Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/70

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Anno 70

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Anno di Cristo LXX. Indizione XIII.
Clemente papa 4.
Vespasiano imperadore.


Consoli


Flavio Vespasiano Augusto per la seconda volta e Tito Flavio Cesare suo figliuolo.


Ancorchè fossero lontani da Roma Vespasiano Augusto e Tito suo figlio, dichiarato anch’esso Cesare dal senato, pure, per onorare i principii di questo nuovo imperadore, furono amendue promossi [p. 286]al consolato, in cui procederono per tutto giugno. In essa dignità ebbero per successori nelle calende di luglio Marco Licinio Muciano e Publio Valerio Asiatico: e poscia a questi nelle calende di novembre succederono Lucio Annio Basso e Caio Cecina Peto. Dacchè1 nell’anno precedente giunse a Roma Muciano, prese egli il governo, facendo quel che gli parea sotto nome di Vespasiano. V’interveniva anche Domiziano Cesare, figliolo dell’imperadore, per dar colore agli affari; ma quantunque egli prendesse molte risoluzioni per le istigazioni degli amici, pure l’autorità era principalmente presso Muciano, uomo di smoderata ambizione, che s’andava vantando d’aver donato l’imperio a Vespasiano, e di essere come fratello di lui, e facendo perciò alto e basso, come s’egli stesso fosse l’imperadore. Certo la sua prima cura fu quella di metter fine all’insolenza dei soldati, e di ridurre la quiete primiera nella città. Ma un’altra maggiormente n’ebbe per adunar danaro il più che si potea, per rinforzare il pubblico fallito erario, dicendo sempre che la pecunia era il nerbo del Principato; nè rincresceva di tirar sopra di sè l’odiosità delle esazioni, e di risparmiarla a Vespasiano, perchè ne profittava non poco anch’egli per sè stesso. Recavano a lui gelosia Antonio Primo, divenuto in gran credito, per aver egli abbassato Vitellio; ed Arrio Varo, perchè alzato alla potente carica di prefetto del pretorio. Quanto a Primo, il caricò di lodi nel senato, gli mostrò gran confidenza, gli fece sperare il governo della Spagna Taraconense, promosse agli onori varii di lui amici; ma nello stesso tempo mandò lungi da Roma le legioni che aveano dell’amore per lui, e fece restar lui in secco. Andò Primo a trovar Vespasiano, che il ricevè con molte carezze; ma Muciano, con rappresentarlo uomo pericoloso a ragion della sua arditezza, e con rilevar gli abbominevoli disordini da lui [p. 287 modifica]permessi in Cremona, Roma ed altrove, per guadagnarsi l’affetto de’ soldati, gli tagliò in fine le gambe2. Per conto di Varo, gli tolse la prefettura del pretorio, dandogli quella dell’annona, e sostituì nella prima carica Clemente Aretino, parente di Vespasiano.

Allorchè si compiè la tragedia di Vitellio, si trovava Vespasiano in Egitto, Tito suo figliuolo nella Giudea. Non sì tosto ebbe Vespasiano avviso di quanto era avvenuto, che spedì da Alessandria a Roma una copiosa flotta di navi cariche di grano, perchè le soprastava una terribil carestia, e l’Egitto da gran tempo era il granaio de’ Romani, affinchè quel gran popolo abbondasse di vettovaglia. Se vogliam credere a Filostrato3, Vespasiano fece di gran bene all’Egitto, con dare un saggio regolamento a quel paese, esausto in addietro per le soverchie imposte, Dione4 all’incontro attesta che gli Alessandrini, i quali si aspettavano delle notabili ricompense, per essere stati i primi ad acclamarlo imperadore, si trovarono delusi, perchè egli volle da loro buone somme di danaro, esigendo gli aggravii vecchi non pagati, senza esentarne nè meno i poveri, ed imponendone di nuovi. Questo era il solo difetto o vizio (se pure, come diremo, tal nome gli competeva) che s’avesse Vespasiano. Perciò il popolo di Alessandria, popolo per altro avvezzo a dir quasi sempre male de’ suoi padroni, se ne vendicò con delle satire, e con caricarlo d’ingiurie e di nomi molto oltraggiosi. Perciò vi mancò poco che Vespasiano, quantunque principe savio ed amorevole, non li gastigasse a dovere; e l’avrebbe fatto, se Tito suo figliuolo non si fosse interposto, per ottener loro la grazia, con rappresentare al padre, «che i saggi principi fanno quel che debbono, o credono ben fatto, e poi lasciano dire.» Nella state venne [p. 288]Vespasiano Augusto alla volta di Roma. Arrivato a Brindisi, vi trovò Muciano, ch’era ito ad incontrarlo colla primaria nobiltà di Roma. Trovò a Benevento il figliuolo Domiziano, che già aveva cominciato a dar pruove del perverso suo naturale, con varie azioni ridicole, o con prepotenze. Perchè egli nella lontananza del padre si era arrogata più autorità che non conveniva, e trascorreva anche in ogni sorta di vizii: Vespasiano in collera parea disposto a de’ gravi risentimenti contra di questo scapestrato figliuolo5. Il buon Tito suo fratello fu quegli che perorò per lui, e disarmò l’ira del padre. Non lasciò per questo Vespasiano di mortificar la superbia di esso Domiziano. Accolse poi gli altri tutti con gravità condita di cordiale amorevolezza, trattando non da imperadore, ma come persona privata con cadauno. Aveva egli molto prima inviato ordine a Roma, che si rifabbricasse il bruciato Campidoglio, dando tal incombenza a Lucio Vestino, cavaliere di molto credito. Nel dì 21 di giugno s’era dato principio a sì importante lavoro con tutto il superstizioso rituale e le cerimonie di Roma pagana, con essersi gittate ne’ fondamenti assai monete nuove e non usate, perchè così aveano decretato gli aruspici. Giunto da lì a non molto Vespasiano a Roma, per meglio autenticar la sua premura per quella fabbrica, e per alzar quivi un sontuoso tempio6, fu dei primi a portar sulle sue spalle alquanti di que’ rottami; e volle che gli altri nobili facessero altrettanto, affinchè dal suo e loro esempio si animasse maggiormente il popolo all’impresa. E perciocchè nell’incendio d’esso Campidoglio erano perite circa tremila tavole di rame, o sia di bronzo, cioè le più preziose antichità di Roma, perchè in simili tavole erano intagliate le leggi, i decreti, le leghe, le paci e gli altri atti più insigni del senato e del popolo romano fin dalla fondazione di Roma, [p. 289 modifica]comandò che se ne ricercassero diligentemente quelle copie che si potessero ritrovare, e di nuovo s’incidessero in altre tavole. Parimente ordinò Vespasiano che fosse restituita la buona fama a tutti i condannati al tempo di Nerone7, e sotto i tre susseguenti Augusti, e la libertà a tutti gli esiliati che si trovassero vivi; e che si cassassero tutte le accuse de’ tempi addietro. Cacciò eziandio di Roma tutti gli strologhi, gente perniciosa alle repubbliche, quantunque egli non disprezzasse quest’arte vana, e tenesse in sua corte uno di tali pescatori dell’avvenire, stimandolo il più perito degli altri. E si sa ch’egli, a requisizione di un certo Barbillo strologo, concedette al popol di Efeso di poter fare il combattimento appellato sacro: grazia da lui non accordata ad altre città.

Due guerre di somma importanza ebbero in questi tempi i Romani, l’una in Giudea, l’altra nella Gallia e Germania. Diffusamente è narrata la prima da Giuseppe Ebreo; l’una e l’altra da Cornelio Tacito. Io me ne sbrigherò in poche parole. Famosissima è la guerra. Avea quel popolo, ingrato e cieco, ricompensato il Messia, cioè il divino Salvator nostro, di tanti suoi benefizii, con dargli una morte ignominiosa; avea perseguitata a tutto potere fin qui la nata santissima religione di Cristo. Venne il tempo, in cui la giustizia di Dio volle lasciar piombare sopra quella sconoscente nazione il gastigo, già a lei predetto dallo stesso Signor nostro8. S’erano ribellati i Giudei all’imperio romano, e per una vittoria da loro riportata contro Cestio, parea che si ridessero delle forze romane9. Vespasiano, irritato forte contra di loro, spedì Tito suo figliuolo nella primavera dell’anno presente per domarli. Gerusalemme era in quei tempi una delle più belle; forti e ricche città dell’universo, perchè i Giudei, sparsi in [p. 290]gran copia per l’Asia e per l’Europa, faceano gara di divozione per mandar colà doni al tempio e limosine di danari. Per dar anche a conoscere Iddio più visibilmente che dalla sua mano veniva il gastigo, Tito andò ad assediarla in tempo che un’infinità di Giudei era, secondo il costume, concorsa colà per celebrarvi la Pasqua: nel qual tempo appunto aveano crocifisso l’umanato figliuol di Dio. Che sterminato numero di essi per giusto giudizio di Dio si trovasse ristretto in quella città, come in prigione, si può raccogliere dal medesimo loro storico Giuseppe, il quale asserisce che, durante quell’assedio, vi perì un milione e centomila Giudei, per fame e per la peste. Sanguinosi combattimenti seguirono; ostinato quel popolo mai non volle ascoltar proposizioni di pace e di arrendersi. Avvegnachè riuscisse al copiosissimo esercito romano di superar le due prime cinte di muro di quella città, la terza nondimeno, più forte dell’altre, fu sì bravamente difesa dagli assediati, che Tito perdè la speranza di espugnar la città colla forza, e si rivolse al partito di vincerla con la fame. Un prodigioso muro con fosse e bastioni di circonvallazione fatto intorno a Gerusalemme tolse ad ognuno la via a fuggirsene. Però una orribil fame, e la peste sua compagna, entrate in Gerusalemme, vi faceano un orrido macello di quegli abitanti; i quali anche discordi fra loro e sediziosi, piuttosto amavano di vedere e sofferire ogni più orribile scempio, che di suggettarsi di nuovo al popolo romano. Non si può leggere senza orrore la descrizione che fa Giuseppe di quella deplorabil miseria, a cui difficilmente si troverà una simile nelle storie. Immense furono le ruberie e le crudeltà di quei che più poteano in quella città; le centinaia di migliaia di cadaveri accrescevano il fetore e le miserie di coloro che restavano in vita; faceano i falsi profeti e i tiranni interni più male al popolo che gli stessi Romani. Ma nel dì 22 di luglio [p. 291 modifica]il tempio di Gerusalemme, fu preso, e con tutta la cura di Tito Cesare, perchè si conservasse quell’insigne e ricchissimo edificio, Dio permise che gli stessi Giudei vi attaccassero il fuoco, e si riducesse in un monte di sassi e di cenere. S’impadronì poi Tito della città alta e bassa nel mese di settembre colla strage e schiavitù di quanti si ritrovarono vivi. Non solo il tempio, ma anche la città, parte dalle mani de’ vincitori, parte dal fuoco furono disfatti ed atterrati; e quella gran città rimase per molto tempo un orrido testimonio dell’ira di Dio, siccome la dispersion di quel popolo senza tempio, senza sacerdoti, che noi tuttavia miriamo, fa fede, quello non essere più il popolo di Dio, siccome aveano predetto i profeti.

L’altra guerra, che i Romani sostennero in questi tempi, ebbe principio nella Batavia, oggidì Olanda, sotto Vitellio10. Claudio Civile, persona di sangue reale, di gran coraggio, avendo prese l’armi, stuzzicò quei popoli, e i circonvicini ancora, a rivoltarsi contra de’ Romani e di Vitellio, con apparenza nondimeno di sostenere il partito di Vespasiano. Diede sul Reno una rotta ad Aquilio generale de’ Romani, e al suo fiacco esercito. Questa vittoria fece voltar casacca a molte delle soldatesche, le quali ausiliarie militavano per l’imperio, e commosse a ribellione altri popoli della Germania e della Gallia; e però cresciute le forze a Claudio Civile, non riuscì a lui difficile il riportare altri vantaggi. Ma dopo la morte di Vitellio, i ministri di Vespasiano inviarono gran copia di gente per ismorzar quell’incendio. Annio Fallo e Petilio Cereale furono scelti per capitani di tale impresa. Andò innanzi il terrore di quest’armata, e cagion fu che la parte rivoltata della Gallia tornasse all’ubbidienza. Furono ripigliate alcune città colla forza, date più sconfitte a Civile e a’ suoi seguaci, tanto che tutti a poco a poco si ridussero a piegare il [p. 292]collo, e a ricorrere alla clemenza romana. Domiziano Cesare in questa occasione, bramoso di non essere da meno di Tito suo fratello, volle andare alla guerra; e Muciano, per paura che questo sfrenato ed impetuoso giovane non commettesse qualche bestialità in danno dell’armi romane, giudicò meglio, di accompagnarlo. Seppe poi con destrezza fermarlo a Lione sotto varii pretesti, tanto che si mise fine a quella guerra, senzachè egli vi avesse mano; e poscia; il ricondusse in Italia, acciocchè andasse ad incontrar il padre Augusto, il quale; siccome già dicemmo, venne a Roma nell’anno, presente, e fu ricevuto con gran magnificenza dappertutto.

  1. Tacit., Histor., lib. 4. Dio., lib. 66.
  2. Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 69.
  3. Philostratus, in Apollon. Tyan.
  4. Dio., lib. 66.
  5. Tacitus, Histor., lib. 4, cap. 52.
  6. Sueton., in Vespasiano, c. 8.
  7. Dio., in Excerptis Valesianis.
  8. Joseph., lib. 5 de bello Judaico.
  9. Tacitus, Histor., lib. 5.
  10. Tacitus, Histor., lib. 4.