Alla memoria di Pio VII Pontefice Massimo/Memoria
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IL giorno 20 agosto 1823 morì in Roma Pio VII Pontefice massimo, nato in Cesena il dì 14 Agosto 1742, e asceso al Pontificato il 14 Marzo 1800. Con tutto che la grave età e la inferma salute di questo sublime vicario di Cristo avessero pur troppo prima d’ora annunziato agli animi dei fedeli il suono vicino di quell’ora fatale che togliere il dovea dalla terra per ricongiungerlo al cielo, tuttavia il dolore di tanta perdita non meno forte si fa sentire in chi nel cuore tiene scritte le memorie della sua luminosissima vita come uomo, come principe e come pontefice. Per temperare adunque sì fatta amarezza, dalla quale per esser egli nato di donna non poteva esentare i suoi cari figliuoli, dee rinvestirsi viemaggiormente l’animo delle sue alte virtù, ed impegnarsi lo spirito, affinchè ciascheduno di noi cristiani cattolici, riflettendo sè in se medesimo, miri la memoria di lui sempre viva, a proprio lume e conforto dopo il tramontare di un astro così risplendente. In mentre che io, rinchiuso fra le strette pareti della mia stanza, segno queste linee dettate dall’ardente affetto del cuore, ad unico fine di dare ai miei e agli altrui occhi un testimonio visibile dei fatti di Pio VII, altri ingegni di me più felici, già eruditi di ogni minuta particolarità che spetta a sì gran personaggio, metteranno a pro la fecondità della mente e i fiori della penna, per tesserne tal panegirico, che ne faccia risuonar di compianto non le logge sole del Vaticano, ma le chiese tutte del cattolico mondo. Non io perciò desisterò dall’offrire il mio sincero tributo a quella grand’anima, per quanto sta nelle mie languide forze, descrivendo ed esaltando i meriti dell’uomo, del principe e del pontefice, e destinando il mio scritto a quelli cui pur punge brama di udir favellare dell’estinto lor padre, ch’essi perdettero senza aver mai potuto vederne l’amabile sembianza ed udire il soave suono di sue parole, e senza poterne ora asperger di pianto la bara e forse mai visitare il sepolcro. Me fortunato! se potrò da esso lui inspirazione impetrare che mi ajuti a dir ciò che io sento, ed a fare altrui vivamente sentir ciò che io dico.
Tocca alla storia il registrare esattamente nelle sue carte la serie delle azioni gloriose di Pio VII; perlochè lasciando io a quella ciò che è di suo dritto, mi contenterò di cominciare a ragionar da quell’epoca in cui Pio, divenuto padre comune dei fedeli credenti, mostrossi loro nei sopraddetti aspetti di uomo, di principe, di pontefice; quindi dirò com’egli abbia adempiuti questi tre grandi ufizj per cui la Providenza lo staccò dal suo seno, e mandollo quasi novello confortator de’ mortali ne’ giorni d’ira, che annunziar parean prossima l’ora da David e dalla sibilla profetizzata, in cui il secolo dovesse sciogliersi in faville ed in polvere. Uomo dunque noi vogliamo considerarlo e quando la fronte cingea del triregno e quando in mano stringeva lo scettro; perchè là dimostrò, che nullo ei sentiva fumo di vanità per primazia pontificia, nè pungolo d’ambizione per altezza di principato. Finchè l’uomo vive confuso colla moltitudine degli altri uomini, o porti egli il nome di semplice cittadino, od ascritto sia a qualche particolare congregazione, raffrenato o dal timor delle leggi, o da quello de’ suoi principali, può senza sforzo camminar rettamente sulla via del bene; ma ove un figlio di Adamo tant’alto ascenda, che ad un atto della sua volontà ceder possan le leggi e d’altri di sè maggiori ei non tremi, più non havvi che l’usbergo della virtù che l’anima dalle ree passioni dell’umana natura difenda. Orrida cosa è la superbia, pestifera l’avarizia, schifosissima la lussuria, e facilissima cosa è il dire: siate umili, siate caritatevoli, siate casti. Quanti principi non lo dissero, quanti pontefici nol predicarono! Ma io so che ora peccherei d’imprudenza, se svolger volessi le pagine della storia per qui notare i nomi di quei re e di quei pontefici i quali, non dirò la dignità loro, ma lo stesso carattere di uomo vilmente disonorarono. Nè tale espressione pur caduta sarebbemi dalla penna, per non concordar con coloro che di ciò traggon partito per inveire contro il pastorale e contro lo scettro, se a lor confusione non potessi additar loro Pio VII pontefice e principe, e nello stesso tempo il più umile, il più caritatevole, il più casto fra gli uomini. Ah! sì, tutti te predicano, o Pio, angelico nei costumi, umile nello spirito, caritatevole nel tuo cuore. Dai raggi della bellezza tu non torcesti mai bruscamente lo sguardo; tu sorridesti con celeste sorriso sulla più bella fattura del creatore, encomiasti coloro cui l’arte insegnò a ritrarne le gentili sembianze; ma chi può dire che la vergine tua anima sia stata mai appannata da un men che da un men che puro pensiero? Veniano in folla al tuo cospetto le romane matrone, veniano dalla Senna, dal Tamigi e da ogni parte di mondo le figliuole di Eva, e sì bella e sì veneranda era la castità del tuo volto, che state pur fossero Veneri e Maddalene, cadute sarebbono ginocchioni a tuoi santi piedi, ed unti li avrebbero colle loro lagrime, e col velo della chioma asciugati. Così tu a tutti i miseri cui fralezza, effetto della prima colpa, ha fatto infermi, e per se stessi incapaci di resistere alle attrattive del piacere, alzasti la mano di grazia e il debito rimettesti, purchè nel cuor loro riaccesa si fosse la fiamma di amor divino. Per tal modo Pio VII insegnò coll’esempio, che non le veementi declamazioni, non le ire minacciose contro la umana fragilità sollevano gli uomini alla castità della vita, bensì la dolcezza e l’affetto che da cuor casto derivano possono inspirar loro coraggio e fortezza. Perchè all’uomo difficilmente tu puoi persuadere, che scabra e dura non sia la pratica della virtù, nè dolce e soave il possesso di quella, se tu con un oggetto postogli di rincontro non isforzi il suo intelletto al convincimento, e non gli presenti nell’esempio di un altro uomo lo specchio purissimo, in cui alla vista della propria immagine si copra di vergogna la fronte, e il bisogno senta di affinare in quel sacro fuoco le sue sconcie sembianze. E talmente io mi affido alla verità di questo argomento, che tengo per certo esservi gran numero di gente, a cui l’aspetto solo di Pio abbia fatto in un punto mutar vita e costumi. Grazia somma fu in vero questa del cielo di far sorgere fra gli uomini un uomo di tanta virtù, mentre a tale estremo era giunta la umana corruttela, che sembrava che il pudore, non trovando più angolo da ricoverarsi sopra la terra, avesse aperto le ali per restituirsi al cielo.
Ma quest’uomo, che tanto agli altri mortali conoscersi dovea superiore per la purità della vita, non sentia in se medesimo un solo pensiero che gli dicesse: gloriati di te stesso. L’umiltà fu sempre compagna dei giorni di Pio VII; e per questa noi vogliamo considerarlo vero eroe del secolo in cui viviamo. Oh! perchè non ho io colori da descriverlo quale ei si mostrava entro le regie stanze del Quirinale, cinto il capo del reale diadema, circondato di porpore, seduto su quel trono da cui Augusto glorioso dettava le leggi a tutta la terra?
Dirò solamente che da uomini per diversità di religione meno inclinati ad encomiare i romani pontefici io ho udito dire più volte, aver eglino ammirata la faccia di alcuno di quegli antichi Romani, che investiti del potere della dittatura ed elevati al più alto seggio della repubblica, serbavano la modestia e la schietezza di un semplice cultore della campagna; talmentechè nello stesso modo che in Quinzio dittatore si riconoscea quello stesso che pasceva le pecorelle nel prato, in Pio principe e pontefice si ravvisava il modesto aspetto di un virtuoso cittadin cesenate. I Principi potentissimi che visitarono Roma fanno ampia testimonianza della rara mansuetudine di questo degno successore di Pietro, e per la umiltà, con cui egli appulcrò la cattedra, perdettero essi fin la memoria della severità di Gregorio, di Giulio e di Sisto.
E più di tutto io mi meraviglio come nulla potesse egli alterazione patire, vedendo alla sua presenza affacciarsi que’ medesimi avversarj ferocissimi del papato, che nel brittanico parlamento levano intolleranti le grida contro i cattolici loro concittadini, pel solo motivo che questi l’alta dignità pontificia instituita riconoscono divinamente. Meraviglioso io dico era a vedersi come ad un solo mite accento della sua voce si frangesse l’inglese alterigia, e via da lui ciaschedun si partisse dicendo: veramente figliuolo di Dio sembra questo. Così è: l’orgoglioso in faccia all’orgoglioso sente gonfiarsi il petto d’orgoglio; ma in faccia all’umile la superbia nel cuor del superbo vergognata si asconde.
Se tale sa dimostrarsi l’uomo alla presenza di coloro, cui la potenza o l’elevatezza della condizione pone in grado al suo non diverso, non è però men difficile alla sua natura il manifestarsi umile qualora si trovi fra la moltitudine degl’inferiori che stanno intorno a lui condensati; anzi il manifestar l’umiltà concedendo, negando, condannando, imperando è forse la più ardua delle umane virtù. È vero che la voce della ragione si fa udire sovente al filosofo, che ritirato nella solitudine della villa medita sui diritti comuni a tutti quelli che compongono la congregazione del genere umano, e conchiude che niun uomo come uomo dee credersi da più d’un altro; ma se tu darai al filosofo in mano la spada, e lo vestirai della regia clamide, quante volte troverai tu che il fatto corrisponda al diritto? Nulladimeno non è chimerica questa virtù, e Pio VII lo dimostrò: egli che mite ed umile di cuore, presentavasi nelle vie di Romolo qual era nelle solitarie chiostre di Benedetto. Dove mai tanto difficultoso esser poteva l’esercizio di quella virtù, quanto in trattar colla plebe insolente, la quale, ove manchi il terrore con cui sogliono frenarla i principi, passa in men ch’io non dico dalla venerazione al dispregio de’ suoi stessi dominatori? Se non che il volgo istesso sa riconoscere se l’umiltà de’ suoi reggitori derivi da virtù ovvero da debolezza; e la virtù, sotto qualunque siasi apparenza si faccia ella conoscere, attrae sempre l’amore e la riverenza dell’universale, e porta seco l’impronta che in breve tempo la fa distinguere da quel vizio che più da vicino suole rassomigliarle. E vieppiù l’umiltà del Pontefice era dal popolo riverita per esser questa sempre accompagnata dalla beneficenza.
Se l’uomo abbia il cuore naturalmente benefico, anche rinchiuso: dentro alle murate reggie, ove pur non oda la voce lamentevole del mendico, o non veda bagnarsi il pavimento del pianto della vedova e dell’orfanello, può essere nondimeno che la tratta di un sospiro lo faccia risovvenire dei guai che soffrono alcuni mortali, e può darsi ch’ei pensi al loro soccorso. Ma questo sentimento nasce e muore in un battere di pupilla, e ad esso succede il pensiero di accumulare il denaro o per dilatare i confini e la potenza dell’impero, o per accrescere le rendite della famiglia; accusa con troppa frequenza rinnovata contro i capi della romana Chiesa dai detrattori della medesima; sì che pareva che l’avidità di arricchire sè ed i suoi stesse nella istituzion del papato. A smentire sì fatta asserzione venne Pio VII, provando con l’opra, che gli abusi della corte romana, introdotti ne’ secoli barbari, procedevan dall’uomo e non dalla dignità, e volle la Providenza che egli uomo facesse conoscere come quello fosse veracemente il seggio, da cui più che da qualunque altro luogo aprivasi il tesoro della beneficenza, e dove un principe pontefice nulla per se ricoglieva, tutto sovra gli altri versava.
Or qui di un modo comune io mi gioverei certamente, se trar volessi partito da una rettorica figura colla mira di abbellire il discorso. Indarno io lo vanterei benefico fra i suoi sudditi, invan fra i cattolici, invano fra gli uomini; milioni di genti, mentre io scrivo, con incessabil voce il proclamano. Io non pertanto ripeterò le brevi parole di cert’uomo che più non vive, il quale nella selva delle vane fantasie lungamente aggirandosi, immemore dell’alto ufizio che nella umana società era destinato a compire, andò errando in regione longinqua, ed ivi tutta la sua sostanza lussureggiando consunse. Nella miseria e nell’estrema disperazione scrisse egli compassionevoli epistole ai parenti, ai confratelli, agli amici; ne mai vide uno scritto pietoso che apportasse alla sua miserrima vita un lieve soccorso. Quando un pensier della Provvidenza gli surse dall’animo che inspirollo, così com’era dalle vigilie e dal digiun logorato, a strascinar se medesimo fino alle sponde del Tevere. Ivi giunto si attenta di penetrare dentro la regia soglia, e senza chiedere che alcun ciamberlano nelle pontificali stanze lo guidi, attende che il Pontefice esca alla consueta ora di udienza. Appena comparir lo vede distende la mano devota in atto supplichevole, presentando in un foglio alcuni indizj della sciagurata sua storia. Con un cenno il santo Padre gli fa intendere che lo segua, e precedendo entro appartata stanza il conduce. Colà il supplicante gettasi ai sacri piedi, e fra i pianti e i singulti, che gli affogan la voce, può pronunziare a stento: Padre, son vostro figlio, consolatemi. Lo conforta il Pontefice e lo eccita a fargli la sincera confessione de’ suoi lunghi errori. Udita questa, poichè l’ebbe con paterna dolcezza ammonito, come a capo della religion si conviene, tal copia di liberali grazie sopra quel meschino ei profuse, che i suoi ultimi giorni potè finire (or volge il terz’anno), abbastanza dei beni del corpo e largamente di quelli dello spirito saturato. Me moria è questa, di cui io rendo testimonianza di udito dalla stessa bocca dell’uomo beneficato, di cui io ripeterò, come dissi, le brevi parole, le quali dal giorno del beneficio fino a quello in cui la morte gli chiuse gli occhi, erano il motto consueto ch’ei proferiva: Pio VII è il padre dei miseri; è la vera immagine di Gesù Cristo. Tanto era il nostro sommo Pontefice maestro e norma di tutti gli uomini in castità, in mansuetune, in carità.
Sollevisi ora alquanto la mia orazione a riguardare il vicario di Cristo come quello, a cui i decreti della Providenza posero in mano le redini del principato.
Poichè a lui toccò di ascendere il trono di Roma, pensò alla conservazione di ciò che spettava a lui di diritto, come sano principio onde contenere i popoli saldi nella fedeltà e nella quiete. Il primo segno della prudenza del re si esprime colla scelta di buoni ministri, e perciò da questa scelta ebbe cominciamento il governo del suo per sempre memorabile principato. Fintantochè la destrezza de’ suoi sagaci negoziatori potè aver di che concedere alle pretensioni di un conquistator potentissimo, non volle prudenza che si lasciasse nascere occasione di romper guerra; ma quando l’ambizione non conobbe più limiti, e tutto si volle senza nulla lasciare, allora Pio principe si mostrò degno di portar la corona della quale Dio gli avea cinta la fronte. Che far poteano pochi soldati, non ben anco nell’arte della milizia istruiti, contro le agguerrite legioni di quello che conquistata tenea con forte dominio sì gran parte d’Europa? Ma sfumino pure i guerrieri destinati a difendere la città, solo per tutti resiste il re. Incatenato al carro imperiale, condotto in terra straniera, nel fondo della prigione in cui giace rinchiuso egli salverà Roma e l’imperio. Dicasi pur da coloro che alla luce della verità vogliono chiudere gli occhi, che l’amor del regno non dovea portar tant’oltre il Pontefice. Rispondo io, che un giusto e saggio rettore della repubblica può tutto sagrificar sulla terra, fuorchè il diritto. E oltre che in questa altera resistenza vedo io la grande fortezza di Pio VII consuonar ai sacri principj del diritto delle genti, parmi eziandio ravvisare in lui un non so che di ancor più sublime, che da una diversa virtù riconosce l’origine. E qui siami lecito l’avvertire, che uomini nelle sante materie di religione dottissimi sostengono, la virtù (come che tutta umana) degli antichi padri coscritti abbia la Providenza ordinato che Roma, come fu capo del mondo pagano così lo sia perpetuamente del mondo cattolico, e libera nel cuor dell’Italia debba tener vive nel suo seno le memorie di sì grande nazione, fresco serbare il seme dell’antico valore, e farsi sempre. specchio al mondo di quanto v’ha di nobile e di generoso fra le umane genti.
Io vorrei che alcuno insorgesse rammentandomi i fasti del popolo di Quirino, ch’io vorrei eccitarlo a provare se Muzio Scevola che ferma tien la mano nella fiamma dinanzi a Porsenna, se Attilio Regolo che consiglia i Romani di non arrendersi ed offre se stesso in olocausto alla patria, se Camillo che dall’esilio va a liberare il Campidoglio dai fieri Galli nel momento che all’oro il ferro aggiungeano ingiuriando per far traboccar la bilancia, fossero più infiammati dall’amor della patria di Pio VII, che stretto fra i ceppi mai col cuore e col labbro non assentì di dichiarar Roma ad estranee genti soggetta. Sì, a lui, ravvivatore della fortezza de’ Muzj de’ Regoli de’ Camilli, dee Roma la fortuna di essere ancora Roma; e l’Italia, ingiuriata a torto di aver perduto la razza dei forti, a lui deve gloria di poter vantare in faccia alla posterità, che un solo Italiano inerme nelle pene della schiavitù, tutto in se stesso fortificato, confonder seppe la vasta mente e render vana la immensa potenza del domatore delle più grandi nazioni d’Europa. E ch’egli meritasse d’essere salutato salvator della patria lo attestarono i popoli, allorchè infrantesi quasi per celeste prodigio le tenaci catene, fu seminata per tutta Italia la via di rose e di gigli, e tutte a coro a coro osannando le itale genti trionfante lo accompagnarono al Campidoglio. Felice trionfo di questo re mansueto che venne qual colomba portando il ramo di olivo, trionfo ben più glorioso di quello di Cajo Mario e del grande Pompeo: chè maggior virtù fu il non cedere a quel solo, che non l’uccidere trecentomila Barbari, e romper Mitridate con tutti i re dell’Oriente.
Principe risalito in trono seppe rammentarsi di esser padre e consolatore dei suoi soggetti, offerendo sè medesimo per pegno di quella concordia che il bollore del le concitate opinioni metteva pur troppo in pericolo; ed in quei giorni difficili fu forza il potere della sua reale autorità adoperare, per estinguere al primo nascere il reo furore delle parti, dall’alternare delle trascorse vicende (ahi troppo!) attizzato. Chè l’autorità di sovrano non mai meglio necessaria si rende, come quando trattasi di abbattere le fazioni degli stati pestifere desolatrici; meritando d’essere dichiarato pubblico nemico chiunque osa venir parteggiando, qualunque esser potesse il colore del suo vessillo. E ove gli uomini sieno stati nelle onde tempestose delle civili discordie travolti, al ritornar dell’ordine devono prudentemente le passate agitazioni obbliarsi: sicuro espediente di ristabilire la pace interna, che sola può i vincoli della umana società nuovamente assodare, e far la nazione libera, forte e felice; sicchè se primo dovere del principe è la giustizia, la sua più benedetta virtù è la clemenza. Laonde Pio al santissimo fine della tranquillità dello stato mirando, volle fermi tener quei ministri che l’arte conoscessero di unire il passato al presente, e trar sapessero profitto da tuttociò che di buono ha la filosofia de’ nostri tempi nelle istituzioni civili intromesso. Quindi fu irremovibile nel mantener quelle leggi, che assicuravano i pubblici acquisti fatti dai cittadini sotto le altre dominazioni, riprovò chi parere contrario manifestava, e tuonò contro chi per eccessivo zelo turbava la quiete delle coscienze, lasciando così libero il campo alla pietà dei fedeli di esercitarsi, donando spontaneamente a quei sacri istituti ch’erano rimasti privi dell’antica dote. E come alta accortezza dimostrarono i suoi ministri nell’interno reggimento del principato, parimente avveduto consiglio appalesarono nei trattati cogli altri principi, e tali seppero intavolare proposizioni che fin le provincie, per le vicissitudini anteriori dal regno divise, a Pio papa da chi ultimamente le occupava colle armi furono magnanimamente restituite. Nè le provincie soltanto, ma i monumenti preziosi di cui furono spogliati i sette colli, e che trasportati alla Senna, più che la gloria attestavano il malo acquisto dell’altera Parigi, ricomparvero ad accrescere lo splendore di Pio VII. Dico ad accrescerne lo splendore, perchè se come Italiano e come Romano non fu inferiore in virtù ai più venerati campioni della repubblica, per la generosità con cui rimunerò i grandi ingegni ricondusse in Roma medesima i bei giorni d’Augusto. Anzi poichè mi accade d’instituir paragone fra Ottavio e Pio VII, io osserverò, che se quello nella ruina della campagna Mantovana, ai veterani per la sollevazione degli abitatori distribuita, in virtù del suo amore pei begl’ingegni salvò a Virgilio il paterno tugurio, gli armenti e la verde riva del Mincio, questi donò a Canova i vasti fondi irrigati dal Tevere, e al grado sollevato il volle della più distinta nobiltà romana; onde i posteri giudicheranno, se Titiro che posa sotto l’ombroso faggio attesti più la munificenza di Augusto imperatore, o il marchese d’Ischia la liberalità di Pio principe. Che se taluno la prisca età di Pericle per comparazione voglia rammemorarci, noi gli domanderemo, se più fortunata egli creda la fama di Fidia che scolpì Minerva e Giove, o quella di Canova che scolpì la Religione e Pio VII.
Sotto il suo principato, dentro alle mura di Roma, si riunì tuttociò che di più grande le arti greche e italiane hanno creato, e per lui cotanto il genio di quelle si accrebbe, che fin la superba Inghilterra, che a se tirar tenta tutto il denaro delle nazioni, se pur brama che nulla manchi al suo lusso, dee nell’Italia riversar la moneta, perchè i tetri Britanni potranno ben tesser drappi e lavorar nell’acciaro; ma il ravvivar la natura sulle tele e sui marmi lo possono soltanto coloro, cui diede la sorte di nascere sotto l’azzurra volta dell’italico cielo.
Ma le sublimi qualità del principe in Pio obbliar non ci fanno le più che umane virtù del pontefice. Ogni cristiano già previene il mio dire, convinto che Dio fece lui meritevole di rialzar il culto della religione, ove la furiboņda licenza armata della tremenda scure dell’ateismo lo avea fatalmente distrutto. Riveda chi vuole gli insanguinati fogli della storia, in cui sono delineati i disastri che accompagnarono una delle epoche più straordinarie, che siano notate nelle tavole degli scorsi secoli: il mio animo per raccapriccio rifugge, e la penna abborre qualunque siasi memoria di que’ fatti, che bruttarono la civiltà dell’umano consorzio nel secolo della filosofia e delle lettere. Io non veggo che un guerriero assiso su quelle immense ruine temperarne alquanto l’orrore colla luce che sgorga dalle sue armi; ma impotente lo miro a restituire lo sconvolto ordine delle cose, se non gli presta ajuto la veneranda autorità del romano pontefice. Ed ecco la sua mente di grazia divina raggiante discernere quella quasi invisibile linea, che stabilisce il confine fra Dio e Cesare, e segnarsi uno de’ più celebri trattati che vantar possano gli annali ecclesiastici; il Concordato del 1801. A quel punto vide la Francia levarsi la nera gramaglia che da parecchi anni coprivala, schiudersi in un giorno solo i sacri templi, rialzarsi gli altari, risuonare i sacri bronzi, per quella stessa forza che ogni cosa aveva distrutto, sacerdoti offrir in rendimento di grazie l’ostie di propiziazione, vescovi benedire e consecrare, e il Pontefice munito delle somme chiavi serrare le porte di Babilonia e riaprire quelle di Gerosolima. Per la qual cosa benedetta dalla mano pontificale quella spada che sguainata allora mostravasi a pro della religione di Cristo, fu lungo tempo stromento di vittoria pel capitano che la impugnava, finchè adoprata in ingiusto conquisto, e bagnata di sangue innocente, s’infranse nella mano stessa del vincitore, ond’ei vacillante la mente e disarmato la destra cadde nelle mani de’ suoi nemici. Or vedi nuova grazia della Providenza: mentre a quel non favoloso Prometeo, confitto allo scoglio, rodeva le viscere un rostro ben più crudele di quello dell’immaginato avoltojo, il primo Sacerdote della Chiesa tutti gli umani rispetti abbandonando, memore dell’unto capo, a lui in quella orribile solitudine inviò i dolci conforti della religione, per virtù della quale, e per merito di tanto Pastore, è da sperarsi che l’estremo respiro di lui abbia Iddio accolto nel proprio seno.
Facile è a distinguere come ne’ tempi di corruzione, ove scopo di tutte le umane azioni è il personale interesse, difficilissimo sia il serbare intatti non dirò gli usi e le discipline, ma le stesse massime eterne di verità, che a sì fatta turpe inclinazione si oppongono. Troppo diffusa è la contagiosa dottrina che insegna all’uomo a non pensare che a se medesimo, perchè egli non giunga a sagrificare a questa malnata affezione anco il sentimento medesimo della giustizia. E quando tace ne’ cuori il sentimento dell’equo e del giusto non v’ha più morale, e la società, anzichè umana, appellar si dovrebbe ferina: per lo che in tali malaugurate età convien chiamare in soccorso la forza per rispinger la forza, assiepar le vie di soldati, premere, aggravare, imprigionare, uccidere i perturbatori per salvare la maggior parte, in una parola la quiete conservar col timore. Per togliere uno stato di tanta violenza non havvi che il poter della religione, la quale nell’uman cuore dolcemente insinuandosi, sveli all’uomo la sua origine, gli rinfranchi nell’animo il sentimento dell’immortalità del suo spirito, lo persuada che ognuno ha con tutti comuni i diritti, e che la giustizia tiene il suo principio da quello che è principio e vita di tutte le cose.
Tali verità non sì facilmente trovano aperta la via negli animi preoccupati dalle passioni: noi abbiamo veduto cogli occhi nostri quanto infelici siano stati gli sforzi di coloro, che o con iscarse facoltà di mente, o con troppo cruda eloquenza, vollero oppor resistenza all’impeto delle manifestate inclinazioni del secolo. Pel bene adunque degli uomini era necessario alla nave di Pietro un pilota, che sapesse reggerla fra le furie dei venti senza urtar nelle sirti: era d’uopo che il Pontefice conoscesse i tempi e gli uomini, e volesse, anzichè colla punta acuta del ferro, sanare col soave lenimento dell’oglio le piaghe dei pervertiti mortali. Quindi ammonire, invitare, assolvere furono le doti speciali che distingueranno mai sempre il pontificato di Pio VII. Per queste egli sollevò a maggior altezza l’edifizio fondato da Pietro, per queste ravvicinò gli animi dei cristiani in tante e sì diverse parti divisi, e queste finalmente furono il seme, il frutto del quale dee essere o tosto o tardi la riconciliazione della grande famiglia cristiana.
Che se di tale altissimo personaggio la terra or si riprende le spoglie, della memoria di lui avidamente s’impossessa la Fama. Questa la trasporterà di monte in monte, di lido in lido, di nazione in nazione, di secolo in secolo finchè del nome di Pio VII pieno sia tutto l’orbe; e come un giorno, cessata la tempesta delle civili discordie, per la virtù di chi reggeva l’impero si sottomise a Roma l’Europa, l’Affrica e l’Asia, così tempo verrà che le immortali virtù dello spento Pontefice, sbandita la caliginosa dottrina dell’ateista, rischiaratasi la nebulosa mente del maomettano, caduta la benda incantata dagli occhi dell’idolatra, tutte le genti dell’uno e dell’altro emisferio esultando si affollino intorno alla Croce.
Per questo pensiero io nell’interno delle mie viscere fortemente commosso, e dalla foga dell’immaginazione ne’ tempi avvenir trasportato, veggo aprirmisi le porte di un tempio. In mezzo a questo isolato scorgo elevarsi un altare, su cui maestosa torreggia una statua opra del Canoviano scarpello, dall’un e dall’altro lato di sopra a sei e sei candelabri d’oro ardere fulgentissima fiamma, nube di mirra e d’incenso intorno lentamente aggirarsi, e il suono degli organi accompagnare le dolci salmodìe dei cantori, che intuonano Beatus vir, a cui immensa turba di popolo devotamente risponde: Beato, beato, o Sacerdote, Pontefice, tesoro di virtù, pastore buono del popolo, prega per noi il Signore del cielo e della terra. Lettore, questo è il tempio di cui il mondo cattolico ha già piantata la base: questo è il tempio che sarà dedicato a Pio VII. Che se a me sciagurato mortale dato non sia con questa mia carne e colla mia figura di prostrarmi sui gradini del sacro altare, io già prevengo il tempo collo spirito, e a te dinanzi piegato, o novello Santo, te invoco e queste grazie domando: struggi dintorno a me le tentazioni del mondo, e salvami dalle ingiustizie degli uomini.