Alpi e Appennini/Al Gran Cervin
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AL GRAN CERVIN
Un’ascensione in primavera
ontinuamente acceso dal solito fuoco sacro, per le alpi nostre, aveva in mente di educare ai monti ed infiammare per essi del mio stesso entusiasmo un giovane amico, l’ingegnere Santelli, e tanto feci che lo indussi a venire con me. Sarà stata una imprudenza, ma fissai una meta da raggiungersi assai difficile: fidava però nella mia buona stella e nelle mie ottime guide.
La sera di Domenica 9 Maggio di quest’anno, arrivammo a {{W:Valtournenche (valle)|Valtournanche}} e tosto feci radunare tutte le guide onde tentare una cosa che da tanto tempo e da molti si stimava follia sperar.
Approfittando della reverente simpatia che que’ valentuomini avevano voluto dedicarmi, desiderava concigliarli tanto da persuaderli ad ordinare una tariffa delle guide per tutte le corse della vallata. Alla adunanza tenuta nell'Hotel du Mont Rose del Pession, intervennero 50 guide che è quanto dir tutte — e tanto feci, tanto parlai, che riuscii, colla persuasione, colla bontà e colla pazienza, ad ottenere quanto mi era proposto.
Un’altra bella e santa impresa volli tentare. Da molto tempo avrei desiderato che dalle stesse guide si inaugurasse una sottoscrizione per un monumento di riconoscenza al benefattore di Valtournanche, al compianto canonico Giorgio Carrel — celebre alpinista, egregio meteorologista ed appassionato illustratore di Valtournanche — sua patria. Parlai con entusiasmo, ed anche qui ottenni un felice risultato, perché circa lire cento furono tosto sottoscritte. — L’adunanza durò 4 ore e terminò fra strette ed abbracci cordialissimi. Si immagini se era raggiante e contento della mia giornata!
Il lunedì ci associammo all’impresa le celebri guide Maquignaz, Jean Joseph, il fratello Jean Pierre e Carrel. I. A. Vennero pure con noi un servo del Sautelli e Meynet Lue — essere singolare, cacciatore di camosci, piccolo e gobbo, già guida e portatore delle tende di Whyroper il quale aveva con lui per sei volte tentato il Mont Cervin senza riuscirci mai. — Era quindi, il buon uomo, desiossimo di riuscir ora e di levarsi dal cuore un vuoto grandissimo col quale, diceva egli, non avrebbe potuto morire contento. Partimmo per Breil e per istrada visitammo Busserailles e la capella di Notre dame de la Garde.
Il Gouffre di Busserailles a 1643 m, sul livello del mare e distante dal Votournanche un’oretta, forma la meraviglia di quanti lo visitano. È un insieme di grotte e di caverne scavate nel serpentino, dalle acque dell’impetuoso torrente che scende dal Cervino. — In fondo al Gouffre è una grotta più grande, dalla maestosa vòlta e circondata da sedili fabbricati — come la grotta — dall’acqua. A lato di questi, tutto il torrente, — formando una gigantesca cascata — precipita da un’alte?za di 16 metri in un profondo bacino. H Gouffre è lungo 104 metri, alto 35 e largo 4. — I fratelli Maquignaz, e I. A. Carrel curiosi di scoprire qualche cosa di grande, vi si calarono i9 ed il 24 novembre 1865. Sparsasi la fama non vi mancarono i visitatori e si eresse al fianco del gouffre, una casetta destinata ad accoglierli e ristorarli. Dopo — a poco a poco — i fratelli Maquignaz costrussero gallerie e resero così comodo il passaggio dall’una all’altra meraviglia. Il geologo, il bottanico, il paesista trovano lì presso di che occuparsi con utile e diletto. La nostra fu la prima visita della stagione. Il termometro ci notava + 2 Reaumur nell’interno della Grande grotta dei Giganti e + 13 R. fuori — ed il barometro Fortin segnalava una pressione atmosferica di 622,05 mill.
La capella di Notre Dame de la Garde è lì a un quarto d’ora e più di distanza. É vicina a Busserailles di sopra e domina un erboso altipiano. La sua altezza dal mare è di 1838 metri e dice la tradizione popolare, che sia stata costrutta da un officiale valdostano all’epoca d’una guerra contro il Vallese. Però su una lapide di serpentino, si legge in piccoli caratteri:
hoc opus fecit pieri dom. s —
Gabriel Goyer Presbiter Issimensis —
et curatus Vallis-Tornenchle 1679 —
e porta per iscrizione i due versi:
Cretien qui desirez du ciel la sauve garde Saluez en passant Notre Dame de Garde
Lungo il cammino trovammo ancora molta neve ed a Breil ci ospitò il chalet pulito e ricco del nostro Meynet Lue.
Ivi, dopo aver mangiato con appettito straordinario, — una minestra d’erbe di Montagna primaverili e patate e carne fritta, io e Santelli tirammo dritto — passando per banchi di neve altissima, — all'Hòtel du Giumein. Ivi, alle ore 7 pom. il Fortin segnava 596 ed il termometro + 8 Reaumur. Naturalmente l’albergo non era ancora abitato, ed invano picchiammo, ma non ci fu aperto. Dopo scendemmo e ci adagiammo in comodo letto stretti però come acciughe in barile. Ciò non ostante passammo una notte tranquilla, mentre al di fuori la natura infuriava con vento, pioggia e neve. Il mattino di martedì fu per tre quarti buio e minaccioso. Il superbo Grand Cervin si mostrava solo a tratti, non so se per i
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invogliarci maggiormente a salirlo o per dissuadercene. Sul mezzo giorno, il sole usci raggiante ed ardente dalle nubi, e le valanghe, vaghe come cascate e muggenti come cannonate, si precipitarono da ogni parte per gli scoscesi couloirs. Per non restar inoperosi, mandiamo il Carrel a Valtournanche, a prendere i giornali che là mi feci indirizzare, assegniamo i posti di Capo cuoco e di cuoco alli fratelli Maquignaz e preghiamo il cacciatore Lue di provvedere il gibier. Alle 10,30 min. la campana della Capella di Breil, suonata da Jean Joseph ci invitava al desco su cui fumavano due polente; una alla bergamasca e l’altra condita con burro e cacio. Accanto ad esse erano imbanditi; un pollo, carne salata, stracchino, salame, gorgonzola, pane e vino. Un pranzo più gustoso credo che — in simili circostanze — non si divorò mai! Per digerirlo, ci incaminammo per una escursione all’orribile ghiacciaio di Mont Tabel che ci si rizzava davanti. — La gita durò cinque ore, ce ne tornammo stanchi assai; ma col piacere d’aver ucciso un fringuello delle nevi ed aver visitato una miniera di rame. Alle 8, dopo una buona cena, eravamo in letto e si facevan voti pel sereno del dì dopo.
All’una ant. del giorno 12 (mercoledì) le guide ci svegliarono. I nostri voti erano stati esauditi: il tempo si dimostrava splendido. — Alle due partimmo guardando fissamente e con desio il grande e stupendo colosso che si osava affrontare in epoca veramente straordinaria. Avevamo con noi — per recarla alla Capanna — la bella e comoda cucina economica — dono del bravo sig. A. E. Martelli e, questa, gravitava per metà sulle spalle del Carrel e per metà su quelle di Jean Joseph. — Niente di vento ci si aggirava d’intorno e la neve dura, ci favoriva il passo.
Passiamo sotto la cascata di Polaglie' e riceviamo la benedizione dei suoi spruzzi. Illuminata a stento dagli incerti raggi del mattino essa sembra un lunghissimo fantasma ravvolto in bianco e polveroso lenzuolo e questo fantasma, novello Prometeo alla sua rupe, si muove sempre e mai non avanza, ma eternamente mugge e dà in balzi giganteschi. Verso le 3,30 ant. tocchiamo i chalets dell’Eura (del vento.) — Son seppelliti dalla neve e li attraversiamo valicando il tetto. — Lì presso e su un promontorio v’è un po’ d’acqua e facciamo colazione. Son le 4 e le vette vicine s’illuminano dei fantastici chiarori dell’alba. Dopo molta neve, c’imbattemmo daccapo in molta neve e molto ghiaccio. Ci legammo ... in sette ... che carovana! La salita del couloir per giungere a dominare il Colle del Leone fu faticosa assai; ma il peggio venne dopo quando cominciò il vero grimper. Si doveva salire per ispide roccie e quel che è più mal sicure, sia per le pietre muoventesi che ad ogni piè sospinto precipitavano abbasso, sia per la neve ed il ghiaccio che le coprivano e le circondavano. Dopo vennero le corde e fu duopo arrampicare su di quelle come veri funamboli, a forza di nervi. Fortuna che il vento non soffiava, del resto avrebbe potuto sbatterci e frantumarci contro quei giganteschi massi che, ad ogni costo, volevamo superare.
Ma non conviene che precipiti nella relazione, e ritorno al Colle. — E poco dopo di esso, che viene la prima corda posata nel mezzo della Cheminée — un vero camino senza parete occidentale — Segue il luogo detto la tenda (3740 m.) Così si noma un piccolo spazio quasi in piano, difeso a Nord dai venti e dalle valanghe da un gigantesco masso. — Tyndall pose nel 1802 sotto quel masso la sua tenda ed ivi la pose pure l’ingegnere comm. Giordano nelle sue studiose esplorazioni del Cervino, la sera del 22 luglio 1860. Di questa tenda trovo ancora varie reliquie che raccolgo accuratamente come destinate a far parte di un museo storico - alpinistico che iniziai alla mia stazione alpina a Chàtillon. Giù verso la Tersiva par che si stacchi un oceano di nubi in burrasca, tanti sono i cavalloni che lo animano, e da esso le acuminate vette si elevano come isolette natanti. Son le 9 e 40. II Mon Viso là in fondo colla sua elegantissima guglia tagliata e sollevata dalle nubi — è proprio stupendo! I Diablerets sono a destra, davanti si eleva la Dent d’Hérin, a sinistra il Plateau Rosaz ... e le nubi salgono sempre. — Guai se ci molestano! La Tour viene di li a poco. — È una vera torre imponente del Medio Evo con forma ora quadrala — or ottagona — ed ora ovale; — la compongono massi neri e giganteschi tra cui fanno capolino enormi feritoie. È ai piedi di questa Torre che io vorrei si erigesse una capanna in muratura o se ne postasse una in legno, sul modello di quelle che si collocarono a’ piedi del Bianco e del Rosa. Niun luogo si presenta meglio di questo per posizione, formando esso un piccolo piano protetto intieramente dalla mole della Torre, dimodoché né i venti, né le valanghe, potrebbero minacciare il viaggiatore alpino che là si ricoverasse. In un giorno, di lì, si potrebbe salire la superba vetta e ritornarvi comodamente, od anche scendere al Breil. Oltre a ciò, esposto — questo piano — al mezzogiorno, fruisce del sole, dal suo nascere al suo tramontare, ed il sentiero che trae al Cervino gli passa proprio da canto. Comodità tutte, che non si possono avere nella capanna eretta sulla Cintura o Cravatta — come si vedrà. Superando i degrés de la Tour — veri gradini scavati nel masso — in capo ai quali sono fissate due corde piccole e deboli, — e passando fra due pareti verticali si giunge, senza troppa fatica, al Vallon des Glacons — così chiamato perchè dei ghiaccioli ivi se ne trovano sempre ed è ben difficile che l’estivo calore li faccia tutti scomparire, anzi ne crea in maggior numero col far fondere le nevi. Noi ne troviamo molti e molto grossi da cui il sole fa sgocciolare poche stille, che raccolte con pazienza in un botticino, ci confortano molto e certo assai più che la neve la quale troppo raffredda lo stomaco ed eccita il mal di ventre. — Il Vallone dei Ghiaccioli è presto passato e ricomincia l’arduo lavoro dell’arrampicarsi sulla roccia. — II peggio vien dopo nell’essere costretti ad attraversare la roccia che alcune volte è concavoconvessa, colla testa tutt’altro che perpendicolare ai piedi, i quali, posando su una piccola sporgenza, giuocano a gatta cieca ed avanzano a casaccio mentre la testa — squilibrata col corpo — pende sul precipizio. Per fortuna che v’è là una corda forte la quale offre un aiuto possente! E non si creda che ci siamo su questo infido passaggio, spinti tutti e sette in fila, no ... che — adagio, adagio — s’avanza cautamente una guida e trascina lentamente l’ingegnere, seguito da un’altra guida che l’un dopo l’altro gli posa i piedi sul sicuro, e poi, quando i tre sono fuor di pericolo, avanzano gli altri coll’istesso metodo. E qui si prova una delle mille ed una emozioni che offre ai suoi salitoli il superbamente duro Monte Cervino!
Eccoci alle Gite Giordano ove, il valente alpinista e dotto geologo, nell’estate del 4866, sorpreso da perfido tempo dovette arrestare il suo passo tendente alla vetta del Cervino, che, come Mosé, vedeva sempre qual terra promessa ma che, novello Mosè, mai non poteva raggiungere1. Il ricovero offre uno spazio abbastanza riparato dai venti, ma a ripararlo viemaggiormente, le guide del Giordano eressero un piccolo muro. Che notte deve essere stata quella!
Silenzio ed attenti! Ecco un altro dei tanti Cerberi posti da Plutone-Cervino a sue guardie. É il mauvais pas ... brullo passo certo di nome e di fatto. Ci si presenta una roccia tagliata a picco da tutte le parti ... Ma come si fa a procedere olire — se essa
E tirai diritto franco e disinvolto come se si fosse trattato di porre i piedi sul lastrico di una via maestra. E la mia non fu spacconata davvero — chè le spacconate non si possono fare in que’ certi luoghi senza pericolo di grave danno; ma fu un naturale ardimento, un effetto di balda sicurezza. Fuori di pericolo, mi misi a cantarellare dalla soddisfazione. — E avanti sempre! — La gioia ed il coraggio — come la sfiducia e la paura — sono sensazioni eminentemente comunicative ed io mi accorsi del fatto vedendo quanto il franco esser mio, giovasse al compagno di viaggio e rincorasse le guide, il servo e l’imperterrito Meynet Luc.
Nei passi difficili, era bello il vedere il nostro Luc. Quest’essere singolare che già dipinsi coi suoi occhietti luccicanti e rattenendo a stento l’affannoso respiro, guardava a sé davanti e dapprima chiaro si scorgeva che la diffidenza nelle proprie forze e l’incertezza lo assalivano, ed uno scontorcimento nervoso di labbra, formante una smorfia grottesca, segnalava questo suo titubare. Poi fissava me e pareva che l’anima sua nella mia si riversasse ed io — con sguardi sicuri e animati — lo rinfrancava e facevo sì che l’animo mio penetrasse nel suo .. Questo scambio che tanto posi a descrivere non durava che un lampo ed operava un vero miracolo. L’agnello ad un istante si faceva leone ed il povero gobbetto gonfiava le nari, spingeva dal petto come un fremito, avanzava i piedi, colle adunche e nervose dita forte stringevasi alle roccie .. e su e su... Era l’orgoglio che lo animava, lo spirito delle Alpi che lo invadeva, la bramosìa della vittoria che lo spingeva .. Povero Luc ... quella fu per lui una grande giornata! Ed intanto fra un passo e l’altro m’andava raccontando le avventure delle sue reiterate spedizioni con Whymper. — «Ecco — diceva additandomi la Tour — là dietro salii con lui e lassù mangiammo le uova. Lui, cantava allegramente canzoni in inglese, io gli faceva coro in paiois: c’intendevamo lo slesso!...»
Muovemmo i passi verso il Linceul — un vero lenzuolo di neve di forma rettangolare inclinatissimo — quando il buon Luc con voce trattagli dalla emozione e del piacere: «Voilà, disse, fin dove siamo saliti nell’ultima spedizione.» E ci mostrò una roccia su cui una punta in ferro aveva scritto: E. Whymper — Luc Meynet. — Quella roccia segnava per l’intrepido inglese — che una volta tentò il Cervino da solo e fu ad un pelo di rompersi il collo — e pel bravo gobbetto di Breil il non plus ultra dal versante italiano2. «E stavolta andremo più in su» sclamò ’poscia con accento entusiasta il nostro cacciatore di camosci .. e più rapide mosse facevano le sue gambette e di più viva luce brillavano i suoi grigi occhietti.
Il lenzuolo l’attraversammo poggiando sulla sua estremità e ci toccò far dei gradini nella neve e badar bene a reggerci, poiché sotto v’era il ghiaccio, liscio come vetro e duro come roccia.
Ed arrivammo ad uno dei punti fra i più solenni — pei salitori — del Cervino. Lungo una parete di roccia di un dodici metri tagliata proprio verticalmente — pende una lunga e robusta corda. È la corda di Tyndall fatta là collocare dal celebre inglese. È duopo esercitare il giuoco dei funamboli per buon tratto e se il giuoco va male, non è un po’ di sabbia o un mucchio di covoni di paglia che siano lì pronti ad accogliere i nostri corpi, ma un precipizio, irto di roccie, il cui fondo, nero e spaventevole biecamente ci guarda. — «Con questi mezzi» — pensai fra me e me fissando la corda che dondolavami sulla testa «si è riescito e si riesce a violentare la natura; è sempre l’ingegno umano che, rintuzzato da un coraggio e da un volere — erculei — riesce a vincere quanto si propone. Avanti dunque.» Il lungo Jean Joseph si è già aggrappato, con tutta la forza delle sue mani alla corda e si arrampica finché l’altra corda — che tutti ci annoda e che ci separa da Carrel — glielo permette, e poi mettendo il piede sopra una lieve sporgenza di roccia, si volta ed attende gli altri.
In breve il bersagliere (Carrel) gli è presso e viribus unitis aiutano l’ingegnere a salire. Alla stess’opera attende il Jean Pierre che gli vien dietro adagio adagio, sorvegliandone e proteggendone ogni mossa .. A palmo a palmo, l’un dopo l’altro, sempre sudando or freddo or caldo ed aiutandosi di mani e piedi, ci tiriamo su. Joseph è già arrivato a padroneggiare la roccia e di là ei può dirigere e sorreggere tutta la carovana. Il nostro Luc è ancora al basso della corda e tutti noi siamo come sospesi fra cielo e terra e donduliamo nello spazio. Il Luc sta intanto per vincere una della più fiere battaglie che siansi impegnate contro di lui e continua a guardare le nostre mosse e le mosse della corda con un occhio fra l’atterrito ed il perplesso. Dubita che le sue forze non siano sufficienti a vincere tanto passo... «Courage Lue et avant» gli gridiamo dall’alto: «Eh bien courage!» risponde, e si afferra alla corda e si arrampica lui pure con forza ed energia tali che ne restammo tutti sbalorditi .. Un dopo l’altro superammo la grande corda, e fu questa una delle nostre fatiche d’Ercole.
Il quarto d’ora di Rabelais, non fu certo né più lungo né più terribile! Sapeva che, ai piedi della corda avevamo 4080 m. dal livello del mare e, giunto a dominarla, voleva conoscere con precisione la differenza dal basso all’alto e volli osservare il Fortin. Ahimè! La
La sega, o la cresta del Gallo ci condussero diritto diritto alla Cravatta (4422). Perchè si diede un tal nome a questa parte del Monte Cervino? — Certo per la fascia di neve e ghiaccio perpetua che la cinge ed è messa in singolare risalto dalle nerissime roccie che la toccano. — Non posso però far a meno di ripetere una giustissima osservazione dell' ingegnere Giordano. Al Cervino si attribuisce — e non senza ragione — la forma di un uomo; se è cosi, siccome più sopra alla Cravatta hanno posto la spalla (l'èpaule) io vedo in questo fatto un controsenso sì materiale da doverlo distruggere — mutando il nome di Cravatta in quello appropriatissimo di Cintura. - E così credo la pensino tutti coloro che .. la pensano come me ...
Noto che il sole, i nostri oriuoli ed anche un po' i nostri stomachi, segnavano il meriggio quando toccammo la Cintura e noto pure che là si trova una piccola spianata fatta apposta per invitare lo stanco ed affamato alpinista ad un po' di riposo e ad umile refezione. — Ci sedemmo quindi in cerca dell'uno ed in prospettiva dell'altra.
Permettasi quindi che, fra un boccone e l'altro, dia altre notizie riguardanti la nostra carovana. Benché dalla descrizione di qualche passaggio siasi già potuto capire l'ordine con cui eravamo l'uno all'altro legali, pure faccio una ripetizione per maggiore chiarezza. Erano davanti Carrel e Maquignaz Joseph; Santelli — seguito Jean Pierre — veniva dopo, e le guide tutte erano seriamente occupate del nostro ingegnere, che, non ostante il coraggio e la volontà sua, sentiva tremarsi le gambe e tentennare il capo, ma pur sempre saliva. Dopo Jean Pierre veniva io ; mi seguiva il servo del Santelli, Dumini, e formava l'estremità della corda, il volonteroso ed entusiasta Meynet Luc che faceva sforzi erculei per camminar sempre onde giungere, finalmente a toccare l'agognata felicità, il vertice del terribile Cervino. A dire il vero, io non m'era mai sentito cosi bene in gambe ed in forze come allora e faceva miracoli di potenza, di equilibrio, di snellezza di nervi, e di robustezza di gambe e braccia. Le tre guide quindi, osservando le ottime mie disposizioni, credettero non dover più occuparsi di me. Io invece mi sentii in obbligo di occuparmi di chi mi seguiva e, orgoglioso, fermo ed attento, impresi a compiere le mie nuove funzioni di guida onoraria. Se della fiducia di cui mi colmarono le ottime mie guide, io vado altamente superbo, se lo immaginino i miei giovani colleglli in Alpinismo.
Ma non eravamo punto al fine del nostro viaggio e molti pericoli ci attendevano ancora. A mezz’ora di cammino di lì — attraversando la Cintura, che sta sotto la spalla — e consiste — come già dissi, in una bianca fascia per la neve eterna che ricopre le roccie trovasi la capanna che il Club Alpino Italiano cominciò sui primi di agosto 1867, e terminò il 23 dello stesso mese, a riparo degli ascensionisti del Cervino e coll’opera delle Guide G. A. Carrel, G. B. Bich, fratelli Agostino e Salomone Meynet, G. Giuseppe e Vittorio Maquignaz. — L’ingegnere ed il suo servo erano i più affaticali della comitiva e sì l’uno che l’altro vollero restar ivi. Il servo non lo importunammo, ma fra tutti si cercò infondere nuovo coraggio nel Santelli, e riuscimmo a scuoterlo, toccandolo un poco nell’amor proprio. Quindi slegato Dumini e raccomandatogli di star sveglio nell’attenderci, seguitammo ad arrampicarci su per la cresta ispidissima che doveva condurci alla «Spalla». Brutto passaggio invero e reso ancora più brutto dalla neve che ci metteva in pericolo di capitombolare ad ogni tratto. A sinistra, piomba abbasso sul ghiacciaio di Zmutt un precipizio quasi a picco ed alla nostra destra, si sprofondano veri abissi. La spalla, presenta punte acutissime dominanti un orrido vuoto.
Una raffica di vento, uno scrollo, un passo falso, basterebbero per mettere noi ed i compagni di corda in estremo pericolo. Per chi soffrisse anche poco le vertigini, la situazione si farebbe terribile e l’avanzare, impossibile. Guardammo in alto e, sulla prima vetta del Cervino (Signal Tyndall) vedemmo come basarsi il gigante alla cui conquista si muovevano i piedi nostri e le nostre mani. Tal vista parve rianimarci. «Fra poco saremo lassù» dissi fra me e me, e più forte e baldo seguitai ad arrampicarmi.
Alle ore 1,30 minuti il Sinall Tyndall era sotto i nostri piedi. Ivi è un piccolo piano ingombro da neve e ghiaccio e, su una piccola altura, costrutta dalle guide di Tyndall nel 1862, è piantata la metà di una piccola scala con cinque piuoli intieri, e sotto ad essa, sono le reliquie di una bandiera, memorie tutte dell’ardito inglese che diede il nome al picco. Queste memorie, io le assotiglio ancora prendendo un brandellino della bandiera e un piuolo della scaletta. Al colle, mi accorsi che gli occhi m’avevano ingannato e che non erano ancor sì presto terminate le peripezie ed i pericoli del nostro viaggio! Dal Pic Tyndall, bisognava discendere giù giù fino ai piedi della piramide che, impassibile e in apparenza burbera, s’elevava a noi davanti mostrando, verso il suo mezzo, la minacciosa scala di corda abbandonata lungo un’enorme roccia a picco e facente singolare risalto pel candore de’ suoi fili sul nero fondo su cui poggiava... La vista di quella scala aerea in balìa del vento e posta lassù su quella roccia, sospesa fra cielo ed abisso, mi mise i brividi... e chi sa quanti contemplandola dal Pic Tyndall, provarono la stessa emozione e chi sa quanti ancora si spaventarono all’idea di dover passare di là, cosa che ha veramente del soprannaturale.
La discesa si chiama propriamente enjambée e per superarla, fu d’uopo calarci uno a uno, a forza di corde da un masso all’altro. E sotto a noi non solo, ma a destra ed a sinistra vertiginosi abissi ci aprivano il nero loro seno tutto irto di scogli a punte di pugnale. Fin qui giunse nel 1862 Tyndall e colle guide pronunciò le parole: «Impossibile l’andare avanti.» Ma egli stesso più tardi, nel 1868, riconobbe che ivi non si rizzavano punto le colonne d’Ercole del Cervino ed il 27 luglio — accompagnato dal nostro valentissimo Jean Joseph — superava l’Enjambée, toccava la vetta della piramide superba ed effettuava per primo la discesa a Zermatt, partendo da Breil.
La cresta di monte che fummo costretti a passare per discendere l’Enjambée ha per minimo di larghezza un metro e per massimo un metro e qualche centimetro. Sotto a questa cresta ed a destra di chi la discende, si aprono orribili precipizi tagliati a picco ed altissimi, ed a sinistra scende un abisso rapidissimo e coperto di neve. Pazienza poi si avesse potuto marciare orizzontalmente, ma la cresta è munita come di enormi denti di sega che convien salire e discendere colla massima delle precauzioni e senza che si possa vedere ove posano i piedi... Ma le guide vedevano per noi e da un sasso all’altro scendemmo fino al fondo in un’ora circa. E si cominciò a dar la scalata all’ultima parte della piramide. In poco tempo siamo al Col Félicité.
Il 13 settembre 1867, sarà per le guide di Valtournanche e pel Cervino un giorno memorabile quasi altrettanto come quello della prima salita del Whymper dalla parte di Zermatt, ma certo meno deplorabile e parimenti emulerà la fama del giorno (16 luglio 1865) in cui G. A. Carrel, abate Amato Gozzet, Bich G. B. ed Agostino Meynet3 piantavano il primo vessillo italiano sul (come lo chiama il Can. Carrel) Malakoff delle Alpi. In quel giorno una carovana composta delle guide fratelli Giuseppe, Gian Pietro e Vittorio Maqnignaz, Cesare Carrel, Giovan Battista Carrel, partita la veglia dal Giomein e passata la notte alla Capanna, tirò diritto alla punta del Cervino per istudiare una nuova strada più diritta e più breve.
Alla carovana si era aggiunta un’animosa donzella, figlia della guida Gian Giacomo Carrel e dell’età di 18 anni. — Partiti tutti — meno G. B. Carrel — alle 7 del mattino del 13, arrivarono felicemente ad una specie di colle ai piedi dell’ultimo punto culminante. L’intrepida Félicité aveva condiviso, con energia e forza straordinaria, le fatiche ed i pericoli degli altri ed è per ricordare un tal fatto che il signor Leighton Jordan, inglese, nomò quel colle Félicité — e qui tutti si fermarono, ma i due fratelli Giuseppe e Pietro Maquignaz a scopo di studiare un nuovo passo avanzarono, e seguendo la faccia meridionale prossima alla cresta, trovarono un passaggio ben più breve dell’antico che li condusse alla cima. E tosto, pieni di giubilo per la vittoria ottenuta, facevano sventolare attaccata ad un bastone la bandiera bianca e rossa e poi scendevano ad invitare i compagni a percorrere l’istessa via. Ma questi ridiscesero poiché si faceva tardi ed il vento infuriava. Di tale patriottica ascensione che ci insegnò una strada più breve, più sicura e più facile si deve conservare lunga memoria.
Dal Colle alla sommità, è duopo imprendere un serio esercizio ginnastico. Un funambolo che potesse offrire tale spettacolo al colto ed all’inclita farebbe certo furore e danari a sacchi. Si incomincia a percorrere una roccia quasi verticale e poi si raggiunge una corda fissa. E questa che conduce alla temuta scala composta da sette ad otto piuoli rattenuti da nodi fatti su una robusta corda. Un tale aiuto grandissimo alla salita del Cervino, noi lo dobbiamo ad un inglese, al signor Leighton-Jordan che fece preparare in Inghilterra il materiale della scala di cui commise la costruzione al bravissimo nostro Giuseppe Maquignaz. Un’altro inglese poi, il celebre Heathcote, pagò la spesa necessaria per il collocamento. Prima di mettere il piede sul primo gradino ci guardammo bene in faccia e poi d’uno sguardo abbracciamo e la roccia che ci stava sul capo ed il precipizio di almeno 2000 metri che ci si apriva ai piedi; indi ci ponemmo all’opera. L’uno dopo l’altro ci arrampicammo al primo gradino e lentamente — sorreggendoci a vicenda — superammo la scala del Cervino. Chi più di tutti trepidò fu, questa volta, il nostro Luc. Il primo piuolo della scala dista assai dalla piccola sporgenza di roccia su cui sostammo, quindi bisogna portarsi a forza di braccia e di gambe sul primo gradino. Pel povero Luc — colle sue gambe piccine, col suo corpo Pagina:Alpi e Appenini.djvu/35 Pagina:Alpi e Appenini.djvu/36 Pagina:Alpi e Appenini.djvu/37 Pagina:Alpi e Appenini.djvu/38
- ↑ L’ing. Comm. Giordano riuscì finalmente nella salita del Cervino, il 4 cettembre 1 868 e pubblicò una dottissima monografia del superbo colosso.
- ↑ Whymper salì il Cervino dal versante svizzero il 14 luglio 1865 — giorno della terribile catastrofe che arrecò la morte ai compagni Hudow, Hudson e Douglas ed alla guida Michele Croz.
- ↑ Sulla sommità non giunsero che il Carrel ed il Bich.