoso viaggiatore, ed alla tua moglie, o Minofilo, di sedervi a tavola.7

Che più? Noi fummo quasi cacciati dai nostri cuscini, tanto la sala erasi tutta empiuta di domestici. Io vidi collocato sopra di me quel cuoco, che di un pezzo di maiale aveva fatto un’oca: e’ puzzava di salamoia e di condimento: e non pago di sedersi a tavola cominciò a declamare per un buon tratto il tragico Tespi, indi provocò il padron suo a scommettere, che egli messosi nel partito verde avrebbe ne’ prossimi giochi circensi riportato il primo premio.

Tutto allegro Trimalcione di questa disfida, amici, disse, gli schiavi sono pur uomini, ed han bevuto lo stesso latte di noi, benchè un perverso destino gli opprima; pure, se il ciel mi salvi, essi respireranno presto un’aria libera. Insomma io li sciolgo tutti di schiavitù nel mio testamento.

Io lascio a Filargiro un campo e la donna sua. A Carrione lascio un’isola, l’un per cento sopra i miei beni, ed un letto compiuto. Quanto alla mia Fortunata io la faccio erede universale, e a tutti gli amici miei la raccomando. Tutte queste cose io rendo pubbliche, onde la mia famiglia tanto ora mi ami, quanto mi amerà allorchè sarò morto.

Mettevansi tutti a render grazie di tanta bontà al padron loro, quand’egli, sospendendo ogni facezia, si fe’ portar copia del testamento, che tutto egli lesse da principio sino alla fine, in mezzo ai sospiri della famiglia. Rivoltosi poi ad Abinna, che ne dì tu, carissimo [p. 87 modifica]amico, gli disse; stai tu fabbricando il mio sepolcro, come ti ho ordinato? Io ti prego caldamente, che ai piedi della mia statua tu scolpisca la mia cagnolina, e le corone, e gli unguenti, e le battaglie da me sostenute, in modo che io possa vivere dopo morto per opera tua. Fa inoltre che la facciata sia lunga cento piedi sopra ducento di altezza. Io voglio parimenti che intorno al mio cadavere si piantino pomi d’ogni qualità, e assai vigne. Perchè ei sarebbe cosa bene strana, che i luoghi de’ quali io ebbi tanta cura vivendo, fossero negligentati, quand’io vi ho da stare sì lungo tempo. Perciò voglio sopra tutto che vi si metta questa iscrizione:


QUESTO SEPOLCRO

L'EREDE NON ABBIA.8


Finalmente io disporrò nel mio testamento le cose in modo, che nessuno debba farmi ingiuria quand’io sarò morto: perchè io destinerò un liberto alla custodia del mio sepolcro, onde il popolo non venga a sconcacarvi. Ti prego altresì che le navi che scolpirai sulla tomba, camminino a vele piene, e che io sia seduto in tribunale, colla toga, con cinque anelli d’oro, e con un sacco di danari in atto di spargerli al pubblico: giacchè ben sai, che io ho dato un pasto, e regalate due monete d’oro a ciascuno: onde puoi pure rappresentarvi il popolo in massa facendo baldoria. A destra mi porrai la statua della mia Fortunata con un colombo in mano, e conducente la sua cagnolina annodata ad un nastro; porrai anche il mio Cicarone,9 e grossi fiaschi ben turati, onde non ne svapori il vino, un de’ quali rappresenterai rotto, e un fanciullo piangente appoggiatovi: siavi in mezzo un orologio posto in guisa che ciascuno che osservi le ore, debba, voglia o non voglia, legger [p. 88 modifica]pure il mio nome. Quanto all’Epitaffio vedi un po’ attentamente se questo ti paia abbastanza conveniente:


C. POMPEO TRIMALCIONE MECENAZIANO

QUI RIPOSA

A LUI ASSENTE FU IL SESTOVIRATO

CONCESSO

E POTENDO IN TUTTE LE DECURIE AVER LUOGO

PUR NOL VOLLE

PIO, FORTE, FEDELE.

CREBBE DAL POCO

E LASCIÒ TRECENTOMILA SESTERZJ

NÈ MAI DIÈ RETTA A' FILOSOFI.

IMITALO.


Come ciò Trimalcione ebbe detto si mise a piangere amaramente: Fortunata anch’ella piagnea, e piagnea Abinna; tutta finalmente la famiglia empiè la sala di lamenti, come se si trovasse presente ai funerali: laonde io pure mi diedi a lagrimare. Allora Trimalcione disse: dappoichè sappiamo di dover morire, perchè dunque non ci affrettiamo a vivere? Pel piacere di vedervi felici, andiamo a gittarci nel bagno; rispondo io che non ci sarà motivo a pentirci, perch’egli è caldo al par di un forno.

Vero, vero, rispose Abinna: io non ho paura a bagnarmi due volte in un giorno; e rizzossi a pie’ nudi, seguendo Trimalcione, che era allegrissimo.

Io volsi l’occhio ad Ascilto, e gli dissi: che pensi tu? quant’a me, il bagno, solo in vederlo, mi fa morire.

Assentiamoci, egli rispose, e intanto che essi vanno al bagno, noi usciamo insiem colla turba.



Note

  1. [p. 301 modifica]La manumissione de’ schiavi, mentr’erano moribondi, avea per oggetto principale la cupidigia d’impadronirsi in quel momento di maggior copia de’ beni, di quel che fosse la vigesima parte, la quale per diritto passava ai padroni.
  2. [p. 301 modifica]Specie di libazione, o abluzione che facea parte dei riti funerari.
  3. [p. 301 modifica]Quella che presso noi chiamerebbesi sabbia d’argento, prodotta dallo sminuzzamento di alcuni che i naturalisti chiamano quarzi in mica argentea.
  4. [p. 301 modifica]Parmi aver letto altrove, che Venere fosse losca: qui sembra che le sia attribuito questo difetto, quasi come una bellezza. Or va e giudica de’ gusti.
  5. [p. 302 modifica]Questo Massa fu celebrato anche da Giovenale e da Marziale. Il primo dice di lui nella satira 2.
  6. [p. 302 modifica]Notisi come le manifatture di ferro erano sin da que’ tempi perfezionate in Germania.
  7. [p. 302 modifica]Tra i modi praticati per dare la libertà ad uno schiavo, cioè inter amicos, ovvero per epistolam, apud Consilium, ovvero apud Consulem, quello pur v’era per mensam, facendo sedere lo schiavo alla tavola del padrone, e dichiarandolo libero. Così Nodot.
  8. [p. 302 modifica]Che è quanto dire: questo monumento ad altri mai non appartenga che a Trimalcione. La sua famiglia, e i di lui successori vadano a farsi seppellire altrove. Orazio nella satira 8, lib. 1.
    Mille pedes in fronte, trecentos cippus in agrum
    Heic dabat: haeredes monumentum ne sequeretur.
  9. [p. 302 modifica]Costui è figliuolo del liberto Enchione, il qual di sopra ne ha raccontato i talenti. Forse egli era prediletto anche da Trimalcione, il qual non avea figli.