Ai medici condotti

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Giovanni Pascoli

1908 discorsi letteratura Ai medici condotti Intestazione 11 agosto 2009 75% discorsi


AI MEDICI CONDOTTI
NELLA CLINICA DI SANT'ORSOLA

DISCORSO PRONUNCIATO NELL'AULA DI AUGUSTO MURRI
IL 4 MAGGIO 1908


Cari e valorosi cittadini,

Voi per pochi giorni siete tornati alla fonte, vi siete riabbracciati alla madre, vi siete ricongiunti alla vostra giovinezza. E la fonte vi mescé ancora la pura limpida salubre bevanda, e la madre vi mise a parte, con l'antico affetto, de' suoi umani studi, e la giovinezza, se non aveva, ahimè! più le volate speranze e i labili sogni d'un tempo, vi rinsaldò e rinvigorì tuttavia nei nobili cuori i severi e alti propositi dei vostri principii. Vi siete rifatti, con umiltà che vi sublima, scolari; e sono comparsi avanti voi i maestri d'una volta e maestri nuovi, maestri meno giovani di voi, e più; e questi hanno chinato avanti voi il capo più biondo o più bruno dei vostri, e quelli, negli occhi più che i vostri stanchi e languenti, hanno alla vostra vista accesa, forse in una lagrima, una improvvisa fiamma; rispettando, gli uni e gli altri, i maestri, voi scolari, ammirando, venerando, amando. E quegli che è più intensamente e compiutamente il maestro, è venuto esso incontro a voi, vi ha pôrto esso il primo saluto, vi ha detto esso: «Avanti! e gioia con voi», esso che non sa più gioia che sia, esso che fulminato da tutte le sventure unite in una sola immane indicibile impensabile sventura, si vede, ogni tanto, privo anche di ciò che la sventura porta con sé, forse perché l'uomo possa tollerarla, di ciò per cui noi saremmo alle volte tentati di benedirla, quasi di invocarla, la sventura; alla quale consegue, con tutti i peggiori mali, il più grande e il più dolce dei beni: la pietà, l'amore accresciuto dei nostri simili, la riverenza nuova dei consapevoli del comune destino.

Ma ben più profondo e più alto dei sussurri e delle vociferazioni dell'odio, sonò in questi giorni per bocca tua, o nobilissimo Umberto Brunelli, l'amore dei tanti ch'egli educò al bene e sparse per le terre d'Italia a recare a gli afflitti la parola e l'opera della scienza che consola e salva. Della quale scienza qui vi trasse il memore culto, e vi adunò a dare a tutti un esempio incomparabile di devozione al santo Dovere, e ora di nuovo vi separa e vi licenzia e vi rimanda ognuno al vostro posto... E a che sono io avanti a voi? Voi siete per ripartire. Che cosa vengo a dirvi io? Compagni... Sono tra voi alcuni che ebbi cari compagni negli anni degli studi, e che ho continuato ad amare di fraterno affetto. Consentitemi che io chiami tutti nel modo che chiamo quei pochi. Compagni! Fratelli! Ecco quello che ho a dirvi; a dirvi, non in mio nome soltanto, ma per tutti quelli che voi aveste compagni nell'Università, per quelli che studiavano e lettere e leggi e scienze. Noi vedevamo voi, dopo appena alcuni mesi di allegra spensieratezza, divenir gravi, severi, meditabondi. Da un momento all'altro sembrava che la cara giovinezza si fosse involata dai vostri occhi ventenni. Era che codesti occhi avevano letto la prima pagina del libro. La prima pagina del vostro libro tiene impressa la morte. La serietà suprema del vostro còmpito nella vita vi appariva d'un tratto col suo carattere sacro. Vi si dava a leggere il cadavere nudo dell'uomo, perché vi studiaste il segreto della vita. Non a pascere, ad abbellire ad arricchire la vita vostra, sentivate che gli studi intrapresi dovevano principalmente giovare; ma a custodire, difendere, rivocare la vita degli altri. Vi accorgevate che a voi si chiedeva ben più di quel che si prometteva. Sapevate che per agiatezza, onore e gloria che foste per raccogliere dall'arte futura, v'era in essa sempre spazio per il sacrificio. E così nei vostri giovanili aspetti si stendeva un'aria di ponderatezza, come un segno di assenso, ormai sereno, ma non dato senza lunga esitazione e lotta, a una voce che vi avesse proposto una grande dubbia ancipite prova; una milizia di più pericolo che guadagno, in cui fosse non facile la lode altrui e più difficile l'intimo appagamento suo. E noi si sciamava allegramente, volando qua e là per l'Italia a foraggiare per la nostra vita e a beccar fuscelli per il nido del nostro amore; e voi, vi lasciavamo vicini ai letti delle cliniche, più pensosi e severi di noi, ma non tuttavia dottori: tanto più gravi di noi, restavate ancor per due anni studenti. Ebbene, io che vi amava e ammirava e singoli e tutti insieme (c'è tra voi chi sa che io non m'infingo e non esagero), io dopo più di un quarto di secolo di esercizio e di studio, ho riveduto alcuni di quei molto da me amati ed ammirati. E con l'antico amore e con l'accresciuta ammirazione ho chiesto a loro di lor novelle, salutando la lor compagna, accarezzando i loro figlietti. E ho saputo che io e i miei compagni di lettere e di scienze - non parlo di altri - io - parliamo anzi soltanto di me - io, non tuttavia de' più fortunati, ricevevo come compenso del mio lavoro, grave quanto si voglia, ma che non è di vita e morte, come compenso del mio lavoro, che aveva pure tre mesi di rispitto e di riposo ogni anno, lavoro che mi lasciava libera gran parte del giorno e tutta la notte, tutta la dolce ambrosia notte, ricevevo, più di venticinque anni fa, tanto e anche più di ciò che dopo venticinque anni ha ora il compagno che studiò due anni di più, che ha dato e dà al suo lavoro il giorno e la notte, che non ha vacanze lunghe e fisse, che non è solo utile ma necessario, non legge solo libri ma brancica morti, non insegna latino e greco, ma guarisce, ma redime, ma salva. Oh! profondamente io riverii quelle donne non vestite di seta, e baciai con doloroso rispetto quei visetti non sempre rosei e paffuti, sebben figli di medici, e guardai con angoscia i capelli grigi come i miei, di quei miei vecchi compagni; e pensai con tutte le lagrime del mio cuore: «Io ero biondo, quando avevo lo stipendio di questo uomo tanto più degno di me! Biondo... e solo!». Questo sono venuto a dirvi, o compagni! o fratelli! A dirvi che mi vergogno, o nobili ministri della più nobile arte del mondo, d'aver cominciato dove molti di voi finiscono, a umiliarmi avanti a voi a nome dei vostri compagni delle altre facoltà, a portarvi, nel tempo stesso, la riprovazione solidale, che valga a purificarne, di questa ingiustissima tra le ingiustizie sociali, che ha per punto di partenza (non, s'intende, per causa) l'Università, sede del dritto, fonte della luce, strumento massimo dell'umana uguaglianza e concordia. L'Università, nostra alma comune madre, leva la sua augusta voce denunziando l'onta che ai suoi più operosi figli, a quelli da cui ella esige più lungo studio, più austera disciplina, più fermo animo, più sicure prove, a quelli dalla società si diano minori compensi, minori guarentigie, meno d'onore si faccia, meno di fiducia si accordi. E che importa, se di tutti i miei colleghi io sia il meno degno di far sentire la parola della madre alma? Io sono un testimone; e ai testimoni non si chiede altezza d'ingegno e abbondanza di dottrina: si chiede se ha veduto e sa. Ora io ho veduto, udito, toccato con mano; e so. Non ci può essere parola più alta di quella che esprime la verità.

E tuttavia... Tuttavia anche per un'altra ragione mi sono indotto a parlarvi. Il vostro vecchio compagno si aggira, come i suoi più stretti colleghi, nei campi dell'imaginazione e del sentimento: «campi che hanno intorno un più largo cielo azzurro, e sanno un proprio lor sole, lor proprie stelle». A quella luce noi torniamo a veder vivo ciò che morì, e ciò che così rivive è agli occhi umani grande e bello. Quella luce nasconde le piccolezze, appiana le imperfezioni, nobilita ogni atteggiamento, fa più lunghe le ombre, fa delle lagrime perle iridate, fa del sangue fiori purpurei. È quello il luogo sacro ove il dolore ha il suo sorriso, il martirio il suo premio, la morte la sua immortalità. È il mirabile luogo che si trasmuta per mille guise e ora è il lido dell'Ellesponto, donde Achille tende soletto le mani alle onde e alle nuvole; ora il verde paese, nelle cui praterie pascolano i bianchi cavalli, ed è salutato - Italiam! Italiam! - da una nave di profughi dell'oriente, al chiaror dell'alba; ora una tetra valle, donde si propaga per trenta leghe tre volte terribile lo squillo del corno di Rolando; ora l'empireo cielo, dove l'uomo che sentì nell'essere suo l'inerte vegetar della pianta, e poi il gracidare, il latrare, il grugnire, l'ululo e il ruggito delle bestie, e si rifece umano attraverso il dolore e il pianto, s'affisa, ora serafino dalle sei ale, in Dio uno e trino. È il mondo, insomma, dei poeti e degli eroi. Ed io che sono un peregrino smarrito, selvaggio del mirabile loco, pur da tal mondo a voi mi presento. Donde venite o uomini? venite da un mondo ben reale, o compagni miei! Venite da tutte le miserie umane, che voi cercate di prevenire, di curare, di lenire almeno, tutte, negli altri, essendo destinati assai spesso a soffocare in voi la peggiore: l'umana ingratitudine. Mal retribuiti, assai spesso, mal conosciuti, sorvegliati, cinti di divieti, irretiti di sofismi, soffocati di diffidenze, da persone che interpretano come servizio di schiavi un'arte esercitata liberalmente a loro profitto, fischiati (s'è vista anche questa!), ingiuriati, persino espulsi, da gente che profittava delle nuove libertà contro i benefattori del presente e apostoli dell'avvenire, voi venite qui... A che fare? A rifornirvi di nuove armi per la vostra assidua battaglia contro il malore, a costo di darne e aguzzarne una contro voi in man di quelli che credono o mostrano di credere che un medico, da loro così ben pagato e trattato, deve saper tutto sin dal giorno della laurea. Oh! mala sorte della vostra battaglia, o medici, nella quale avete a fronte, oltre la macilenta coorte delle febbri, la dura ferrea prosperosa legione dell'ignoranza! Un vostro grande maestro osservava che nella medicina si ha a volta a volta troppa fede o troppo poca. La formula è forse questa: si crede, da molti o dai più, che la medicina tutto può, il medico nulla vuole. Dicono: «Al medico, con la laurea, fu consegnata la coppa della immortalità perché non ce l'accosta alle labbra?». Or voi l'avete serenamente sfidata questa mala voce; avete socraticamente detto a questi detrattori, che voglio credere ormai radi e poco ascoltati: «L'accusa d'ignorare è pure un riconoscimento di sapienza!». E, crollando sapientemente le spalle siete venuti ad accrescere la vostra cultura, a riconfermare la vostra scienza, a perfezionare l'arte vostra in pro' di tutti, anche dei detrattori. E ora ritornate... Su, inforca il tuo cavallo, rasenta i precipizi, attraversa i torrenti; misura col biroccino le lunghe strade assolate o fangose, gira la città di catapecchia in catapecchia. Riposerai la notte. E la notte, sussulta allo squillo imperioso del campanello, balza giù, va magari a far da levatrice in una casupola lontana lontana, dove manca tutto. E all'alba ricomincia, e qua, in una remota stamberga, improvvisa un'operazione, improvvisando prima, con trespoli e sgabelli e cenci, il letto operatorio; e là, forse in una bella casa, ascolta senza dar segno di cruccio, che la famiglia ha creduto di dover ricorrere a un altro e che tu sei ringraziato e licenziato; e altrove leggi in un amaro sogghigno, odi anche da una bocca sibilante l'accusa d'aver lasciato o d'aver fatto morire, tu, tu che vuoi alla natura strappare il poter della vita, ma toglierle il poter della morte non puoi; e altrove, dove il male è il mal della miseria, il male il cui bacillo specifico è l'egoismo umano, fa tu l'ammenda di tutti quelli che sbriciano sotto la tavola il pane che là manca, e mettiti le mani in tasca, o ben pagato, e manda al misero un po' del brodo e della carne preparati per la tua famigliola! E rassegnati a passar ancora gli esami ogni giorno della tua vita, a esser giudicato, a esser classificato da tutti i buoni uomini della tua condotta, i quali sembrano credersi in diritto d'aspettarsi da te il miracolo e nel tempo stesso pensano e dicono d'essere in grado di far l'arte tua meglio di te. E rassegnati, tu che un giorno forse non avevi che amici sorridenti, a non vedere che cipigli di nemici, a sentirti di noia di peso di troppo, dove ti recasti avvolontato di bene, dove sognavi che ben ti volessero per il ben che facevi. E rassegnati a volerlo fare, il bene, senza poterlo fare; a vedere o sapere che manca l'acqua per lavarsi, e abbonda l'alcool per avvelenarsi, e che i bimbi poppano latte scarso o infetto, e che i fanciulli avvizziscono nelle scuole senza aria e senza luce. Rassegnati: che cosa puoi far tu, servo di tutti e d'ognuno, arbitro di nulla?

Ed ecco che prima che ritorniate, io, misero contemplante del mondo ideale, vi dico: «Voi siete della vita quotidiana, ma vi conosco, vi ho veduto altrove, sì, tra l'odoroso bosco dei lauri, con quelli

iuventas aut qui vitam excoluere per artes,
quique sui memores alios fecere morendo,
AEN. VI, 663-4

che lasciano di sé memoria per il ben che fecero agli uomini. Voi siete della realtà, o compagni; ma io, che prima mi sono umiliato avanti voi, ora di voi mi esalto, perché vi chiamate EROI! Eroi, che non fanno alle braccia, non trattano armi, non domano cavalli; ma cantano, nell'Elisio virgiliano, in coro, un inno al Dio della sanità e della poesia; della luce». E vi dico inoltre: «Coraggio e avanti! Voi lo sapete da voi qual è per essere, qual è già il vostro compito nella società che si trasforma. Io non avrei che ripetere le parole eloquentissime del vostro presidente Umberto Brunelli. Voi lo sapete, dunque. E dunque assumete, con tranquilla baldanza, l'autorità che nessun potere di stato o di comune, nessun volere di maggioranza di suffragi può togliervi. Parlate alto, o seimila custodi della pubblica salute, contro le spese inutili e anche dannose nei paesi che non hanno acqua e non hanno scuola. Stendete la vostra mano, usa a non tremare, sul capo dei fanciulli d'Italia. Proteggete le nostre speranze, salvate il nostro avvenire. Siate de' maestri e delle maestre i consiglieri, i cooperatori, i difensori. E ricordate la fanciulletta orfana del medico condotto, che si offrì notturna, per alimentare i suoi fratellini, al generoso proscritto Luigi Casati, e gl'ispirò l'istituzione benefica per gli orfani come lei... Ricordate la vostra piccola santa, la vostra eroica martire, e in nome di lei difendete e redimete. Denunziate, con voce d'apostoli, i morbi che il vizio tramanda di generazione in generazione, e i morbi che il lavoro diffonde a tutta una classe di lavoratori. Collaborate a ogni riforma sociale, abolite in Italia la perdurante tuttora barbarie igienica». Ma che vi esorto? Tutto questo voi lo fate, io ripeto, e le parole che io ho detto, sono tutte, tutte vostre, o combattenti della buona battaglia contro il male e la morte, o voi che stanchi delle visite fatte, scrivete il fervido ammonimento nei giornali, componete il chiaro e savio manualetto per le famiglie, pronunziate con l'eloquenza di chi è convinto e vuol persuadere le mirabili orazioni al popolo. Siete voi principalmente che promovete l'umanità di passo in passo o di volo in volo. Siete voi, o medici, che avete fatto cadere le catene negli ergastoli, voi che spezzerete le manette e le gabbie di ferro, voi, proprio voi, con l'esempio che deste, di abolire ogni legame per i dementi anche furiosi, con le parole, che ben potete dire «Se costui lo incatenate e ingabbiate, è segno che non lo credete uomo e perciò soggetto alle umane leggi: oh! datelo, codesto infelice, a noi che sappiamo richiamare la ragione fuorviata o fuggita, solo con la parola, solo con un'occhiata, d'amore!». Siete voi, o medici, ben consapevoli della vanità delle distinzioni sociali avanti il dolore e la morte comuni, e ben convinti perciò della vanità dell'odio nei sociali dissidi, siete voi che formate la «Croce Rossa» della grande lotta. Oh! quando verrà il Calendimaggio dell'umana concordia ? Quando ritorneranno tra gli uomini le due divine essenze, che gli uomini sembra tuttora non vogliano tutte e due insieme, e che tuttavia l'una non può stare senza l'altra? Voi, o nobile schiera della Croce Rossa sociale, voi, o compagnia de' seimila (e non siete, credo, ancora tutti: quali mai e quanti di voi si negano alla difesa non solo della piccola classe, ma della grande causa, classe sua e causa di tutti?), voi invocate l'una e l'altra, l'una con l'altra: Libertà e Giustizia. Come è possibile che una parte del genere umano persista a voler vivere tra i morti di fame, a vivere anzi del loro lavoro, a vivere e per giunta godere? Scendi, o siderea Giustizia, nella terra donde fosti bandita! E come è possibile che un'altra parte del genere umano sogni e si diletti del sogno, di abolire per sé e per tutti l'unico mezzo di vivere socialmente amando i suoi simili, che è quello di appartarsene a quando a quando, e rifugiarsi nella sua casa, di là della sua siepe, nella cara ombra dove ha i suoi figli, i figli che vogliono l'ombra per nascere, come i fiori per isbocciare il sole? O Libertà, con cui «ogni tugurio appaga l'alma», non disertare la terra di cui puoi fare un cielo, se vi dimorerai abbracciata alla Giustizia! Questo mi pare abbia a essere il supremo voto del nostro animo, e io non mi stanco mai di ripetere a me stesso, che questa era l'aspirazione dei poeti di Roma, ed è, in certa guisa, un socialismo latino, arcaico bensì, di duemila anni fa, e tuttavia dell'avvenire. Dell'avvenire, forse di domani, se i popoli si avvieranno, come a me pare che s'avviino, a volere grande, sempre più grande, il bilancio collettivo: commune magnum. Dal che verrà sempre più esigua, brevis, la proprietà privata. E che bisogno c'è che sia grande? Quando questo aumento e questa diminuzione avvengono sensibilmente e lietamente, io penso d'intravedere la dea che accenna a scendere dal cielo e la dea che mostra di voler rimanere in terra, tra le rose di maggio. È o non è? Ma certo non si deve parlare di esaurita potenzialità tributaria. Io credo, insomma, che se la proprietà vuol conservarsi, debba rinunziare ad essere ricchezza.

Commune magnum... E tuttavia voi formate, o medici condotti, l'esempio della ritrosia che c'è in questo primo dei paesi latini, in questa Italia erede di Roma, a fare grande, cioè convenevole, la spesa pubblica. Parrebbe che ciò che meno importa a noi, sia la nostra salute, l'esistenza stessa. Ma giova sperare.

Sperare! Diamo un pensiero alla nostra patria, o amici! Qualche cosa ha ella pur fatto, la cara patria nostra, con tante traversie e sventure, con tale doloroso retaggio! Ella, per esempio, ha forse ora tre volte tanti medici, e pagati tre volte tanto di quello che ai suoi inizi. L'aumento non è in proporzione; ma sarà, deve essere. E un «fatale andare» questo. Che cosa guadagnava sullo scorcio dei passati governi un medico? Ecco, il padre di Renato Fucini (mi è dolce ricordare avanti a voi questo perfetto scrittore, il più arguto e insieme più affettuoso novelliere nostro, figlio di un medico condotto) guadagnava, quando il figlio «era ragazzetto, cinque paoli il giorno, che oggi sarebbero due lire e ottanta centesimi. Coi miseri incerti di qualche consulto, di qualche operazioncella e di qualche visita fuori della condotta, si può calcolare che il suo guadagno arrivasse circa a quattro lire, piuttosto meno che più...».

Ma m'interrompo. Oh! questo è anche oggi, diciamo ironicamente, il guadagno di qualche medico condotto in Italia! Mezzo secolo di storia fu dunque in vano? Si trova ancora in qualche parte dell'Italia redenta da cinquant'anni il babbo di Renato Fucini? Mi par di vederlo. Egli rende al figlio la mesata, che il figlio aveva perduto al gioco. È mattina. «Era buio, freddo e nevicava forte...». Il figlio corre sulla porta e alla luce di una lanterna vede suo padre «già a cavallo, immobile, involtato nel suo largo mantello carico di neve. "Tieni", mi disse, parlando rado e affondandomi ad ogni parola un solco nell'anima. "Prendi... Ora è roba tua... Ma prima di spenderli... Guardami!" e mi fulminò con un'occhiata fiera e malinconica. "Prima di spenderli, ricordati come tuo padre li guadagna". Una spronata, uno sfaglio, e si allontanò a capo basso nel buio, tra la neve e il vento che turbinava».

Sì. Il medico condotto li guadagna ancora così, i suoi danari, e spesso ancora così pochi, ed è ancora così buono, così forte e così... malinconico.

Ed ecco, per finire, un altro ricordo, più lontano. Quest'altro era medico in Maremma, dove viveva quasi come esiliato o confinato. «Viveva coi contadini, e, nelle ore di riposo e di sosta, con alcuni pochi libri di storia e letteratura che, oltre i non pochi dell'arte sua, aveva raccolti ed amava». Ma le ore di riposo e di sosta erano scarse. Per una desolata campagna quasi incolta, popolata di bufali e di cinghiali... il povero medico, sempre a cavallo, correva da un casolare all'altro a curare i contadini febbricitanti. Guadagnava (era prima del quarantotto)... assai poco: non molto più di due lire codine (di ottanta centesimi l'una) al giorno. Guadagnava assai poco, se, dopo un venticinque anni di professione, poteva lasciare a suo figlio in eredità... dieci di codeste lire codine. Era anch'esso fiero, diritto, soldatesco nel piglio e nella voce, e castigava i figli con non altro che un'occhiata! Ma li istruiva anche, e bene. Mancavano nel selvaggio borgo maestri: era esso il maestro dei figli «nelle ore di riposo e di sosta». Insegnò, tra l'altro, latino, e uno di quei figli particolarmente lo imparò bene; ché andato poi a Firenze fu ammesso in una scuola pubblica con quella sola istruzione paterna, che parve sufficiente e commendevole. Quel giovinetto era Giosue Carducci.

Desti nei vostri cuori una lunga eco di gloria il nome di Giosue Carducci pronunziato nell'aula di Augusto Murri! Entrambi provarono la dura vita di sacrificio che voi provate, o medici condotti, ed entrambi ne furono nobilitati, ed entrambi toccarono gli alti fastigi dell'arte e della scienza. Io ripenso l'ultima volta che s'incontrarono i due alunni del Dio della luce, del Peana musico e salutifero. Un giovinetto si recò dall'un maestro dicendogli che l'altro maestro - avo di quel giovinetto - era infermo grave. Augusto Murri... non rispose; indossò il mantello, e venne al letto di Giosue Carducci. Io non so nulla del supremo incontro; e chi potrebbe parlarne? Nuvole erano stese sulla psiche del Poeta morente. Non forse ella mandò un raggio improvviso che illuminò quella dell'altro grande accorso al suo transito? Che vide ella? qual saluto le mandò? qual augurio le lasciò? Nessuno vide: nessuno udì: tutti sanno. Chi partiva pianse su chi restava. La morte disse PACE! alla vita.

E «Pace!» e «Coraggio!» diciamoci a vicenda, o Compagni, o Maestro! Voi conoscete i mali inseparabili dalla natura umana, eppure sovrumani sforzi fate contro essi. Più facile opera, anzi gioconda e felice parrebbe dovesse essere quella diretta contro i mali non necessari, non naturali, non umani. Eppure gli uomini si trascinano dietro ancora, dopo millenni e millenni, questa ingrata compagnia che non chiede se non d'essere lasciata nel cammino. Ma voi, o buoni, o forti, o soccorrevoli, come combattete il morbo, come attenuate lo spasimo, come allontanate la morte, così predicate la giustizia, la tolleranza, la pietà.

Per questo vi amo, o antesignani dell'Era nuova.



Il discorso che qui ripubblichiamo è tratto dal volume di Giovanni Pascoli «Pensieri di Varia Umanità» nell'edizione di Arnoldo Mondadori, che ne ha cortesemente concessa la riproduzione.

QUESTO VOLUME FUORI COMMERCIO, EDITO DA «IL GIARDINO
DI ESCULAPIO», STATO IMPRESSO DALLE INDUSTRIE GRAFICHE
NICOLA MONETA IN MILANO IL 28 MAGGIO 1955.