Anticajja e pietrella
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ANTICAJJA E PIETRELLA.[1]
E in ste patacche muffe,[2] sor Pisano,
Ce sapete trovà ttante bbellezze?
Ho ppaura che in cammio de ricchezze,
Ve troverete co’ le mosche in mano.
Ce vò antro che a ffuria de carezze
Smicciàlle[3] da viscino e dda lontano:
Voi (ve lo disce un povero gabbiano)
Ciarimettéte l’unguento e le pezze.
Già vve ce sete mezz’indebbitito;
E ffinissce a lo striggne de li conti
Che pperderete poi nicch’e ppartito.[4]
Guardate quello a strada de la Crosce:
Sibbè lo porta er cavajjer Visconti,[5]
Nun pò ccaccianne né ccucca né nnosce.[6]
25 febbraio 1847.
Note
- ↑ [O anche Anticajje e pietrelle, son le parole con cui gli anticagliari, girando ne’ giorni festivi per le strade e le piazze frequentate dai lavoratori della campagna romana, li invitavano a vender loro gli oggetti di antichità che avessero trovato. Una volta queste parole erano un grido; poi, per la sempre crescente ingerenza del Governo negli scavi e nelle scoperte, furono mormorate a bassa voce; oggi non si sentono più affatto, o almeno rarissimamente.]
- ↑ [Monete
ammuffite.] - ↑ [Smicciarle: guardarle, osservarle.]
- ↑ [Lo stesso che “ci rimetterete unguento e pezze.„ Ma che cosa, propriamente, significhi nicche, nessuno sa dirlo.]
- ↑ [L’archeologo P. E. Visconti.]
- ↑ [Non può cacciarne, cavarne, nè cucca nè noce: non può cavarne nulla. Il vocabolo cucca, fuori che in questa frase, oggi è affatto estraneo al romanesco; ma a Città di Castello, e forse anche in altri luoghi, si dice per “pomo„ e più specialmente per “mela„ o “pera.„]