Sopra le Odi di Orazio tradotte da Mauro Colonnetti/A Giovanni Adorni da Parma

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A Giovanni Adorni da Parma

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Sopra le Odi di Orazio tradotte da Mauro Colonnetti
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A GIOVANNI ADORNI


DA PARMA.

È verissimo, o mio caro Giovanni, quel che disse un poeta; cioè che anche i libri hanno la loro stella: perchè molti non sono in quella universale estimazione, in che vorrebbero esser tenuti; ad altri succedette fama a’ loro meriti molto superiore. Della quale stranezza non iscarsi esempj ti potrei dire, s’egli stesse bene di farlo. Ma un esempio chiarissimo è la traduzione delle Odi d’Orazio del signor Tommaso Gargallo; la quale da molti è avuta in prezzo di buona e forse eccellente, dove sembra a molt’altri non pur lontana dall’eccellenza, ma poco surta fuori dalla mediocrità. Capisco bene che per non parerne migliore alcun’altra innanzi di questa, le fu conceduto (massime dagli ordinarj maestri della rettorica, per lo più simiglianti alle pecorelle dantesche) la palma sopra tutte le antecedenti; ed io, stringendomi nelle spalle, non le invidierò questo onore. Ma il povero Flacco ebbe la disgrazia, comune alla massima parte degli scrittori latini, di aver avuto in Italia traduttori o mediocri o cattivi; sicchè il vincer la generazione de’ cattivi e de’ mediocri essendo fatica poco lodevole, il signor Gargallo, per la facile vittoria, non può andar glorioso, come vorrebbe, non egli, ma chi ha manco giudizio di lui. Ogni scrittore buono ha certe particolarità, che danno una propria stampa al suo stile; alle quali bisogna che abbia fino riguardo chiunque si conduca a tradurre; al modo che un valente ritrattista pone l’occhio, non che ad altro, alla incarnazione de’ volti. E come non sarebbe ritratto sincero quel, che, imitando pure le fattezze di essi, facesse bianco del bruno, o smorto del rubicondo; così senza dubbio si rimane illaudata quella traduzione che esprima la verità de’ concetti di un autore, senza ritrarne l’imagine dello stile e della favella. Forse dirai: se queste due cose vi sono come che sia manchevoli e difettose; non è prudente consiglio rifiorirle in istato di miglior condizione? Quanto alla lingua rispondo del sì, perchè questa rappresenta l’universale, non l’individuo; quanto allo stile, rispondo a viso aperto del no, perchè questo ritrae l’indole propria dello scrittore; e mutando l’uno, si viene a mutare ancor l’altra. Dimmi in buon’ora: chi traslatasse Cicerone con istile nervoso, stringato e, dirò, brusco; o Tacito con facile, ampio e diffuso, costui ci farebbe conoscere la natura di que’ due sommi? Chi non conservasse a Seneca que’ suoi nodi e scorci e scollegamenti, e quella vena che sa del poetico, e lo fa singolare da tutti i prosatori del Lazio, ci darebb’egli il ritratto di Seneca? Non crederei già io per affermarmelo mille; chè chi riforma non traduce, ma crea. Sia pur bello e utile castigare lo stile di uno scrittore quale si voglia: ma questo ripiego sarà simile all’usato da [p. 4 modifica]Apelle, allorchè dipinse Antigono ciero da un occhio: vo’ dire, ce lo darà sol mezzo a vedere. Lo stile d’Orazio è un miracolo d’arte e d’ingegno, e non ha di bisogno il soccorso dei traduttori; ma la musa gargalliana l’ha disformato con tante e così gravi magagne, che io non fo maraviglia che molti giudiziosi nomini la pospongano a quella del Pallavicini. E nel vero; Orazio ci consola d’una musica bensì tutta virile e dignitosamente romana, ma insieme armoniosa e soave; il Gargallo ne fa quasi sempre sentire il rimbombo, che, dal nome di chi lungamente gli orecchi italici ruppe e squarciò, suol chiamarsi frugoniano. Orazio è sempre poetico, sempre vivo di spiritose eleganze e, più d’ogni altro Latino, saporoso di greca venustà e gentilezza così ne’ traslati, che ne’ costrutti e modi del favellare; il Gargallo è spesse volte prosaico, spessissime disadorno, e sempre digiuno di quell’attica nutritura con cui primamente il Chiabrera la poesia, e il Giordani la prosa invigorirono. Finalmente ad Orazio non fallisce mai quella splendida brevità, che si conviene ad un lirico; il Gargallo all’opposito stempra i concetti di lui con tante circonlocuzioni, epiteti e altri suoi ghiribizzi, che toglie loro o la vivezza od il nerbo. Pensi ognuno che vuole: a me l’animo non consente opinione altra da questa; e da un pezzo facea voti acciò che il principe de’ latini lirici, anzi, a detta di Quintiliano, il solo di essi degno che si legga da noi, parlasse una volta con la nativa sapienza l’italiano linguaggio, o, come direbbe Dante, il nuovo latino. Ed ecco per nostra ventura l’intero volgarizzamento del signor Colonnetti (del quale, molti anni fa, con alcuni Saggi ne aveva invogliato acutissimo desiderio; sebbene vi fossero cose non per anco di quell’ultima pulitura, a che nel volume testè reso alle stampe si veggono bellissimamente ridotte); ove sono ad Orazio vendicate, se non tutte le sfolgoranti sue bellezze, certamente uno splendore di tante, che ben può dirsi risorto a una vita, che mai non ebbe sul Parnaso d’Italia. Sopra tutto io vanto il nobile traduttore dell’aver saputo conservare quell’urbano costume, onde il venosino poeta ingentilì mirabilmente i suoi versi, e rinfrescò nuovo colorito alla lingua nativa per via d’atteggiarne a un non so che di pellegrino le parole e le forme; che tolte dal luogo, ove sono poste da lui con quella fortunatissima audacia, che M. Fabio gli loda, di leggieri cadrebbero o in una trivial bassezza, o in una matta licenza. Non credere alle mie parole. Da un confronto, che voglio fare di due Odi del Gargallo con due del Colonnetti, vedrai tu medesimo come questi sia vincitore di grandissima lunga. Scelgo di quelle, ove Orazio, quasi dimenticando di vivere sotto Augusto, si fa panegirista della spenta repubblica, e spiega più liberamente le ali del suo poetico ingegno.

Ode xii. del lib. i.
GARGALLO COLONNETTI

Qual prode, o eroe prendi a lodar, o Clio,
Con lira o flauto acuto? Omai con lieta
Voce l’eco qual nome, e di qual Dio
Fia che ripeta

Qual grande, qual eroe prendi, o qual Dio
Con lira o flauto a celebrar, cui lieta
Del suono imitatrice, o bella Clio,
L’Eco ripeta,

La strofa del Colonnetti è felicissima. In quella del Gargallo è somma l’asprità del primo verso per le molte elisioni e lo accozzamento di quattro erre, che lo fanno ringhiar come cane. Il qual difetto noto una sola volta per [p. 5 modifica]tutte l’altre; chè altrimenti mi converrebbe trascrivere due terzi della versione gargalliana. Il secondo verso casca giù come un uomo preso da apoplessia. Le parole prode ed eroe non rendono il concetto d’Orazio. Nella nostra lingua il vocabolo eroe, non mantenendo la originale significazione, che aveva presso i Greci e i Latini (i quali chiamavano eroe, come scrive Luciano, chi era nè tutto uomo nè tutto Dio, ma insiem l’uno e l’altro, e veniva dopo morte deificato) è sinonimo di prode; sicchè il traduttore mentisce il testo d’una mala ripetizione. Vir è un semplice uomo illustre per nobili geste, come furon Camillo, Regolo, Paolo: heros è ciò che ho detto, cioè un semideo, come furono Alcide, Bacco e i figliuoli di Leda. Lodare dice assai meno che il latino celebrare: questo importa una lode data con una certa solennità pubblica, come a punto fa un eccellente poeta, che, interprete de’ sentimenti dell’intera nazione, canta le glorie e le virtù di chi la prospera e regge. Finalmente l’altra ripetizione qual nome e di qual Dio, e l’oziosissimo omai fanno increscer molto del traduttore; che pur non ci rende la bella perifrasi oraziana dell’eco.

G. C.

Sul Pindo, o sul fredd’Emo, o lungo il giro
Ombroso d’Elicona, onde le piante
Scesero in frotta miste, e Orfeo seguiro
Armonizzante,

Là in Pindo, o all’ombre d’Elicona in seno,
O tra le valli del fresco Emo, dove
Le foreste qua e là d’Orfeo seguieno
Le voci nuove;

Con pari felicità è lavorata la traduzione del Colonnetti; in quella del Gargallo si noti 1. la maniera non giusta nè logica: lungo il giro. Si dirà lungo un viale, lungo le mura, lungo una riva; ma lungo un circuito ha non so quale contraddizione di senso, che forte sgradisce. 2. Le piante è un dir meno enfatico, che le selve (silvae) del testo; che dinoterebber la plenitudine delle piante seguitatrici d’Orfeo. Ma qui Orazio con ardita e bella metonimia, usata innanzi a lui da Lucrezio, pone le selve per gli animali che v’abitano: e me ne persuade egli stesso. Il quale noverando gli effetti della musica, o, a dir più vero, della sapienza di quell’antico filosofo, passa gradatamente dalle cose animate alle inanimate; cioè dalle bestie ai fiumi, ai venti, alle piante. In altro modo nel verso: Blandum et auritas fidibus canoris Ducere quercus ripeterebbe il pensiero di sopra espresso: Unde vocalem temere insecutae Orphea silvae. Che te ne pare? son possibili a Flacco le così fatte grossezze e balordaggini? 3. In frotta miste è pleonasmo non esprimente, come il tèmere, la confusione e l’impeto degli animali nel tener dietro al prodigioso cantore. 4. Il capriccio di trasportare i nomi de’ tre monti, distrugge l’artificio lirico usato da Orazio per ben connettere l’episodio breve sopra i canti d’Orfeo. Invocata una sola musa, prega che l’Elicona ed il Pindo, ove tutte l’altre hanno stanza, facciano eco alle sue parole; e la preghiera è compiuta a super Pindo. Pure in grazia della poetica virtù di quell’antico, aggiunse l’Emo, quasi degna abitazione delle nove sorelle; ma a bell’arte lo aggiunse da ultimo, a fine di rivolgere la nostra imaginazione alla patria di lui; e così avere l’addentellato per collegarvi adattamente la strofa sopra i miracoli operati nella Tracia, e non mica nella Beozia, come parrebbe dalla versione gargalliana; in cui l’onde vale dal quale Elicona, mentrechè nel testo l’unde vale ex quo Haemo.

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G. C.

Che a’ fiumi, e a’ venti col materno dono
L’impeto avvinse, e per incanto ignoto
Diede alle querce di sue corde al suono
Orecchio e moto?
Ma d’onde ordir? Del Genitor le usate
Laudi io dirò, che terra e mar governa,
Uomini e Numi, e al mondo le attemprate
Stagioni alterna.

Ch’ei per materna alta virtù potea
Fermare ai fiumi il corso e l’ale ai venti;
E le querce l’udian, che al suon traea
Obbedienti.
Lode al gran Padre; ed a cui prima? Ei regge
Gli uomini e i Numi; Ei le stagioni alterna,
E le terre ed il mare e il ciel non legge
Certa governa:

Nelle strofe del Colonnetti tutto mi piace, tranne le parole certa governa per l’uniformità delle lor desinenze; e l’obbedienti, che áltera il concetto d’Orazio; il quale col bel grecismo blandum ducere volle significare che Orfeo sì divinamente cantava, che fino alle querce n’eran prese d’amore, e volontariamente il seguivano. Ora nell’ubbidienza è sempre un non so che di sforzato e dispiacevole a praticarsi. Nelle strofe del Gargallo, oltreché l’avvincer l’impeto ai fiumi ed ai venti non è buona metafora; la frase diede moto alle querce non accenna che Orfeo se le traesse dietro; perchè uno può muoversi senza seguire un altro. Perciò la viva imagine oraziana scompare; anzi mutasi in una quasi ridevole fantasia. Come no? dove il poeta latino ci presenta le querce affollarsi vogliosamente su le orme d’Orfeo; il Gargallo le fa saltabellare come una ragunata di villanotte quando menano il ballonchio a suono di pifferetti.

Nelle due strofe susseguenti i traduttori nostri gareggiano alla lode del meglio. Vero è che il Colonnetti nella dolcezza e nell’armonia (virtù quasi ignote alla musa napolitana) si mostra - Quegli che vince, e non colui che perde.

G. C.

Alcide, e i figli canterò di Leda,
Quest’in destrier, quegl’in lottar gran maestro,
Di cui come il nocchier risplender veda
Candido l’astro:

Canterò Alcide, e i gemini Ledei,
Al corso l’uno, al cesto l’altro invitto:
Astro di speme al buon nocchier da’ rei
Turbini afflitto:

È dissensato ad ogni sapore di buono stile chi non preferisce questa versione del Colonnetti; e non confessa la scabrosità di que’ troncamenti destrier, lottar, gran, nocchier, risplender ammassati dall’altro. Al quale dimanderemo eziandio che cosa voglia significare esser mastro in destrieri? L’elegante grecismo: nobilem superare equis dinota la valentia di Castore negli equestri combattimenti; ma il crearlo maestro in cavalli, o (per non favellare alla barbara) di cavalli, non è altro che avvilirlo al mestier del cozzone o del maniscaldo, o, al più, del cavallerizzo. E qui giovi osservare che anche l’espressione del Colonnetti: invitto al corso è ambigua, perchè mal ci chiarisce se Castore fosse invitto nel corso a piedi o nel corso a cavallo; nè bene interpreta il testo; ove si loda l’equestre bravura del detto figlio di Leda, che guadagnò chiara fama tra gli Argonauti. Anche Omero lo chiama Κάστορά ιππόδαμον; il qual aggiunto (da Virgilio poi frequentato a commendare la molta prodezza di celebri cavalieri) con verità si conviene a chi stanca i cavalli battagliando valorosamente sovr’essi.

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G. C.

Da’ sassi i flutti mormorosi scendono,
Tacciono al cenno (si lor piacque) i venti;
Sgombran le nubi, e chete in mar si stendono
L’onde frementi.

Ei fulge, e cade il mar giù dagli scogli,
Fuggon rotte le nubi, il vento tace,
Ed al cenno divin, posti gli orgogli,
L’onda si giace.

Qui il Colonnetti supera a cielo il Gargallo, ed anche migliora il testo1. Quel mare che cade giù dagli scogli, e quell’onda, che, deposti gli orgogli, si giace son due botte maestre che mi toccano l’ugola. All’opposito il Gargallo coll’aggiunto affettato, e, per così dirlo, bembesco di mormorosi, e col finimento sdrucciolo del terzo verso, che è in contraddizione all’idea significata, cioè del mare che si rabbonaccia e sta, toglie il più bello della strofa latina.

G. C.

Quirin cantar poi deggio, e l’ozïosa
Età di Numa, o di supermi armato
Fasci Tarquinio, o ver la generosa
Morte di Cato?

Chi dopo lor? Quirino padre, o il santo
Numa, o i fasci superbi e la coorte
Del Prisco forse, o di Catone io vanto
La nobil morte?

Nulla appare nella versione del Colonnetti che non sia degno di lode; tutta ritenendo la gravità conveniente a Romolo, a Pompilio, a Catone. Il Gargallo innanzi tratto mi fa stomaco battezzando di ozioso il regno di Numa. Ebbe egli dunque l’impudenza di recare tanta ingiuria a quel buon Sabino, che, come scrive Livio, aggrandì Roma con le arti della pace, non meno che Romolo con quelle della guerra avesse fatto? A quali scuole vennegli appreso tranquillum valere ozioso? Risponderà che siccome ozio usurpasi alcuna volta per quiete, riposo, così ozioso per quieto, tranquillo. Me lo sapeva: ma per usar lodevolmente certe parole, si vuol essere cauto a non generare anfibologie. Se uno, volendo lodarsi al principe della tranquillità che noi Lombardi godiamo di qua dietro a ventitrè anni, gli dicesse: Iddio ci feliciti lungamente nel vostro oziosissimo regno; non correrebbe costui qualche risico? Il Gargallo inoltre dicendo: Tarquinio armato di fasci ne toglie il bello ardimento d’Orazio, che pose per la cosa il simbolo della stessa; i fasci cioè per lo regno. Un uomo armato di fasci dà piuttosto l’imagine d’un littore, che quella d’un re.

G. C.

Grata in tuon più sublime il canto inanima
Mia Musa a celebrar gli Scauri e Attilio,
E al Peno vincitor di sua grand’anima
Prodigo Emilio.

A Regolo, agli Scauri, a Paolo ch’ebbe
Tant’alma, e contor l’africana piena
La prodigò, i grati carmi debbe
L’alta Camena.

Si faccia al vero giustizia. A questo passo la traduzione del Gargallo ha un non so che di più vivo, e in ispecialità la frase inanimar il canto è molto briosa. Il secondo verso, e il latinismo Peno sono durezze insoffribili. Quella del Colonnetti è assai più finita; e, se non ci avesse, per così dire, spezzato il concetto risguardante il console Emilio, finitissima.

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G. C.

Austera povertà, picciol tugurio
Avito fondo dier Camillo a Roma
Prode guerriero, e ’l buon Fabrizio, e Curio
Da l’irta chioma.

Nè Fabrizio, nè Curio irto, o Camillo
Taccia, cui crebbe ai lauri l’incallito
Viver aspro, e l’umil Lare tranquillo
Nel fondo avilo.

Il dire Curio irto è più forte, che Curio dall’irta chioma; crebbe ai lauri più poetico e più elegante, che diedero a Roma guerriero; e saeva paupertas è meglio tradotta da viver aspro, che da povertà austera. Notisi in fine con quale accorgimento il Colonnetti conservi l’urbanità di stile, che, come ho premesso, è sì nativa nel Venosino, traducendo le parole avitus apto cum lare fundus. Così non fece il Gargallo; però che quel suo tugurio offende Camillo e l’elevatezza dell’argomento, porgendoci idee di rusticità e di disagio, mal convenienti all’abitazione di quel pro’ cittadino. Tugurio presso i Latini valeva capanna; quindi Virgilio: Pauperis et tuguri congestum cespite culmen: presso noi dinota qualunque casaccia di gente poverissima e abbietta; e l’uso lo prende sempre in cattiva parte.

G. C.

Qual arbor, che insensibil forza aduna
Dagli anni, il nome di Marcel si stende:
Di Giulio l’astro, qual fra stelle luna,
Fra tutti splende.

La fama di Marcello in alto tende,
Qual per virtù secreta un’arbor bella;
Qual Cinzia fra i minor’ lumi risplende
La Giulia stella.

La seconda versione è in tutto e per tutto esatta, nobile ed elegante. E della prima che ti pare, o Giovanni? Quanto a me, passando in silenzio il brutto lamdacismo stelle luna, dirò primamente essere cosa molto diversa astro Giulio (denotativo il giovine Marcello, o Marcellotto, come lo chiama Vittorio) da astro di Giulio; che non potrebbe fare altra allusione, salvo ad un punto della pagana teologia, risguardante il destino d’ogni uomo: per cui venne quella sciocca superstizione di recar alle stelle ogni umana ventura e disavventura. Oltreciò la pittoresca espressione: velut inter ignes luna minores, che accende nella nostra fantasia le migliaia di stelle tremolanti in un bel plenilunio per tutti i seni del cielo, questa espressione, io dico, è dilavata dalla comunissima: qual fra stelle luna. Il vocabolo ignes sveglia più vivamente e più presto l’imagine dello splendore; e il comparativo minores fa grandeggiare il subbietto della similitudine.

G. C.

Saturnio Dio, padre e tutor degli uomini,
Fato commise a te serbare al mondo
Il gran Cesare, e a noi; Cesare domini
A te secondo.

Tu che Cesar dai fati in guardia tegni,
O padre delle genti e re del mondo,
Regna, o Saturnio, ed il gran Cesar regni
A te secondo:

La strofa del Colonnetti è bella per ogni rispetto; sebbene avrei desiderato che non vi fosse il durissimo accozzamento delle due erre nelle parole Cesar regni. In quella del Gargallo la voce Dio è inutile; tutore è voce prosastica, la quale avvilisce il concetto oraziano, massime per lo molto e trito uso che se ne fa oggi ne’ tribunali; e il terzo verso è una sconciatura sì fatta, che non l’accetterebbe per sua nè pure il camarlingo delle goffaggini letterarie...

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G. C.

O che in giusto trionfo i Parti ei tragge,
Che già sul Lazio soprastavan fieri,
O da rimote orientali piagge
Gl’Indi, ed i Seri;

Giusto trionfator tragga in catene,
I Parti formidati, al Lazio fieri,
E dall’estreme orientali arene
Pur gli Indi e i Seri:

Qui ambedue mi fanno dispiacevole il primo verso con le quattro sillabe to, tri, ti, tra, che pare un salterello che scoppi. Soprappiù il Gargallo, usando tragge in luogo di tragga, dà in una brutta licenza, che molti a ragione chiameranno errore in grammatica.

G. C.

Giusto e minor di te la terra ei curi:
Tu rimbombar sotto il gran carro il cielo,
Tu rovesciar farai su’ boschi impuri
Vindice telo.

Ei saggio per te regga i popol vasti;
Col grave cocchio tu l’Olimpo scuoti,
Tu con le ultrici folgori i non casti
Luchi percuoti.

Se domandassi quale ti sembra migliore di queste due stanze, crederei fare ingiuria al tuo buon gusto; perchè il Colonnetti traduce da vero maestro, e (non imputandogli a colpa la stroncatura di popoli, che a me pare alquanto sforzata) con grande abbondanza e facilità di poetica vena: il Gargallo da principiante. In fatti curar la terra è modo basso e prosastico; rovesciar teli è un parlare appena comportabile ad un Tedesco che barbareggi la nostra lingua. Dirò anche aver più forza e sublimità: quaties Olympum, che farai rimbombare il cielo; meglio esprimere la infiammata ira di Giove il plurale fulmina, che non un telo; e tenére un certo che di più splendido e più maestoso gravi curru, che sotto il gran carro. Ora esaminiamo

Ode iii. del lib. iii.
G. C.

Non popolo furente
Di colpe instigator, non fier cipiglio
Di tiranno, che altrui sforzi al delitto,
Nè dell’implacid’Adria Austro fremente
Duce può il giusto in sua sentenza invitto
Scuter giammai dal fermo suo consiglio;
Nè del gran Giove il fulmine sonante.
Con impavido ciglio,
Se de l’eteree spere in pezzi infrante
L’alta compage piombi
Stto il suo ruinar fia che s’intombi.

Chi tenace è del suo giusto consiglio,
Non l’iniquo imperar di plebe ardente,
Nè d’instante tiranno il truce piglio
Svolger mai puote la sua salda mente;
Non de l’Adria signor l’Austro lo move,
Nè l’ignea mano del tonante Giove;
Disfatto cada il mondo,
Impavido morrà sotto il gran pondo.

Nella traduzione del Colonnetti, eccettuato il gran pondo, che mal conserva l’imagine d’una ruina, tutto mi riesce e mi gusta. Oh quante mende nell’altra! Instigator di colpe è una freddura verso il prava iubentium; che denota l’onnipotenza di un popolo commosso a ribellione ed a furia; che è, non solo [p. 10 modifica]instigatore, ma autore di novità ne’ governi civili. Che altrui sforzi al delitto è un’espressione che commenta l’instantis, ma non ne imita la terribile dipintura. Questo epiteto solo ferma la nostra immaginazione su la faccia di quel tiranno; e non sapendo che voglia, nè che minacci, pensiamo; e il dar da pensare è un effetto della poesia maraviglioso e potente. Scuoter uno dal suo consiglio è maniera da lasciare a chi scrisse la Madonna d’Imbevera, o altrettal ciarlivendolo. Sonante è un epiteto ozioso, che diminuisce la terribilità del fulmine, e la grande idea che siamo soliti concepirne. Con impavido ciglio non esprime la interna sicurezza che francheggia gli uomini giusti e costanti sotto l’usbergo della netta coscienza. Uno può fingere intrepidezza nel volto, e tremare dentro di sė; essere, come dice Omero, cane agli sguardi e al cuor cervo. Oltrechè viemmi qui a proposito un’osservazione del Foscolo; che è questa. «La personificazione di una parte del corpo servirà egregiamente a simboleggiar la persona, ove di questa non si parli; ma ove il campo principale e l’azione siano sostenute dalla persona vera, la personificazione contemporanea di una parte subalterna del corpo, è una puerilità rettorica». Così egli censurava il Minzoni dell’aver dato il pentimento alla mano di Adamo (Al crin canuto... Con la pentita man fe’ danni ed onte); e così io censuro il Gargallo di un simil difetto. Se dell’eteree spere ecc. D’un consumato di polli qui si fa un brodo lungo e disgustoso fino alla nausea: due parole latine (fractus illabatur) dilagate in un verso e mezzo!!

G. C.

Fu già questo il sentiere,
Onde l’errante eroe da l’eteo rogo
Giunse, e Polluce a la stellata rocca,
Tra cui sedendo Augusto, ammesso a bere
Il nettar fia con la purpurea bocca.
Per tal sentier dome da ignoto giogo,
Padre Lieo, le tigri a’ seggi eterni,
Ov’hai ben degno luogo,
Te trasportaro: co’ destrier paterni
Per tal sentier la bruna
Schivo Quirino acheruntea lacuna.

Perché tal fu Polluce e il vago Alcide,
Sforzár l’Olimpo che suoi Dei gli scorge;
Là dove Augusto in mezzo a lor s’asside,
E le purpuree labbra al néttar porge:
Tal fosti, o Bacco padre, e te al sereno
Ciel le tigri levár, docili al freno;
Quirino con tal arte
L’Orco fuggi su i corridor di Marte.

La versione del Colonnetti, comechè il quinto verso non mi vada tutto a sapore, è felicissimna; il Gargallo tirò giù la sua malamente. Orazio col solo vagus descrive le imprese di Ercole direi quasi meglio che Virgilio non fa con dodici versi. Questo epiteto è sì qualificante e proprio di quell’eroe, che l’adornarvi altre parole avrebbe traviato il poeta dal principale argomento. Il Gargallo, non pur aggiuuse, ma toccò una circostanza, che voleva essere taciula. In quest’Ode si cantano le lodi della rettitudine e della costanza; per le quali molti uomini furono messi in cielo dalle nazioni per loro beneficate. Tra questi si annovera il faticoso figlio di Alcmena; e per ciò era necessario passarsi di tutte le allusioni che potessero scemare od oscurar le glorie, e quindi il merito dell’apoteosi, di lui. Ma il traduttore, stiracchiandovi dentro il rogo eteo, risuscita nella nostra memoria gli adulterj e le lascivie, che menarono Alcide al doloroso passo di gittarsi nelle fiamme: e così riducendo a meno la riverenza debita alle virtù di [p. 11 modifica]quel valoroso, diminuisce eziandio le ragioni di proporlo a specchio di rettitudine e di costanza. Ammesso a bere è dizione trivialissima. Ber con la bocca, è ridicola; e usata dal traduttore per bieca interpretazione del concetto d’Orazio. Il quale pose ore purpureo a significare l’insigne splendore dell’aspetto d’Augusto deificato. Sai che da’ Latini eran chiamate purpuree le persone e le cose di somma venustà e grazia. Dome da ignoto giogo dice tanto meno delle parole: indocili iugum collo trahentes, quanto uno scarabocchio dell’antico Margaritone men che una pennellata del Bonarroti.

G. C.

De’ Celesti al concilio
Queste allor Giuno accolte voci aprio:
Una straniera adultera, un fatale
Giudice incestuoso in cener Ilio,
Ilio volser; d’allor che ’l disleale
Laomedonte i fabbri Dei fallio
Dell’attesa mercede a lor fatica;
Sin d’allor sacre al mio,
E a lo sdegno di Pallade pudica
Le iliache torri furo
E ’l popolo esecrato, e ’l re spergiuro.

E fu quel di che a secondar le brame
Del concilio divin Giuno dicea:
Ilio è polve, Ilio è polve, e d’un infame
Fatal giudice è colpa, e d’un Achea:
Benchè d’allor che Laomedon fallio
Della mercè gli Dei, Troia col rio
Duce fu maladetta,
E data a Palla ed alla mia vendetta.

Qui, per dir vero, si l’uno che l’altro, troppo teneri, come pare, di annodar le idee precedenti con la parlata, onde Orazio, con sì felice riuscimento, digredisce a descrivere la romana potenza, tolgono la sublime rapidità del trapasso o volo, che tu voglia dirlo: tanto più bello, quanto meno aspettato. Chiarirò la mia riflessione con un esempio. Ne’ Sepolcri del Foscolo è un luogo mirabile, ove il poeta dal monumento di Vittorio in Firenze, balza alle tombe che gli Ateniesi posero a Maratona a’ loro concittadini morti per la libertà della patria:

......Ah sì! da quella
Religiosa pace un Nume parla:
E nutría contro i Persi in Maratona...
La virtù greca e l’ira.

Se un qualcheduno (ponghiamlo tra’ romanzieri, così alti a sconciare le cose belle) volendo imitare il concetto di questi versi, dicesse: «Ah sì! da quel sepolcro un Nume favella; quel Nume che facea fremer Vittorio contra i nemici dell’Italia, e che un tempo nutriva ne’ Greci la virtù e l’ira contra i Persiani»; costui, esprimendo le idee intermedie, che il Foscolo tacque, torrebbe da questo luogo l’apparente scollegamento che lo sublima per eccellenza. Del resto la versione del Colonnetti è bella assai; e migliore per avventura sarebbe, se avesse mantenuto la forza degli epiteti pellegrina, che usò Giunone, per non dir donna greca, cioè di quella nazione ch’ella sì amava, e fraudolento, che specifica la reità di Laomedonte, di cui la Dea fa rampogna allo stesso Priamo, innocente prole di lui. Nella gargalliana le parole esecrato, fabbri, a lor fatica e il secondo d’allor son tutte borraccia; accolte è voce ambigua, perchè non s’intende se [p. 12 modifica]voglia dir voci messe insieme, adunate nella sua mente, ovver grate ed accette. Da ultimo nota meco, o Giovanni. Con arte grandissima Orazio fa profferire a Giunone, innanzi ogni altra cosa, il nome di quella città che le avea cagionato rabbia ed affanni. Troia, quando ella parlava, non era più; ma comincia il suo parlamento da Troia, come oggetto de’ suoi superbi trionfi. Il quale esordio è secondo la natura di un animo passionato. Il Gargallo, invertendo l’ordine de pensieri, ne toglie la veemenza e la naturalezza.

G. C.

Omai già più non osa
Gloriarsi l’infame ospite altero
De le spartane mal tradite piume;
Non di Priamo la stirpe, a’ Numi odiosa,
Con braccio ettoreo rintuzzar presume
Le schiere achee; del guerreggiar, cui fero
Lungo nostr’ire, è alfin l’ardor sopito.
Ecco l’odio primiero
Che in me fervea sì caldo, e l’aborrito
Nipote, a cui fu madre
La troiana Vestale, io rendo al Padre.

Più non splende il famoso ospite, drudo
Della Spartana, nè più a Grecia tutta
Gli spergiuri Priamidi lo scudo
Oppongon d’Ettór; cessò la lutta
Cui fe’ lunga la nostra opra rivale.
All’avverso figliuol della Vestale
Iliaca perdono;
E l’alta ira, e il nepote a Marte io dono.

Orazio costruendo al dativo adulterae il verbo splendet, acquistò al suo pensiero una grazia nuova di stile, che manca alla strofa del Colonnetti, per altro elegante e tersissima. Il Gargallo, non pur non ne fece caso, ma tradusse tutto alla peggio. E prima, dicendo Giunone che Paride non prestigiava più gli occhi all’infida Spartana, vuol dire che egli era morto; ma perchè faceva la sviscerata de’ Greci, sceglie ad ingegno un’espressione che diminuisca il peccato di Elena, tratta a consentire in lussuria col troiano ospite per la somma bellezza, che, siccome canta Omero, lo rendeva simile a un Dio. E che non può la bellezza? Ma il Gargallo acconcia in bocca alla Diva dalle cerulee pupille una cosa non vera; cioè che Paride gloriasse d’aver viziato il talamo altrui. E d’onde sepp’egli che quel Troiano si recasse a merito le sue brutte lascivie, all’usanza dei Lazzaroni più svergognati? Con braccio ettoreo. Queste parole non possono interpretarsi che dette in modo patronimico; cioè con braccio forte come quello di Ettore; ma per opibus hectoreis s’intende, com’è chiarissimo, Ettore stesso; a cui solo Giunone attribuiva la difesa di Troia, per detrarre alla fama degli altri degni Troiani. La stirpe a’ Numi odiosa. Veggasi come la smania disonesta delle amplificazioni ha fatto volgarizzare il domus periura! Con qual fronte Giunone avrebbe potuto in pien concilio asserire la discendenza di Priamo esser odiosa agli Dei, se a molti, anzi alla metà di loro, fu sempre cara e diletta? Se ciò avesse affermato alla loro presenza, io m’imagino che l’avrebbero pettinata a mal modo; il che non accadde per lo senno d’Orazio, che le tenne la briglia; nè credo sarà accaduto alcuni anni fa, quando cicalò per la bocca del signor Gargallo, perchè tutti gli Dei di M. Varrone, adunatisi in lega, cominciavano a prepararsi alla guerra, che, a sommossa de’ romanzieri, a lor muovevano le streghe, i folletti, i lémuri e simil generazione, sbucata dalle nebbie settentrionali al puro ciclo d’Italia.

[p. 13 modifica]

G. C.

Ch’entri in quest’aurea sede,
Che il nettar sugga, che tra’ Numi seggia,
Or che tra l’ordin divo omai già doma
Tace Discordia, a lui Giunon concede,
Purchè lungo urli ’l mar fra Troia e Roma;
Purchè alle teucre insulti urne la greggia;
E le belve e’ lor part impune il nido
V’abbian;

Agli astri ci salga, e le dolcezze apprenda
Del nettar, fonte d’immortal riposo,
E del bel numer un fra i Numi splenda;
Io non dissentirò. Ma procelloso
Un vasto mar da Roma Ilio sepári
E alle tombe di Priamo e di Pari
L’armento faccia insulti
E vi celin le belve i parti inulti.

Nel Gargallo non ti piacerà quel giochetto sugga-seggia; ti moverà sdegno la parafrasaccia: Or che tra l’ordin divo ecc. nè approverai l’ammanierato fiorentinismo e’ lor. Che diremo del sesto verso? Giunone, per far intendere Troia esser caduta nell’ira del cielo pe’ suoi delitti, in luogo di lei nomina Priamo e Paride; questi infame per lo ratto di Elena, quegli per l’indole frodolenta, dal padre, secondo ella credeva per odio, discesa, nel figlio. Le somiglianti particolarità formano il bello dello stile poetico, ed in ispecie dell’oraziano. Il Gargallo, nominando le urne teucre, universaleggia, e fa grande scapito d’evidenza. Come giudichi della seconda versione? non ti prova ella che il Colonnetti sa gustare le più segrete bellezze del suo poeta? Nondimeno io non posso tacergli che l’espressione: da Roma Ilio sepári mi torna assai fiacca in paragone della latina: inter saeviat Ilion Romamque. È vero che traducendo la quasi medesima idea, ripetuta più sotto, se ne rifà: chè dove il testo ponè: quá medius liquor secernit ecc. egli lo vantaggia di eleganza e di forza, ponendo: dove tra il Mauro e il lito Ispano Ferve sdegnosa l’onda. Ma siami lecito aprirgli una mia considerazione; sottile, ma vera: ed è questa. Che quando Orazio ha voluto significare il molto spazio che corre tra Roma e Troia, ha scelto parole (longus saeviat pontus) che bene dipingessero l’ampiezza dei mari mediterranei, che distaccavano quelle due grandi città; per converso accennando allo stretto di Gibilterra, ne usò tre affatto comuni (medius liquor secernit), appropriate all’umiltà della cosa; mettendo in pratica la bella dottrina ch’egli apprese ai Pisoni.

G. C.

....regnar si veggia
Lieta l’esule gente in ogni lido,
Eterno il Campidoglio,
Servo de’ Medi ’l trionfato orgoglio.
Di Roma il nome gridi,
E ne tremi del mar l’ultima sponda;
Dove i frapposti gorghi ondeggian ampi
Fra l’Europa e i divisi afri Numidi;
Dove tumido il Nilo irriga i campi.

Esule dalla Frigia, abbia felice
Il popol nuovo in qual sia loco impero;
Rifulga eterna la Tarpea pendice,
E possa ai Medi trionfati il fero
Lazio dar leggi, orrendo al più lontano
Confin dove tra il Mauro e il lito Ispano
Ferve sdegnosa l’onda,
E dove i campi il gonfio Nil feconda.

Niuno potrà negare che, levando via dalla Frigia (inutile aggiunta, e forse dannosa, perchè circoscrive l’idea dell’esilio) sia tutta elettissima cosa la traduzione del signor Colonnetti. Nell’altra è stravagante in eccesso la locuzione regnar [p. 14 modifica]servo; si desidera la sublimità del verso: Horrenda late nomen in ultimas Extendat oras; reca fastidio il ripieno degli epiteti afri e divisi (san fino ai pesciolini che i Numidi eran popoli africani, e in conseguenza disgiunti dall’Europa per li gorghi frapposti); e finalmente è impicciolito il pensiero: secernit Europen ab Afro. Orazio, per magníficare, secondo il vezzo de’ cortigiani scrittori (nel cui numero egli fu; sebbene non meritasse di esservi aggreggiato da colei che è sempre avversa dei buoni) le vittorie da Augusto riportate sopra l’Egitto e la Spagna, pone il tutto per la parte; e così ci presenta il coronato suo protettore quasichè padrone dell’Europa e dell’Africa; di cui solo una porzione è la Numidia; dal Gargallo accennata a servigio della rima, alla quale si spesso è devotissimo servitore.

G. C.

Di lei, che a l’oro, cui la terra asconda,
(Meglio allogato allor) cura nè prezzo
Aggiunge, si diffonda
Più lodato il magnanimo disprezzo,
Che se ad usarne avara
Man rapace avventasse al tempio e a l’ara.
Tocchi, qual mai resista
Confin del mondo, con le invitte scuri;
E si affretti a veder tra’ regni sui
Ove il foco si spazii, ove la trista
Procella frema, ove la nebbia abbui.

Dispregi l’oro, che ben meglio giace
Sotterra occulto, e Roma gloriosa
Anzi che a trarre con la man rapace
A profan’uso ogni più santa cosa,
Fia che con l’armi le contrarie attinga
Parti estreme del mondo, e il corso spinga
Ove più verse il cielo
Furor d’ardori, ove di nebbie e gelo.

Qui il Colonnetti in un verso e mezzo volgarizza con bella disinvoltura ciò che il Gargallo in quattro, pieni di affettazione e di stento. Quest’ultimo, in una postilla all’ode terza del libro secondo, avvertì i lettori (addandosi egli stesso del suo difetto) che le terzine richiedon talvolta qualche perifrasi per ben accordare il sentimento al metro. Quantunque sia questa una scusa, per non dir peggio, appiccata con la scialiva, avvegnachè il metro non debba essere il letto di Procuste; pure non me ne offenderei, se non usasse perifrasi salvo nelle terzine. Ma egli, senza una discrezione al mondo, se n’aiuta per ogni metro; sicché dove Orazio con due, tre parole suggella in noi le imagini sue chiaramente, il traduttore le offusca, e dandocene sol de’ barlumi, ci fa dire: ella è non è, come chi vede le cose da sera sotto luna scema. Ecco una prova di ciò nelle parole: si diffonda più lodato il magnanimo disprezzo di lei. Che v’intendi tu mai? vien Giunone augurando a’ Romani il disprezzo delle più lontane nazioni, o che altro? Se Orazio non ci fosse Edipo, capiremmo niente. È poi maniera non buona aggiunger cura a checchessia; pleonasmo inelegantissimo al tempio e all’ara; stranezza volgere pluvii rores in trista procella; e a cui paresse bel cambio ove il foco si spazii per qua parte debacchentur ignes, farebbe più stima d’un vetro che d’una perla, come gl’Indiani dell’occidente. Anche mi dà maraviglia che il Gargallo (il quale mostra la sua grande perizia nell’idioma latino in una nota a quest’ode, ove ci avvisa che medius liquor sono due voci comunissime) non abbia compreso il facile concetto del verso: Quicumque mundo [p. 15 modifica]terminus obstitit, Hunc tangat armis; che suona letteralmente: stenda il dominio a qualunque paese chiuda i confini dell’orbe; cioè fino ai termini posti alla nostra abitazione terrena da Colui che volse il sesto allo stremo di essa, secondo l’Alighieri divinamente cantò. Egl’in fine non ha conservato (e questa volta nè pure il signor Colonnetti) l’esattezza e vivacità di quel visere gestiens; che descrive la maraviglia che i Romani avrebbero nel vedere i paesi collocati sotto le zone torrida e fredda, e la loro allegrezza per la conquista di quelli.

G. C.

Questa sol una ne’ be’ di futuri
Legge prescrivo a’ bellici Quiriti:
Che non vogian securi
Troppo in sè stessi, e troppo a’ tetti aviti
Pietosi, osar che alfine
Ilio risurga da le sue ruine.
A ruina più fiera,
Se con auspici di novello lutto
Troia venisse del suo cener fuora,
Io la trarrei, di vincitrice schiera
Fattami duce; io sposa a Giove, io suora.

Ma questa ai fati suoi la legge sia:
Non osi mai, troppo di sè sicura
La gente di Quirino, o troppo pia
Di Troia riparar le avite mura.
Sorgerà Troia con lugubri auspíci
A un altro eccidio, e guiderò le ultrici
Caterve a stragi nuove,
Io suora ed io consorte al sommo Giove.

In amendue mi dispiace il vocabolo suora, che a’ tempi nostri, per le vicende della favella, sente di monastero. Nel Colonnetti, tranne questo picciolo neo, tutto è oro: nel Gargallo è mondiglia la locuzione non voglia osar che risurga, e i due versi che borrevolmente volgarizzano l’elegante Troiae renascens alite lugubri. Oltracciò fa rinnegare la pazienza il vederlo così trascurato e incurioso nelle proprietà delle voci; avendo usato qui bèllico in cambio di bellicoso. Bèllico si dice delle cose che hanno comunquemente rispetto a guerra, come: bellici carmi-strumenti bellici: Bellicoso delle persone atte alla guerra, come: uom bellicoso - bellicosa nazione. La differenza fu ben sentita da Orazio; che al Romano ed al Cantabro die’ nome di bellicoso, e res bellica chiamò la milizia. Ne’ bei di futuri è un po’ della solita frangia, ond’è scialaquatamente infrangiata la traduzione dell’egregio signor Gargallo; il quale ne’ sopraccennati versi ha pure (a che tacerlo?) svigorito il testo d’assai, tralasciando la ripetizione reparare Troiae - Troiae renascens, che dipinge il concitato animo della superba imperatrice degli Dei.

G. C.

Tre volte Febo il muro in bronzo tutto
Se rialzi; tre volte da l’argiva
Mia gente fia distrutto:
Sì verserà la vedova captiva
Sul sasso amato tanto
Sorgerà Troia con lugubri auspici
Del consorte e de’ figli il terzo pianto.
Canzon dov’ergi l’ali?
È a tant’opra inegual scherzosa lira;
Audace il vol ritira.
Non è da te ridir degl’immortali
Gli arcani accenti, e menomar ristretti
In tenui modi altissimi subbietti.

Tre volte Febo ne rialzi il forte
Muro, e tre volte fia disperso al suolo
Da’ miei Greci, e pei figli e pel consorte
Sarà tre volte la Cattiva in duolo...
Ma dove, o Musa? ai lievi giuochi avvezza,
Deh non ti pigli di ridir vaghezza
Le parole de’ Numi:
Troppo alto segno saettar presumi.

[p. 16 modifica]Coll’usata eleganza, armonia e sugosità finisce l’ode il signor Colonnetti; coll’usata disavvenentezza e scabrosità la finisce il Gargallo, inacquandola senza modo. E nota il bellissimo granchio a secco da lui preso nell’interpretazione dell’ultimo verso latino: Desine Magna modis tenuare parvis. Lo vedi? Egli con le parole: Non è da te menomare alti subbietti in tenui modi dice proprio il contrario di ciò che Orazio ha voluto dire; il quale prega la Musa a far punto, perchè ella sviliva le parole divine. E qui fo punto ancor io. I ragionati confronti basteranno a provare come l’antica versione sia vinta dalla novella; alla quale mentre noi promettiamo una vita durevole e chiara, pregherem la Fortuna acciò che non canti l’esequie nè pure all’altra, finchè l’autor suo, letterato di molto nome, oda le adulazioni di quegli spiritocchi2 che per paura de’ vivi non sogliono dir il vero che a’ trapassati. Pigliamo intanto allegrezza, o mio buon Giovanni, che lo studio dell’antica letteratura sia continuo ed acceso negl’ingegni più eletti; e stiamo a vedere che cosa faranno gli oracoli della nuova; i quali finora non han donato l’Italia (miseria suprema e innegabile) d’un sol libro che possa infuturar le sue lodi nella posterità. Rimanti con Dio; e amami, come fai.

Di Como a’ dì 3 febbraio, 1838.

IL FINE.

Note

  1. [p. 19 modifica]Io mi sono proposto di esaminare due sole Odi, e però non posso mettere in campo tutti i luoghi del testo, che il Colonnetti ha migliorato; ma bene giudicò il signor Temistocle Solera, giovane colto e di nobile ingegno, che molte volte il nuovo traduttore pone innanzi il piede ad Orazio. Può a suo talento certificarsi di questo incontrastabile vero ognuno che possegga un po’ più di giudizio, di buon gusto e di perizia nelle lingue italiana e latina, che non mostrò il signor Jacopo Cabianca in quella sua scrittura pubblicata nel giornal milanese, intitolato: Glissons, n’appuyons pas. Fra gli altri appuntamenti, che egli fa all’ode decimaquarta del libro primo, dice esser «male aggiunta la parola sciogliere all’integre vele, giacchè la nave avevale di già sciolte, ed il male stava in ciò ch’esse erano state volte dai venti». Signor Giacomo, vi manderemo alla scuola d’Orbilio a imburchiare un po’ meglio le coniugazioni de’ verbi; avvegnachè per non sapere che referent è futuro, vi lasciaste sdrucciolare, per dirla all’omerica, dalla chiostra dei denti uno sproposito da cavallo. Il Venosino, vedendo i Romani, non ancor domi dalle disgrazie patite per le recenti guerre civili, macchinar novelle sommosse, prende a svolgerli da intenzione così funesta. E, forse per non accattarsi odio, lor favella sotto velame allegorico; ponendo la nave per la repubblica, le tempeste ed il mare per le discordie intestine, il porto per la tranquillità che essi allora godevano. E: O nave (le grida) vorrai tu di bel nuovo arrischiarti alla discrezione de’ venti, ora che stai nel porto così malconcia dalle passate burrasche? non far per Dio! sta salda, ove tu sei: occupa portum. Dunque la nave non avea sciolto le vele, ma stavasi ancóra nel porto; poichè il poeta la consiglia a non discostarsene punto; dunque il Colonnetti ha inteso il concetto d’Orazio assai bene. Mi ha poi fatto sbellicar delle risa la vostra censura al verso: Giove al tonar che è re del ciel fa fede. Voi dubitate se sia tutta soavità; credo io, per li monosillabi, ond’è composto; e mi recate alla memoria la risposta che un pedante Scolastico fece un giorno al Petrarca, che l’avea chiesto, perchè vituperasse il secondo lume de’ Latini, Virgilio. È soverchio (disse colui) nelle congiunzioni. I monosillabi, quali che sieno essi, aiutano la dolcezza del ritmo; il fatto sta nel saperli collocare in modo che diano consolazione all’orecchio, evitando i troppo duri e spessi accozzamenti delle lettere consonanti e delle sillabe per la loro uniformità cacofoniche; come nel verso del Gargallo: Tien regno, il tuon creder ci feo primiero sono que’ tien, tuon, re, cre, pri, ro, che fanno una musica disperata. Nella traduzione del Colonnetti ho notato io pure alcun verso, che pecca in ciò; ma il citato da voi, non può dispiacere a nessuno, tranne chi ha la smania di contraddire alle opinioni sensate. Il trattenermi a ribattere le altre vostre censure mi parrebbe gittata opera; più tosto vi sia di giovamento avvisare la stravagantissima interpretazione gargalliana del Coelo tonantem credidimus lovem Regnare. Orazio vuol dire: Noi sogliam credere che Giove regna nel cielo, ogni volta che egli vi tuona; e il concetto è nobile e vero. Il signor Marchese al contrario dice: che il primo tuono che Giove tuonò fece a noi credere che egli regna lassù; e il concetto divien falso e indicibilmente puerile. Avea forse Orazio udito il primo tuono di Giove? Il secondo, il terzo e gli altri susseguenti non facevan più il medesimo effetto?... Freno la bocca, perchè qui ne direi delle belle. Scommetterei che il Gargallo fu condotto in errore dal credidimus che il poeta latino usò (come altrove altri verbi: a cagion d’esempio: veraces cecinisse — fecisse curas) alla maniera greca in forza d’aoristo, per credere solemus. Di simili granchi la versione del Napolitano è piena e zeppa. Dio v’aiuti, signor Cabianca, a pescarveli; che in quella del Colonnetti non ne troverete pur uno di sì sterminata grossezza.
  2. [p. 20 modifica]Fra’ quali sarà senza dubbio chi censurò il Colonnetti dell’aver tradotto col sonante vocabolo alloro il latino palma; dicendo che ne’ giuochi, onde parla Orazio, non si conquistava l’alloro, perché non erano mai d’alloro le corone che in questi casi venivano imposte ai vincitori. Io credo che colui, quando così scriveva, farneticasse per eccesso di febbre. Primamente i giuochi, di cui parla Orazio, sono gl’instituiti da Ercole in Olimpia a riverenza di Giove; dove ottenevano i vittoriosi non già rami di palma, sì corone d’oleastro, o, come si raccoglie da Aristotile e da Pindaro, di glauco olivo. Onde anche Flacco, se guardassimo unicamente alla storia, sarebbe caduto nel grave errore di scambiar l’ulivo con la palma, come il Colonnetti scambiò la palma con l’alloro. Ma essi parlarono da poeti; e bene assai. Perocchè così questo che quella valgono per metonimia precisamente il medesimo (cioè vittoria) tanto nella nostra, che nella latina favella: e quindi si può in tal senso usurpare ad arbitrio palma ed alloro; come hanno fatto i classici italiani e latini, che quel cotale doveva leggere prima di levarsi a censore. Di più, sebbene l’alloro, fosse lo speciale premio ne’ giuochi pizii; pure se ne incoronavano i vincitori in qualunque giuoco della Grecia, e massimamente gli olimpionici, per memoria della famosa lotta in cui dicevasi Apollo aver vinto Marte e Mercurio. Se quell’A... non vuole star alla mia sentenza; segga una mezz’ora in qualche biblioteca, e dalle dissertazioni del Corsini, e del Conti impari quel non picciolo rimanente di cose, che sono il proposito, e gioveranno la sua povertà letteraria.