Aggiustare il mondo - Aaron Swartz/I primi vent'anni/3. L'incontro con Lawrence Lessig

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I primi vent'anni - 3. L'incontro con Lawrence Lessig

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3. L'incontro con Lawrence Lessig


San Francisco, California, dicembre del 2002. Aaron ha appena compiuto sedici anni.

È in corso, in una sala-conferenze gremita, l’evento di lancio del progetto Creative Commons, un’ambiziosa e sofisticata strategia per la liberazione della cultura e dei contenuti online.

I fondatori, le fondatrici, decine di studiosi, studiose e ospiti si danno il cambio sul palco per illustrare con entusiasmo le basi e i punti specifici dell’iniziativa. Tra il pubblico vi sono centinaia di programmatori, attivisti, imprenditori, musicisti, registi, informatici e politici.

Il podio per i relatori è in legno, abbastanza spartano, con alcuni computer portatili impilati con cura.

Aaron, data la sua statura, arriva a malapena al microfono. Nelle riprese video, in rete, che hanno custodito la memoria di quell’evento, appare emozionato ma, poi, si rivela sicuro nel parlare e, soprattutto, sembra estremamente convinto di ciò che sta dicendo. Il suo laptop bianco gli fa da scudo, e ogni tanto si aiuta con qualche appunto su carta per recuperare il filo del discorso.

Il ragazzo si trova lì per spiegare in maniera semplice cose complesse a un pubblico di adulti: sta realizzando, in pratica, uno dei sogni della sua vita.

Il dubbio originario, in capo agli organizzatori, era se quel consesso così importante fosse in grado di prendere sul serio la presentazione di un adolescente.

L’adolescente, dal canto suo, di dubbi non ne aveva: per quasi cinque minuti parlò senza fermarsi e illustrò l’architettura informatica che aveva in mente e che venne, poi, incorporata in quel progetto che diventerà Creative Commons.

Da lì in avanti, Aaron Swartz sarà sempre considerato come uno degli “architetti” della parte più tecnologica di Creative Commons, ossia di quello che è, probabilmente, l’aspetto più innovativo delle licenze che stavano per essere presentate per la prima volta.

Dopo aver partecipato alla creazione delle specifiche RSS, Aaron lasciava così la sua impronta in un altro progetto che avrebbe cambiato sensibilmente il modo di interpretare il copyright nella società digitale.

Sul suo blog, in un post del 5 marzo 2002 (“Aaron joins Creative Commons as RDF Advisor”), il ragazzo aveva annunciato l’inizio di quella attività:

Oggi ho avuto, finalmente, il permesso di annunciare al mondo che sto lavorando al progetto Creative Commons in qualità di RDF Advisor. Non posso dire in dettaglio cosa sto facendo, se non che mi sto occupando di RDF, e che sto fornendo loro una consulenza. Ora mi stanno gentilmente accompagnando alla Emerging Technology Conference di O’Reilly, dove il progetto farà il suo debutto. Riporto, qui di seguito, alcune dichiarazioni, citazioni, comunicati stampa e note di programma [p. 46 modifica] della conferenza: Creative Commons, ideato dal professore di legge di Stanford Lawrence Lessig, intende produrre licenze per la proprietà intellettuale flessibili e personalizzabili che artisti, scrittori, programmatori e altri creatori di contenuti potranno ottenere gratuitamente al fine di definire, da un punto di vista giuridico, l’uso consentito del loro lavoro da parte di terzi. Lisa Rein, che si occupa dell’architettura tecnica, illustrerà, e dimostrerà, come il progetto utilizzi JavaScript, Perl, HTML e XML per creare un’applicazione basata sul web pensata per generare metadati associati alle opere digitali in un formato che sia leggibile dalle macchine. I metadati aiuteranno a costruire licenze innovative e flessibili progettate per aiutare i creatori di opere dell’ingegno a condividere il loro lavoro con il pubblico a condizioni convenienti. I motori di ricerca, le applicazioni di condivisione dei file, gli strumenti di gestione dei diritti digitali e tutte le altre tecnologie emergenti riconosceranno, così, automaticamente le condizioni di utilizzo di tali opere.

L’idea di Creative Commons era venuta nel 2001 a Lawrence Lessig, giurista nordamericano.

Il suo obiettivo era quello di facilitare la condivisione e l’accesso alle opere dell’ingegno nel mondo digitale e in rete, al fine di dar vita a una società tecnologica che fosse più equa, accessibile e innovativa.

Il grande costituzionalista voleva, in pratica, partire dal diritto d’autore, e dai suoi limiti, per cambiare il quadro giuridico, economico e politico esistente.

Il cuore del progetto, e gli strumenti che avrebbero portato a questo cambiamento, prendevano la forma, essenzialmente, di licenze d’uso, le “licenze CC”, che erano state pensate non tanto per restringere eventuali utilizzi delle opere ma, al contrario, per cercare di aumentare i margini di libertà in capo ai loro utilizzatori.

Si partiva, quindi, da un elemento legale tradizionalmente restrittivo – un tipico contratto di licenza d’uso – per adattarlo, sempre rimanendo nell’alveo del diritto e della tutela giuridica, a una società tecnologica, e a un mondo di creatori, che erano radicalmente cambiati e che richiedevano, a gran voce, nuove forme di fruizione più libere, liquide e versatili.

Un riferimento importante, per Lessig, erano state le licenze libere che si erano diffuse per il software, in particolare la GPL di Richard Stallman, alla base del movimento GNU/Linux che aveva, tanti anni prima, “liberato” il software.

Si voleva riprodurre ciò che era accaduto con il software libero nel mondo dei contenuti che, appunto, non fossero software: scritti, video, opere musicali e teatrali, fotografie, ossia tutti quei prodotti della cultura che stavano alimentando la rete in quegli anni e che, spesso, erano creati dagli utenti stessi.

Secondo Lessig, e altri studiosi, tutti avrebbero dovuto avere piena coscienza del termine “software libero” e della cultura, e filosofia, ad esso sottesi, per ben comprendere anche il loro progetto CC. [p. 47 modifica]

Le origini di un’idea di software libero si possono localizzare nel campus del MIT, dove, negli anni Ottanta, prese forma e vita la Free Software Foundation, presieduta da Richard Stallman.

Il software libero è, in estrema sintesi e nell’interpretazione del suo fondatore, un codice informatico che porta con sé una “promessa”. In realtà, le promesse del software libero sono ben cinque, quattro esplicite e una correlata e implicita. Queste prime promesse esplicite sono numerate da zero a tre e sono le seguenti: 0) la libertà di fare funzionare, e utilizzare, il programma per qualsiasi fine; 1) la libertà di studiare come funzioni il programma, e di adattarlo alle proprie esigenze; 2) la libertà di ridistribuire copie del programma con il fine di aiutare il prossimo; 3) la libertà di migliorare il programma e di rilasciare i propri miglioramenti al pubblico, di modo che ne possa beneficiare l’intera comunità dei programmatori e degli utenti.

La prima e la terza libertà portano a un’altra libertà finale, ancora più importante: la necessità imprescindibile dell’accesso al codice sorgente del programma.

Un software che offra agli eventuali utilizzatori tutte queste libertà è considerato libero; un software che non preveda anche solo una di queste libertà, non lo è.

Stallman presentò il suo movimento come una reazione ai cambiamenti che erano avvenuti nell’ambiente di sviluppo del software. Nel mondo che lui aveva conosciuto, i programmatori erano una sorta di “scienziati etici”: lavoravano su problemi d’interesse comune e condividevano la conoscenza che il loro lavoro generava. Stallman creò, allora, una struttura che avrebbe permesso di preservare quell’integrità che i programmatori pensavano dovesse caratterizzare il loro ambiente.

La base di questa struttura sarebbe stata un sistema operativo libero, ispirato da Unix ma non Unix, e chiamato GNU, “Gnu is not Unix”.

In quegli anni, l’obiettivo di Stallman sembrava irraggiungibile, anche perché nessuna persona, e nessun gruppo di volontari, aveva mai avuto successo nel terminare un progetto-software che prevedesse la creazione di un sistema operativo completo. Stallman e i suoi collaboratori iniziarono, però, con piccoli, ma importanti, passi, e crearono un compilatore, GCC, e l’editor Emacs. Tutto questo software fu basato, per quanto riguarda la sua creazione e la sua distribuzione, su quella che molti reputarono l’idea più brillante di Stallman: una licenza d’uso volta ad assicurare che il codice che lui stava costruendo rimanesse per sempre libero.

Dopo sei anni di progetto, tuttavia, a GNU mancava un kernel, il cuore del sistema operativo che fornisce il controllo dell’hardware di un computer.

Questa parte non fu aggiunta da Stallman ma, nel 1991, da Linus Torvalds, uno studente finlandese che avviò, di sua iniziativa, la programmazione di un kernel rilasciato in base a licenza GPL. [p. 48 modifica]

Gli hacker iniziarono a integrare il kernel in GNU/Linux e, più o meno a metà degli anni Novanta, apparve un intero sistema operativo libero e funzionante che si diffuse attraverso Internet, sino a diventare un diretto concorrente di Microsoft Windows.

Non appena il movimento del software libero prese forza, iniziarono ad essere chiariti alcuni punti essenziali, soprattutto dal punto di vista del possibile impatto economico di questo nuovo modo di concepire lo sviluppo dei programmi per elaboratore.

Innanzitutto, fu evidenziato come il software libero si potesse anche usare in ambito commerciale e imprenditoriale e come potesse, poi, essere venduto a qualsiasi prezzo di mercato ritenuto congruo; sempre, però, mantenendo il codice libero e a disposizione di tutti. Il mondo del business avrebbe potuto garantirsi profitti producendo, o supportando, software libero, e la cosa interessò immediatamente alcune grandi aziende, tra cui IBM e HP.

Il parallelo tra il software libero e la cultura libera è molto forte, anche se occorre fare alcune distinzioni.

A differenza del software, la cultura, ricorda Lessig, ha sempre avuto un elemento di controllo proprietario, pur essendoci, contemporaneamente, un incoraggiamento della produzione di cultura libera.

La partecipazione alla vita culturale di una società da parte di un individuo richiede, nel pensiero di Lessig, un procedimento che è definito di “remix”: un soggetto legge un libro e racconta la trama agli amici, vede un film che lo ispira e condivide la storia con la sua famiglia e, in tal modo, mira a diffondere la cultura o a stimolare l’ispirazione artistica altrui.

È impossibile immaginare, sostiene Lessig, un ambiente culturale dove ogni persona non sia libera di attuare una simile pratica. Il remix diventa l’essenza stessa di come le culture sono create: è l’azione di leggere, di criticare, di riportare, di condensare parti di cultura. Questa regola si è sempre applicata alla cultura commerciale e a quella non commerciale: la possibilità di remix non è limitata a ciò che risiede nel pubblico dominio poiché, nella tradizione, chiunque è sempre stato libero di remixare, sia che il materiale fosse protetto da copyright, sia che non lo fosse.

Questa libertà, tuttavia, storicamente è stata limitata da un fattore tecnologico determinante e da precisi interventi della politica e del Legislatore.

Da un punto di vista strettamente tecnico, fin dall’inizio dell’umanità, chiunque era stato libero di remixare, ma la tecnologia, ossia gli strumenti impiegati per il remix, erano, essenzialmente, basati sull’utilizzo della parola. Si usava la comunicazione verbale per ricreare la cultura, e si usava la parola per criticare: per cui, la modalità tipica e ordinaria attraverso la quale la cultura veniva creata era, essenzialmente, testuale e verbale. Nessuno ha mai ristretto la libertà di fare cultura, perché nelle società libere, nessuno, sostiene Lessig, ha mai manifestato il proposito di limitare l’abituale attività/livello di comunicazione delle persone. [p. 49 modifica]

Oggi, per remixare la cultura, nota Lessig, si usano, però, i computer: le macchine diventano un mezzo per parlare, per fare arte – usando suoni e immagini – e le tecnologie possono permettere una rinnovata esplosione del lavoro creativo.

Ora, conclude lo studioso, non esistono più limiti tecnici, in questo tipo di creatività, se l’opera che sarà oggetto d’elaborazione è liberamente disponibile. Ma quali scenari si delineano, invece, se si vogliono remixare contenuti che sono protetti da copyright, magari unendoli a contenuti di nostra produzione?

In breve, per Lessig, ciò non è più possibile. In conformità alle norme odierne, remixare contenuti digitali protetti da copyright significa violare i diritti del detentore di copyright.

Ecco, allora, che un determinato tipo di creatività, che era diffuso (e consentito) sin dalle origini della cultura umana, rischia di essere smarrito per sempre nel mondo elettronico, man mano che i contenuti digitali protetti occuperanno sempre più spazio nella vita del cittadino comune e nell’ambiente sociale in generale.

Questo è, chiaramente, il collegamento tra il movimento del software libero e quello della cultura libera.

In tutti e due vi era, in origine, una pratica condivisa che era, essenzialmente, priva di vincoli. In tutti e due si è registrato, poi, un cambiamento nell’ambiente, che ha provveduto a rimuovere quella libertà.

Nel software libero, il cambiamento fu il diffondersi del codice proprietario. Nell’ambito della cultura libera, il cambiamento è stato portato dalla radicale espansione della regolamentazione normativa e politica del copyright.

La tecnologia ha reso entrambi questi cambiamenti possibili, e sia il movimento del software, sia quello della cultura libera, a loro volta, si ripromettono di usare la tecnologia, e la disciplina sul copyright, per ristabilire la libertà che il codice e la cultura proprietari avevano rimosso.

Ognuno di questi due movimenti persegue, così, il fine di proteggere la libertà creativa degli utenti dai rischi connessi all’estremizzazione di idee proprietarie e di chiusura.

Nota Lessig, però, che quando la maggior parte delle persone comuni si avvicina a simili movimenti di liberazione, la reazione iniziale è quella di considerarli, entrambi, quali utopie irrealizzabili: si legge “libero”, ad esempio, come un qualcosa chiaramente contrario ai principi comuni dell’economia.

L’economia del software libero, ci tiene a precisare Lessig, è però rimasta una vera e propria economia, nonostante i dubbi iniziali: produce benessere, ispira crescita, diffonde servizi ad ampio raggio nella società, funziona in maniera diversa dall’economia del software proprietario, è vero, ma è una economia anch’essa.

Milioni di dollari sono stati investiti in questa direzione per farla fiorire, e lo stesso modo di ragionare deve essere utilizzato per il concetto di “cultura libera”. [p. 50 modifica]

Molti interpretano il concetto di cultura libera come una procedura per la mancata retribuzione degli autori: in realtà, la nuova economia non nega l’importanza del copyright per costruire nuove culture, ma revisiona il quadro normativo del copyright per adattarsi più efficacemente all’era digitale e struttura la legge per produrre la più grande opportunità possibile in termini di creatività e crescita che la tecnologia possa offrire.

Il progetto originario di CC, che si è trasmesso praticamente inalterato sino ai giorni nostri, prevedeva delle licenze attraverso le quali gli utenti creativi potevano chiedere che fossero applicate quattro clausole generali.

La prima clausola, presente in tutte le licenze, si preoccupa di tutelare la cosiddetta “attribuzione” (“BY”), che consiste nell’obbligo di indicare sempre la persona dietro quell’opera, ossia chi siano l’autore o gli autori, che hanno creato quel contenuto.

Si tratta di un aspetto interessante: Lessig aveva compreso come a molti autori interessasse di più, nella nuova economia digitale basata sulla condivisione, un riconoscimento esplicito e formale dei credits sull’opera che viaggiasse insieme all’opera stessa, più che un controvalore economico immediato in denaro.

L’autore, in altre parole, si impegna a concedere, grazie a questa licenza CC, un uso libero della sua opera a patto che sia sempre indicato il suo nome come creatore di quel prodotto digitale.

Ciò avrebbe consentito, in molti casi, ritorni economici indiretti ben più importanti, in un’ottica creativa innovativa, di un compenso diretto e una tantum (“ti compro l’opera e ti pago”): si pensi a una possibile fama, alla richiesta di ulteriori prodotti simili, a contatti diretti con l’autore per acquistare altre sue opere o alla condivisione virale su nuovi canali.

La seconda clausola, denominata “condividi allo stesso modo” (“SA”), è stata pensata con la funzione fondamentale di concedere ad altri utenti il diritto di copiare, distribuire, eseguire e modificare il lavoro altrui, a patto che l’opera modificata sia, poi, distribuita alle stesse condizioni.

Si tratta di un passaggio centrale nel pensiero di Lessig: si vuole creare una catena della conoscenza e della creatività, che non deve essere interrotta, e si dà la possibilità a creatori successivi di poter costruire nuove opere partendo da lavori di creatori precedenti.

La terza clausola è stata denominata “non commerciale” (“NC”) e, come è facile comprendere, è quella che permette al creatore di decidere se consentire, o meno, un utilizzo della sua opera per finalità commerciali.

Il sistema Creative Commons non vuole essere visto come sinonimo di gratuità ma, al contempo, si vuole evitare lo sfruttamento commerciale “selvaggio” di opere che vengano, dall’autore, lasciate libere per un utilizzo creativo amatoriale. È, pertanto, lasciata una completa libertà all’autore sia di negoziare un uso commerciale della sua opera, sia di vietarlo ab origine. [p. 51 modifica]

La quarta, infine, ha preso la denominazione di “non opere derivate” (“ND”), ed è stata pensata per garantire all’autore che non siano fatte elaborazioni successive della sua opera creativa. In questo caso, si tutela quell’autore che, al contrario, non vuole che la sua opera sia presa e modificata, dando così origine ad altre opere che potrebbero sfuggire al controllo dell’autore originario.

Dalla combinazione delle quattro clausole, possono derivare sei tipi di licenze che si possono interpretare, anche, in ordine decrescente di libertà di utilizzo: i) Attribuzione; ii) Attribuzione - Condividi allo stesso modo; iii) Attribuzione Non commerciale; iv) Attribuzione - Non opere derivate; v) Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo; vi) Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate.

L’idea vincente alla base delle licenze CC fu quella di non limitare questo sistema di regolamentazione al dato testuale, ossia alla tradizionale clausola scritta, ma di prevedere una triplice dimensione.

Oltre al testo della licenza, infatti, il sistema prevede un “creative commons deed”, ossia una sintesi delle principali condizioni, accompagnata da icone facilmente interpretabili e, soprattutto, prevede quei famosi metadati che citava Aaron nel suo discorso e che consentono ai motori di ricerca, e ai siti web, di classificare in maniera corretta il regime di uso e circolazione delle opere.

Il video dell’incontro californiano con il lancio del progetto Creative Commons è, si diceva, ancora reperibile in rete: Aaron, in questo contesto, è molto attento a fare uso di termini semplici per spiegare il suo lavoro e per condividere i motivi per cui quel progetto prettamente giuridico avesse affascinato così tanto anche lui, un giovane informatico.

Mentre parla, evidenzia subito i tre punti essenziali alla base dell’idea di Creative Commons.

Mettere la volontà, e la persona, dell’autore al centro, innanzitutto, affinché possa essere sempre indicato il creatore dell’opera con un uso corretto delle funzioni di attribution e dei credits. Garantire, poi, la libertà assoluta in capo all’autore di scegliere un possibile utilizzo commerciale, o meno, del proprio lavoro. E, infine, la possibilità costante di permettere, o vietare, modifiche al lavoro stesso.

La novità – ribadisce Aaron dal podio durante il suo breve discorso – è che tutte le domande circa i diritti d’uso e di diffusione che gli autori hanno voluto stabilire sulle loro opere, per la prima volta le potremo fare a un server! A una macchina! A un computer! E la macchina, fatta la domanda, ci risponderà. E ci rimanderà a una pagina dove potremo trovare, in regalo, un piccolo frammento di codice scritto in HTML. Da quel momento in avanti, potremo anche noi incorporare nel nostro sito web, o in qualsiasi altra opera, quel frammento di testo che sarà in grado di descrivere con cura e in ogni momento, il tipo di licenza che abbiamo deciso vi debba essere su quell’opera.

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Una simile idea di una “machine-readable licence”, ossia di una licenza di utilizzo che sia leggibile anche dalle macchine, fu molto interessante non solo per Aaron, ma per l’intera comunità di sviluppo. Il concreto lavoro di coding che la rese attuabile è considerato l’eredità che Aaron ha lasciato a questo progetto.

Non è, si badi, solamente l’idea di una licenza che si unisca e, per così dire, s’incorpori al codice informatico. Si tratta, di più, di un vero e proprio codice che può essere interpretato dall’intero mondo connesso del web e, soprattutto, dai grandi motori di ricerca, e che avrebbe permesso a tutti i computer di leggere quelle licenze in automatico, aprendo possibilità innovative nella individuazione puntuale e nella aggregazione delle informazioni.

Lawrence Lessig riconobbe in Aaron Swartz un discepolo ideale. Aaron, dal canto suo, vide il professore di diritto come mentore e come persona assolutamente da seguire, e da ascoltare, in tantissime occasioni.

I due progetti che li videro più vicini furono, appunto, l’avvio di Creative Commons e la discussione del caso Eldred davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, nel giudizio Eldred v. Ashcroft del 2003. Poi, negli anni successivi, si persero un po’ di vista.

Quando incontrò Aaron per la prima volta, Lessig era un docente di materie giuridiche ad Harvard, soprattutto di diritto costituzionale.

Era diventato celebre in tutto il mondo per le sue idee assai innovative sui temi del diritto delle nuove tecnologie e, in particolare, della regolamentazione di Internet e dei necessari limiti della normativa a tutela del copyright. Agli inizi degli anni 2000 era considerato uno dei maggiori studiosi viventi; dopo il periodo ad Harvard, si trasferì a Stanford.

Nel pensiero di Lessig, il codice informatico poteva regolamentare compiutamente l’intera architettura di rete, con un impatto maggiore di quello che poteva avere la legge stessa.

Per lo studioso statunitense, infatti, era il software, più che la legge, a definire i veri parametri della libertà nel ciberspazio, e anche il software può presentarsi come non neutrale nei confronti di alcuni valori da proteggere.

Lo stesso tipo d’approccio si poteva mantenere nei confronti dei tanti problemi che riguardano i diritti nel ciberspazio. Lessig faceva l’esempio, da un lato, dei tentativi volti a rafforzare l’estensione del copyright e dei brevetti da parte di politici e, dall’altro, di informatici che prevedevano, e auspicavano, un uso di Internet attraverso “trusted systems”, ossia architetture che avrebbero garantito il perfetto controllo sull’uso online e sulla distribuzione di materiale protetto da copyright.

Nell’ottobre del 2002, due mesi prima del lancio di CC, Lessig era andato a discutere davanti alla Corte Suprema il già citato caso Eldred.

Era un caso importantissimo sui temi del copyright nell’era digitale e della sua estensione, ormai arbitraria, da parte del governo a seconda delle esigenze dei grandi produttori, soprattutto della Walt Disney. [p. 53 modifica]

Al centro del dibattito, in particolare, vi era una norma, voluta dal musicista Sonny Bono, che nel 1998 aveva esteso i termini del diritto d’autore, impedendo a numerose opere di finire nel pubblico dominio.

La legge aveva preso il nome di Sonny Bono Copyright Term Extension Act (CTEA). Un provvedimento simile era stato approvato nel 1976.

Un editore elettronico, Eric Eldred, si fece capofila di un buon numero di imprenditori che avevano atteso con ansia, al contrario, la scadenza dei termini di copyright per avviare delle produzioni su opere che sarebbero cadute nel pubblico dominio. Chiese, a tal fine, l’assistenza legale di Lawrence Lessig e di un team di studiosi del Berkman Center for Internet and Society dell’Università di Harvard.

Davanti alla Corte Suprema, l’atmosfera si presentava alla “Davide contro Golia”: a domandare la validità dell’estensione dei termini erano non solo Janet Reno e John Ashcroft, Avvocati Generali degli Stati Uniti, ma, anche, le potenti associazioni dei produttori cinematografici e musicali. Tutto il mondo, in sintesi, dei media e dei produttori di contenuti di allora.

L’estensione richiesta dal Sonny Bono Act per il copyright sulle opere in scadenza era di ulteriori vent’anni e avrebbe avuto effetto retroattivo, anche sulle opere già create.

Il 9 ottobre 2002, Lessig decise di portare con sé, come uditore, il teenager Aaron. Un ragazzo, quindi, davanti alla Corte Suprema: il più importante organo giurisdizionale del Paese.

La discussione di quella vertenza non andò bene: Lessig perse la causa, e il 15 gennaio 2003 la Corte Suprema ritenne la CTEA conforme ai principi della Costituzione americana, con l’opinione di sette giudici contro due. Fu il giudice Ginsburg a redigere l’opinione di maggioranza, forse influenzato anche, nel testo, dalla situazione normativa in Europa (dove, nel 1993, una Direttiva aveva stabilito un termine, per il diritto d’autore, di settant’anni dopo la morte dell’autore).

Vicenda giudiziaria a parte, quella fu l’incredibile occasione, per il giovane Aaron, di trovarsi per la prima volta, anche se come “turista”, dentro al sistema politico e giudiziario nordamericano. Poteva osservare, dall’interno, come funzionasse il sistema e, soprattutto, quali possibilità ci fossero di avviare specifiche attività per cercare di cambiarlo.

Sul suo blog, in un intervento del 5 ottobre 2002 (“To the courthouse”), Aaron descrisse quell’incredibile esperienza, partendo dal giorno in cui ricevette la tanto gradita notizia dell’invito di Lessig:

Credo sia giunto il momento di rivelare – annotò sul suo blog – l’invito, incredibilmente gentile, che ho ricevuto. Come molti di voi avranno scoperto, o intuito, assisterò alla discussione orale del caso Eldred davanti alla Corte Suprema. Sono incredibilmente emozionato, come potete immaginare. Visitare la Corte Suprema [p. 54 modifica] sarebbe già sufficiente, ma seguire un caso così importante... Quando Lessig mi ha domandato se quel giorno fossi stato libero per andare con lui, mi è venuto da ridere. Non potevo (e non posso tuttora) pensare a qualcosa che preferirei fare più di partecipare a un evento così. Sarò eternamente grato a Lessig per la possibilità di presenziare. D’altra parte, mi vergogno un po’ per avere avuto questa opportunità quando ci saranno, sicuramente, altre persone che se la meritano molto più di me. Per fortuna, sembra che questi altri ‘meritevoli’ potranno ottenere anche loro dei posti in udienza mettendosi in fila con noi. Speravo di poter prendere appunti, e pubblicarli sul mio blog, per coloro che non sono riusciti a venire, ma, come ho letto sul Times di oggi, solo gli avvocati, e coloro che vantano un accredito stampa ufficiale, possono prendere appunti! Penso che sia scandaloso, ma spero di riuscire a ricordare abbastanza dettagli, ed elementi, per fornire a tutti un resoconto interessante.

In un post successivo del 10 ottobre, dal significativo titolo “Mr. Swartz Goes to Washington”, arriva il resoconto che Aaron aveva promesso, dove descrive più nel dettaglio l’esperienza con Lessig davanti alla Corte Suprema.

Ci siamo messi tutti in fila per entrare. Mi sono reso conto, in quel momento, di non avere con me un documento d’identità e che, probabilmente, gli addetti della Corte Suprema non mi avrebbero potuto identificare e mi avrebbero fermato all’ingresso. Ma non è stato, in realtà, un problema: quando è venuto il mio turno, mi hanno domandato semplicemente il mio nome e lo hanno depennato da una lista per, poi, farmi accomodare a sedere. L’aula del tribunale è una struttura impressionante. Tutto è molto, molto alto. Siamo entrati attraversando alti cancelli per, poi, sederci su lunghe file di panche imbottite di rosso. Si è sentito, a un certo punto, un forte rumore. Come di un altoparlante che fosse stato spento. Come se fossero state tirate da una forza invisibile, le gambe di tutti i presenti si sono raddrizzate immediatamente e ci siamo alzati tutti in piedi come un’unica persona. «L’Onorevole Presidente della Corte Suprema e i Giudici Associati della Corte Suprema degli Stati Uniti. Tutte le persone che si devono presentare davanti all’Onorevole Corte Suprema degli Stati Uniti sono pregate di avvicinarsi e di prestare attenzione, perché la Corte è ora riunita». (Guardai, e i giudici erano ancora in piedi) «Dio salvi gli Stati Uniti e questa Onorevole Corte!». Lo scricchiolio risuonò di nuovo, e capii che si trattava di un martelletto. Prendemmo tutti posto, non così coordinati come ci eravamo alzati.

Il processo, dicevamo, non andò bene per Lawrence Lessig, e Aaron, come testimone diretto, descrive la tensione che si percepì in aula in quei frangenti e l’accesa discussione attorno all’istituto, e alle regole, del copyright (e della sua proroga per legge).

Larry riuscì a parlare per qualche minuto, prima di essere interrotto. Uno dei giudici donna lo interruppe e lo incalzò sulla questione del Primo Emendamento. Andarono avanti e indietro dibattendo un po’ di volte, e Larry non riuscì a spiegarsi bene. Si sono arresi, e sono passati a discutere su cosa distinguesse l’ [p. 55 modifica] estensione del copyright avvenuta nel 1976 da quella del 1997. Larry affermò che non vi era nulla di diverso: la sua teoria difensiva avrebbe annullato entrambe. «Forse, allora, dovremmo trovare un’altra teoria», disse uno dei giudici. Mi aspettavo che Larry spiegasse ai giudici come il Congresso potesse fissare il diritto d’autore a qualsiasi limite ragionevole ma che, poi, dovesse rispettarlo e non, invece, estenderlo retroattivamente alla sua scadenza. Ma non lo fece. Pensavo che Larry stesse facendo un pessimo lavoro, finché non è arrivato il Solicitor General Olson (l’uomo che ha difeso Bush in “Bush contro Gore”). I giudici hanno vissuto una giornata campale con lui. Rehnquist gli fece ammettere che un copyright perpetuo avrebbe violato la Costituzione. Kennedy gli fece ammettere che anche un copyright obiettivamente perpetuo (novecento anni) sarebbe stato una violazione. Il giudice Breyer sembrava avere in testa un foglio di calcolo da economista. «Bene, quindi 2,4 miliardi di dollari sono andati ai titolari di diritti d’autore. Questa legge darà loro 6 miliardi di dollari in più. E l’incentivo aggiuntivo che ne deriva è pari a zero. Lo considero un aspetto negativo. Inoltre, si prevedrà, diciamo, un miliardo di dollari per la ricerca dei titolari di copyright in questo intricato sottobosco legale – e per molti non sarà possibile trovarli, un costo incommensurabile! Questi sono i costi. Per quanto riguarda i benefici, vedo l’unificazione [e altre due cose che ho dimenticato - ASw]. Quali sono, secondo lei, i benefici?». «Beh, c’è l’armonizzazione con l’Europa», disse Olsen, «che riduce...». «È l’unificazione», ha detto Breyer. (Lessig(?) ha osservato che se la Francia approvasse una legge che non concede il diritto d’autore ai discorsi d’odio, a causa del Primo Emendamento non saremmo in grado di armonizzarci con essa. Allo stesso modo, se l’Unione Europea estendesse il diritto d’autore in modo tale da violare la Clausola sul diritto d’autore, non possiamo armonizzarci). Olson non è riuscito a pensare ad altri vantaggi.

Il resoconto di Aaron del processo, nonostante qualche passaggio più strettamente processuale si manifesti, per lui, particolarmente oscuro, continua in maniera certosina.

Un giudice ha chiesto in che modo l’estensione di vent’anni del diritto d’autore di una persona morta possa incentivarla a promuovere la scienza e le arti utili. Il [famoso autore classico morto] era seduto lì e pensava, «beh, scriverei ancora qualcosa se solo il copyright durasse altri 20 anni dopo la mia morte?» (Risate dal pubblico). Olson ha detto che l’editore sarebbe stato in grado di distribuire di più le opere. Ah, ha scherzato un giudice, credo che dovremmo dare a qualcuno i diritti d’autore di Shakespeare, visto che, a quanto pare, non c’è alcun incentivo a distribuire le sue opere. Molti giudici hanno ripetuto che ritenevano che si trattasse di una legge stupida, che impediva alle opere di finire nel pubblico dominio senza alcuna giustificazione. Ma avevano difficoltà a trovare un modo per dichiararla incostituzionale senza dover annullare anche l’estensione del 1976, cosa che, evidentemente, non volevano fare. Nessun giudice ha detto di ritenere che la legge fosse una buona idea. Sono rimasto impressionato dall’intelligenza dei giudici. Si trattava di persone che comprendevano a fondo le questioni e ragionavano in maniera rapida. Erano interessati agli effetti di lunga durata e all’impatto sui [p. 56 modifica] classici; dubito che a molti interessasse Topolino o Steamboat Willie. È triste che oggi non ci sia questo livello di curiosità intellettuale e intelligenza nel resto del nostro governo. Tuttavia, è stato estremamente divertente che in un ambiente così formale, con imponenti drappi rossi che decoravano la sala e i magistrati seduti più in alto rispetto agli avvocati, su grandi sedie, i giudici fossero così informali. Si interrompevano l’un l’altro, si giravano e si muovevano sulle sedie e alcuni fingevano, persino, di addormentarsi con la testa appoggiata sulla scrivania. Il tutto sembrava simile a un gruppo di bambini a scuola, a cui quasi certamente sarebbe stato diagnosticato il disturbo da “deficit di attenzione e iperattività”, per la loro curiosità e incapacità di resistere alle domande. Macki ha detto che il giudice Clarence Thomas sembrava che stesse masticando la gomma cercando di nasconderlo all’insegnante. Durante la discussione, una delle guardie di sicurezza ha fermato qualcuno che stava prendendo appunti e gli ha fatto mettere via carta e penna. Ben presto l’udienza si è conclusa, noi ci siamo alzati e abbiamo lasciato l’edificio.

Anche il progetto Creative Commons si rivelò un luogo ideale per raccogliere, e sfruttare, le idee e le capacità di Swartz; Lessig, dal canto suo, non ci vide nulla di male nell’invitare a collaborare, nonostante l’età, una delle persone più interessanti che avesse mai incontrato.

Aaron si presentò alla conferenza californiana di lancio CC indossando una maglietta da teenager – era la persona più giovane dell’intero uditorio – e iniziò subito a parlare, come un adulto, di metadati, di codice e di connessioni, di computer che dovevano “parlare” tra loro e di conoscenza che si stava generando in rete e che andava ordinata e regolamentata.

Riuscì a convincere tutti, in pochi minuti, dell’importanza di rappresentare l’informazione – compresa l’informazione bibliografica, a lui carissima – in un formato leggibile dalle macchine. In tal modo, i grandi motori di ricerca – che avrebbero costituito la spina dorsale della rivoluzione digitale in arrivo – avrebbero restituito informazioni in un formato a sua volta riutilizzabile.

Lessig era convinto delle idee e delle capacità di Aaron: lo presentò, senza mezzi termini, come «il genio che avrebbe provveduto a creare l’infrastruttura del progetto».

Aaron si trovava, al contempo, molto a suo agio in un contesto dove tante persone apprezzavano quello che aveva da dire e che stava progettando e, soprattutto, che apparivano realmente incuriosite dalle sue idee.

Nel 2011, trascorsi ormai un po’ di anni da quel lancio di progetto, Lessig s’interrogò pubblicamente, in un’intervista apparsa (significativamente) su una rivista dell’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale – il WIPO Magazine – circa l’evoluzione che aveva avuto Creative Commons dalle origini sino a quel momento.

Ricordare quei giorni attraverso le esatte parole del fondatore è molto utile per comprendere chiaramente quali fossero i punti di contatto e di sintonia tra le idee e le aspettative del giovane Swartz e quelle del grande giurista. [p. 57 modifica]

All’inizio del secolo – racconta Lessig nel suo articolo – intravedevamo, all’orizzonte, una sorta di “tempesta perfetta” in arrivo, che avrebbe colpito l’intero mondo della cultura. Avevamo un’infrastruttura digitale che, ormai, incoraggiava un’ampia gamma di condivisioni, remix e pubblicazioni di contenuti che non sarebbero potute avvenire nel Ventesimo Secolo. Avevamo, anche, un’architettura che rischiava, però, di far scattare l’applicazione della parte più restrittiva della normativa sul copyright ogni qualvolta venisse effettuata una semplice copia digitale di un contenuto. Ciò collocò il mondo dei creatori di contenuti digitali in aperta rotta di collisione con la legge, che lo riconoscessero o meno. Per molti, soprattutto per coloro che operavano in quella che io chiamo la sharing economy, ciò non aveva senso. Una grande percentuale di loro aveva continuato a creare contenuti su piattaforme digitali senza tener conto della normativa sul copyright. Di conseguenza, i numeri di casi di “pirateria” erano saliti alle stelle.

Il timore, in quegli anni, era che lo scontro tra queste due “forze” – la nuova economia della condivisione dei contenuti e la formalità della normativa sul copyright – avrebbe potuto produrre o un movimento che avrebbe cercato di abolire completamente il diritto d’autore o, al contrario, un sistema rigido di norme, e di applicazione delle stesse, che avrebbe bloccato tutte queste nuove attività creative con minacce di sanzioni milionarie o, addirittura, della reclusione. Soffocando, così, la creatività nell’ecosistema digitale.

All’epoca – ricorda ancora Lessig – l’opinione prevalente era che o si rispettava il tradizionale approccio di “tutti i diritti riservati”, oppure si doveva essere per forza contrari al copyright o, addirittura, dei “pirati”. Abbiamo cercato, con CC, di stabilire una via di mezzo: abbiamo riconosciuto che, di fatto, molte persone credono nel diritto d’autore, e lo vogliono rispettare, ma non credono che le loro opere creative debbano essere regolamentate in modo così rigido, come nel modello di “tutti i diritti riservati”. Abbiamo deciso, allora, di creare una sorta di sistema volontario di opt-in che permetta ai creatori di contrassegnare le loro opere con licenze che indichino il livello di libertà che desiderano su quei contenuti. Questo sistema ribadisce, innanzitutto, fiducia nel sistema del diritto d’autore e nella normativa che lo tutela, dal momento che si tratta, in sostanza, di una licenza basata sulle regole del copyright, ma afferma, anche, i valori che sono alla base di quegli ambienti creativi – o ‘ecosistemi’ – in cui le regole dello scambio non sono definite dagli aspetti commerciali, ma dipendono soprattutto dalla capacità di condividere e di costruire liberamente sul lavoro di altri.

Da allora, e da quella prima presentazione, il progetto Creative Commons ha compiuto vent’anni, ha raggiunto una nuova maturità, è sopravvissuto all’avvento dei social network ed ha avviato progetti in circa ottanta Paesi; la sua influenza si espande costantemente, in virtù dell’ingresso di sempre nuove realtà statali, locali e private che aderiscono, e ciò anche grazie alle iniziative di una rete dedicata di affiliati, che intraprendono una serie di attività di promozione e sensibilizzazione in differenti giurisdizioni. [p. 58 modifica]

Lessig è solito individuare delle precise ragioni politiche e, allo stesso tempo, delle contingenti ragioni pratiche tra i fattori alla base del successo che questo sistema ha avuto nel corso degli anni.

Le ragioni politiche – nota il grande giurista – sono legate a quelle che io chiamo le “guerre del copyright”. Sono in molti coloro che vogliono trovare modi differenti per regolare la creatività nel mondo digitale, e che credono che un’applicazione restrittiva, e rigida, della legge sul copyright nell’era elettronica non abbia più senso, soprattutto se pensiamo alle attività creative che si svolgono nei settori dell’istruzione, della ricerca scientifica e delle opere amatoriali. Vi sono, però, anche importanti ragioni pratiche. Nelle università, ad esempio, gli studenti devono imparare a redigere elaborati ma, anche, a utilizzare al meglio i media digitali, quali video, film o progetti di remix di brani musicali. Questo è ciò che significa essere alfabetizzati nel ventunesimo secolo. Il materiale proposto con licenza CC è un’alternativa sicura al processo estremamente costoso, e macchinoso, che permette di ottenere delle licenze in base alla normativa sul diritto d’autore, e che consente agli studenti di sfruttare completamente le opportunità creative offerte dalle tecnologie digitali. È, in sintesi, un’alternativa utile ed efficace all’ignorare l’esistenza della normativa sul diritto d’autore e all’esporre le istituzioni accademiche a rischi di significative responsabilità legali per violazione del copyright.

Ancora oggi, le licenze CC sono strutturate in modo da offrire, ai creatori, la possibilità di scegliere gli usi, e le libertà, che desiderano garantire a chi vuole utilizzare la loro opera.

Le licenze supportano, come direbbe Lessig, diversi “ecosistemi della creatività”: quelli che hanno al centro il denaro e il profitto, ma anche quelli che operano nella sharing economy, che privilegia lo scambio gratuito rispetto alla vendita.

Selezionando, in maniera semplice, un ventaglio di libertà e di restrizioni, i creatori possono scegliere di consentire ad altri di condividere il loro lavoro o di remixarlo, con la restrizione che questo uso debba essere solo per scopi non commerciali o che qualsiasi derivato debba essere rilasciato con una licenza simile (‘share alike’: condividi allo stesso modo).

Licenze diverse – conclude Lessig – sono pensate per supportare ecosistemi creativi diversi. La licenza per un uso non commerciale, ad esempio, supporta l’ecosistema amatoriale della creatività, consentendo ai creatori di essere certi che le loro opere saranno utilizzate da altri secondo le regole della condivisione, e non del commercio/profitto. Quando si scatta una foto e la si pubblica su Flickr, la scelta di una licenza non commerciale per il suo utilizzo indica che si è felici di condividerla con altri per scopi non commerciali. Se, però, qualcuno volesse usarla per creare l’illustrazione sulla copertina di un CD che, poi, intende mettere in vendita, l’opzione Creative Commons Plus offrirà un mezzo semplice, e gratuito, per concedere in licenza la stessa opera per scopi commerciali. La licenza più semplice e più libera – quella di sola attribuzione – supporta gli ecosistemi professionali, amatoriali e scientifici della creatività, perché produce risorse libere a cui si può attingere [p. 59 modifica] e che possono essere utilizzate a piacimento. La licenza di attribuzione indica che i licenziatari sono completamente aperti all’uso commerciale delle loro opere creative. Nel 2010, ad esempio, l’emittente Al Jazeera ha rilasciato un enorme archivio contenente materiale video con questa licenza. Ciò significa, in concreto, che chiunque può prendere le riprese grezze e utilizzarle, purché il contenuto sia attribuito ad Al Jazeera. Il tutto risponde perfettamente agli obiettivi commerciali e alla volontà dell’organizzazione, dal momento che le consente di diffondere il proprio marchio, utilizzando licenze che sono libere da vincoli troppo aggressivi. Nel 2009 anche Wikipedia ha adottato la licenza CC per tutto il suo materiale, e ne incoraggia volentieri l’uso commerciale. L’unico requisito è che, se si apportano modifiche, si deve permettere ad altri di utilizzare il materiale modificato adottando lo stesso tipo di licenza.

Lawrence Lessig e Aaron Swartz s’incontrarono, negli anni successivi, in altre occasioni, e ogni volta si ritrovarono a discutere con grande passione dei problemi della politica e della rete.

Aaron apprezzò moltissimo, ad esempio, la svolta professionale di Lessig di occuparsi di corruzione in politica, individuandola come il male principale per la democrazia.

Dopo l’incontro con Berners-Lee, che gli aveva aperto il mondo della programmazione e della interconnessione dei contenuti, quello con Lessig fece entrare Aaron, giovanissimo, nel mondo delle libertà, delle istituzioni e dell’attivismo, con l’ambizione di migliorare le cose anche da un punto di vista politico, e non solo tecnologico.

Il progetto Creative Commons riuniva molti di questi aspetti: la condivisione di conoscenza, il non-profit, i lati giuridici e tecnici, il desiderio di una riforma della normativa sul diritto d’autore, così come si stava delineando nel mondo digitale e stava nascendo proprio dal basso, dalla comunità degli utenti. Professori, attivisti, legali, hacker si erano trovati insieme in un progetto nobile, che andava ben oltre l’idea stessa di licenza per contenuti, ma che si basava su principi solidi.

Il 25 febbraio 2013, Colleen Walsh pubblicò su The Harvard Gazette la trascrizione dei punti essenziali di una conferenza tenuta da Lessig, anch’essi preziosi per meglio comprendere lo stretto rapporto che si era creato tra Aaron e Larry.

Il discorso del professore prese, contemporaneamente, due direzioni. Da un lato, Lessig volle elogiare le attività di Aaron. Dall’altro, volle insistere sulla necessità urgente di frenare una sorta di “estremismo”, da parte del legislatore e del governo, ogni qual volta il mondo politico si accingesse a pianificare ed elaborare leggi che andavano a toccare il mondo informatico e, in generale, la società digitale.

Durante il suo intervento, nota la reporter, Lessig manifestò la necessità, da parte di tutti, di effettuare un esame più attento su quali fossero considerati i crimini più importanti, e quelli invece minori, nel nascente ambiente digitale. Elogiò, anche, una proposta di legge avanzata dalla rappresentante californiana [p. 60 modifica] Zoe Lofgren, che voleva limitare la portata della famigerata legge CFAA sui crimini informatici. Per Lessig, però, azioni di questo tipo avevano le “armi spuntate”. Erano riforme che non si sarebbero spinte abbastanza in profondità, dal momento che era necessaria una legge che eliminasse tutte le norme errate sul copyright, in particolare quelle che portavano beneficio a pochi privilegiati – e potenti – nonché una riforma normativa che facesse sparire ogni elemento di corruzione dal sistema.

Lessig ricordò, nella conclusione del discorso, come fosse stato proprio il dialogo serrato con Aaron, nel 2007, a convincerlo a spostare la sua attenzione, e la sua ricerca, dai temi tecnologici e del copyright alla corruzione politica e istituzionale.

Il 24 agosto 2017, una giornalista di The Atlantic, Caroline Kitchener, intervistò sempre Lawrence Lessig sul suo rapporto con Aaron Swartz e su come il confronto con il giovane fosse arrivato a condizionare, per molti versi, la sua vita.

Anche in questo caso, in diversi passaggi sono svolte considerazioni molto interessanti. Lessig aveva aperto gli anni Duemila da “star” del mondo accademico: i suoi studi su codice e diritto e i suoi periodi accademici ad Harvard e a Stanford lo avevano reso celebre, e apprezzato, in tutto il mondo.

Aaron, pian piano, con un costante lavoro ai fianchi, lo convinse a cambiare radicalmente il suo percorso professionale per focalizzarsi sulla trasparenza delle istituzioni politiche e sulla lotta alla corruzione.

La sfida intellettuale tra i due era, in sostanza, votata a cercare di avviare azioni sempre più costruttive per raggiungere obiettivi reali.

Il giovane era impulsivo e reazionario; l’adulto cercava di fargli mettere a fuoco meglio i temi per i quali valesse la pena lottare.

I valori comuni erano quelli che li univano: in primis, l’obbligo di rendere il mondo un posto migliore. Sopra tutto, però, vi era l’ombra di una corruzione ormai congenita che aggrediva il mondo della politica americana e che avrebbe reso vano ogni sforzo compiuto in altre direzioni.

In quegli stessi anni, in California, la Silicon Valley era in un momento di massimo fulgore e di incredibile espansione.

Le startup tecnologiche si moltiplicavano: la valle stava attirando geni da tutto il mondo, e l’idea di realizzare profitto e di diventare ricchi – molto ricchi – grazie alle tecnologie era, finalmente, diventata realtà.

Inevitabilmente, di lì a poco, quel mondo, allo stesso tempo luccicante e pericoloso, condizionerà, seppur per un breve, ma intenso periodo, anche la vita di Aaron Swartz.