Antonio e Cleopatra (Alfieri, 1947)/Atto secondo

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Atto secondo

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Atto primo Atto terzo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Antonio.

L’orrido laberinto, in cui, fra l’arti

di femminili inganni, il cuor perdesti,
ecco rivedi, Antonio: ah! me felice,
se, in un col cuor, senno, virtude, e onore
non avessi smarrito... oh freddi marmi,
che fra voi m’accoglieste arbitro, e rege
un dí, del mondo intero, or che ramingo
e fuggitivo, e vinto a voi ne vengo,
* taciti, par, la mia viltá sdegnate
* perfin di rinfacciarmi! ove m’ascondo?...
* Terra, e tu reggi il vergognoso peso,
* e a te ignoto finor, d’un vil Romano?...
Irati Dei, non fu pietá la vostra,
che dal mar, da’ nemici, e da me stesso
salvo, mi trasse a queste inique sponde...
* Inique sí, ma pur bramate sponde,
nel rivedervi, il cor palpita in petto.
Perfido amor, se tanto m’odj e aborri,
perché, spietato, non mi desti morte
lá fra le turbe piú onorata, e degna
d’un gran coraggio? Amor, credesti forse
co’ piú vili tuoi servi aver confusa
l’alma d’Antonio?... Eh sí... non v’è il piú vile,...

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e invano omai ricerco in me l’eroe.

Incrudelisci, impera; il reo consiglio
che mi mosse a seguir l’amante infida,
fu dei furori tuoi bastante segno,
come del mio servir... ma chi s’appressa?
* In ogni volto un traditor ravviso
* in questa iniqua corte. Il sol Diomede
sará fedel fra tanti. È desso appunto.


SCENA SECONDA

Antonio, Diomede.

Anton. Diomede, il tuo signor!

Diom.   Antonio! e come
tu nell’Egitto, e tu fra queste mura?
Come approdasti al Nilo? e qual fu il Nume,
* che celò l’alta preda al reo nemico,
* ed oggi a noi inaspettato porta
* l’illustre difensor?
Anton.   E allor che giungo
* tradito, solo, inonorato, e inerme,
vuoi, che mi porti il cielo? ah! di’ piuttosto,
che fu la trama nel tartareo speco
* ordita, lá nel sen di Furie ultrici,
che, scemandomi il cor, m’hanno in quest’oggi
per supplizio crudel serbato a vita.
Il crederesti? Antonio ancor respira,
solo perché fu vile: il picciol legno,
a cui volli affidar, pur troppo incauto,
me stesso, e la mia fama, erasi appena
dall’audaci mie schiere allontanato,
per inseguir le traditrici vele,
quando assalito da maggior nemico,
solo a fuggir, non a pugnare intento,
e ad ambo inetto, ad onta mia soggiacque:

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un tribuno, che meco incontro ai Parti

un dí pugnò, indi rivolte ha l’armi
contro di me, era il nemico indegno
cui m’asservía la sorte; ei ben conobbe
* d’Antonio il volto, e non d’Antonio il braccio;
* alla debol difesa, e chi ’l ravvisa?
In sí meschino stato, allor non desto
che un’odiosa pietade, e un reo disprezzo
dell’inimico in sen: superbo, e altiero
di sí facile preda, intanto egli osa,
* e libertade, e vita a me donare...
O terribil rossor! o infamia atroce!
L’iniquo don, piú d’ogni morte amaro,
Antonio accetta: il vincitor rivolge
di giá le prore audaci, e invola seco
e l’onor tutto, e la virtude, e ’l lustro
di mie vittorie, e de’ trionfi miei.
Stupido allora il mio cammin prosieguo,
* ed alla estrema infamia alfin pervengo.
Vedi a qual prezzo io queste sponde afferro,
vedilo, e di’, se poi mi porta il cielo.
Diom. Tempra, o signor, troppa amarezza il gaudio,
che sí dolce provai nel rivederti.
La tua sorte compiango, e ’l duol divido.
Agli aspri colpi dell’avversa sorte
irrigidisci l’alma: amante invero,
ma pria d’amar Romano fosti...
Anton.   Amico,
di giá t’intendo, ed arrossir mi fai,
se la virtú m’insegni, in me negletta,
ma estinta no: sfido il destin, gli Dei,
di vedermi da lor piú a lungo oppresso:
né con vani lamenti, o bassi voti
implorerò di tanti mali il fine;
sia qual si vuol, senza tremar l’attendo.
* Ma dell’indegno, e pur sí caro oggetto

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dell’amor mio che fu? parla: Cleopatra

felicemente è giunta a questi lidi?
Oh quanto l’amo ancor! invan nel petto
reprimer vuo’ l’inique fiamme, e rie;
una debol virtú non basta a tanto.
Diom. Colei, che fu d’ogni tuo mal cagione,
or piú di te, prova il destino acerbo.
Sí, piú di te infelice, agli aspri affanni,
ed ai fieri rimorsi, e ai dubbj orrori
in preda ognor, vive li giorni in pianto.
In Egitto ciascun ti crede estinto.
Fuggitivo Canidio a noi ne venne
con poca gente, e sol da lui si seppe
e la tua fuga, e la sconfitta intiera.
Anton. Come Canidio quí? rotta è l’armata,
e fuggitiva? ancor questo mancava
alla somma dei mali: e che? stupisco
della fuga dei miei? allor che il primo
ne diedi il vile esempio? e onor richiedo
* nel cuor d’altrui, allor che il mio n’è privo?
Dovean morir per la mia causa iniqua
quell’alme, assai piú della mia Romane?
Ah! no: serbate a piú gran fin que’ giorni:
se di patria l’amor contro ai tiranni
l’armi vostre non volge a pro di Roma,
per estirparne un dí la schiatta indegna,
pugnando almen per piú glorioso duce,
morite allor, Romani invitti, in campo...
Poiché d’amante, e non d’Antonio il core
in me riserbo: amor mal soffre ancora
* ch’io non rivegga il desiato oggetto,
* per cui l’onor disprezzo: in quali stanze
il suo dolor nasconde? ove s’aggira?
Diom. Talor quí meco trattener si suole:
verrá fra brevi istanti. Eccola appunto.
Ant.            * O tirannico amor, come perverti

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* ogni ragione in noi? e un innocente

* perché lasci tremare in faccia al reo?
* O fallace beltade, e come ascondi
* sotto angelico ammanto un cor protervo?
* Come a danno di noi ti serpe in seno
* tanta viltá, tanta perfidia, e frode?


SCENA TERZA

Cleopatra, Antonio, Diomede.

Cleop. E fia pur ver?... Che miro!... Antonio, o l’ombra

di lui sei tu?... è sogno?
Anton.   Empia, son io.
Tu mi credevi estinto, e al falso grido
l’inumano desir ben s’accordava; —
* ma vivo ancor, né d’Acheronte il passo
* tragitterá l’alma d’Antonio inulta:
l’aspetto mio ti turba.
Cleop.   E vuoi, o Antonio,
ch’io con sereno, e simulato viso
gioja ti mostri, allor, che il duol m’uccide?
Irato, bieco, minaccioso, e truce
or ti riveggo; e ti lasciai fedele,
tenero amante...
Anton.   O donna ingrata, e rea;
non proferir sí dolci, e sacri nomi;
* furon lusinghe un dí, pria che tradito
* barbaramente tu m’avessi; ed ora
* involti ad arte infra mendaci labbri,
* son nuove offese: un traditor non sente
le divine d’amor fiamme nel petto,
e mal le finge.
Cleop.   Ah! se d’amore in vece,
un sí barbaro cuor serbassi in seno,
disprezzerei l’ingiusto tuo furore.

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Anton. E ingiusto il chiami? e tanto udir degg’io?

Deh! volgi i lumi, e il mio dolente stato,
cruda, se il puoi, a tuo piacer contempla;
contempla l’opra; e la mercé ne aspetta.
Non ti bastava adunque avermi servo?
* Vil mi volesti in faccia al mondo intero? —
Se non amor, ma crudel odio, in petto
serbavi a chi di troppo amor fu reo,
perché, barbara, almen non gliel dicesti?
Antonio allor, dell’ire tue ministro,
avrebbe ei stesso il rio furor saziato.
Ma poi vedermi a tale infamia, e tanta
da te serbato, e il tradimento insigne
dover soffrir... ah! quest’è troppo... indegna,
perfida, leggi in quell’istesso volto,
in cui prima scorgevi amore, e fede,
d’un’atroce vendetta il rio disegno.
Cleop. Ah mio signor, che dici? almen m’ascolta.
Ant.                    * Troppo, e piú che non merti io t’ascoltai:
* e allor che a questo vacillante core
* parlasti, lusinghiera, ingannatrice,
* in me tacque ogni affetto: e sordo in prima
* alla voce d’onor, tutto obbliando
* il patrio amor, la degna sposa, e il mondo,
* cui leggi avría donato, ozioso trassi
* fra gli infami tuoi laccj oscuri i giorni:
* e allor che scosso da sí reo letargo,
* dell’impero, e di Roma ancor riveggo
* nelle mie man la sorte, un’alma vile
* tenta rapirmi, con l’iniqua fuga,
* la non dubbia vittoria? ah! il vil son io.
* A che seguirti? Eran gli Egizj imbelli
* inutili alla pugna, e tu d’impaccio
* eri piú che d’aita, alla mia fama;...
* se disprezzarti un sol momento ardivo,
* il vincitor sarei: doppia la gloria

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* dal magnanimo sprezzo avrei ritratta:

* gli espugnati nemici, e il vinto amore,
* ti mostreriano in me, e a tuo dispetto,
* oggi il primo, e il maggior d’ogni Romano.
* La rea cagion, per cui l’ultimo appena
* son fra i mortali, in questo dí funesto,
* veggo innante di me, la soffro, ed anzi
* (o vitupero estremo) ancor l’adoro. —
* Sí, t’amo, e il sai: tel dice il mondo intero,
* e il mio rossor, e il mio perduto onore.
L’odiosa vita ancor dovría donarti;
* ma, se pur l’alma sopravvive a morte,
chi m’assicura, lá fra l’ombre amiche,
che la funesta imago a me non venga,
lacerandomi il sen, toglier la pace?
* E vita, e morte aborro. Ah! tu m’addita
per ultima pietá, qual sia pur quella,
che strappando dal cor l’iniquo affetto,
fin dall’ima radice ancor ne svelga
* l’insoffribile, infausta, aspra memoria.
Cleop. Barbaro, cerchi al tuo furor sollievo?
Amor non è quel che tu senti in petto,
io lo conosco; e ben quel ferro stringi:
ti scopro il sen, ove posasti amante;
tu nol ravvisi, o nol rammenti almeno;
tu l’intrepida mano alzi, e lo vibri...
Il sangue allor, che tu credesti infido,
gorgogliando trascorre; ne son lorde
di giá le vesti, il piè n’è tinto, ed ambe
fuman le mani; quanto fiato allora
resta a Cleopatra, a te volgendo i lumi
pieni d’amor, di morte, accoglie, e spreme
per dirti: addio, t’amai, ma per te moro...
* Ecco, che pasci allor lo sguardo irato
* nell’estinto nemico, e a poco a poco
* il tuo furor scemando, in te rivive

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* giá la costanza, e la virtú primiera.

Anton. Cleopatra, e chi mai ti diè tal possa
di deludermi ognor? amo perfino
* gl’inganni tuoi, e quei fallaci accenti
han dall’orecchio al cor la via trovata.
* Ti bramerei fedele, e pur spergiura
* tremo di ravvisarti: e qual sarai?
* Dubbj orror, cruda morte, il vel squarciate,
* il vel, che tuttavia m’ingombra il vero.
Cleop. Ah! caro Antonio, ah! per pietá mi credi;
* non si finge tal duolo, o mal si finge.
Placati, ascolta, indi ritorna all’ira,
condannami innocente, e rea m’assolvi;
fa’ quanto vuoi; piú mormorar non m’odi.
Anton. Vuoi, che t’ascolti, e poi, ch’io torni all’ira?
* Ah! ben lo sai, che se tu parli hai vinto.
* Se condannar ti vuo’, non deggio udirti...
E pure udir vorrei... o laccio indegno,
che l’alma mia mal grado anco incateni,
spezzarti adunque io non saprò giammai?
Cleop. Se all’apparenza sola oggi dai fede,
o all’empio stuol di lusinghieri amici,
ovvero ai tristo, e non pensato evento,
che segui il mio fuggir, la rea son io;
scampo non ho; sol tua pietade imploro.
Ma se dai luogo al ver, giustizia attendo,
e nulla temo. Apparecchiato all’armi,
* e alla vittoria, Antonio, io ti lasciai.
Nol niego, è ver; ma per salvarti, e il regno,
e la tua amante, osai scioglier le vele,
* e fu virtú la temeraria fuga.
Seppi in quel dí, ove a pugnar s’accinse
* Roma con Roma, che l’Egitto infido,
a noi ribelle, il vacillante giogo
scuoter voleva, e pien d’armata gente
giá s’apprestava a dare in sen ricetto

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a’ perfidi nemici, e seppi a un tratto,

che ne veniano molti a queste spiagge,
* forza aggiungendo a quanto l’arte ordiva.
Non fu timor quel, che rivolse il piede,
poiché n’andava de’ nemici a fronte,
* disprezzando per te perigli, e morte.
No, non tremai, né per il trono avíto,
né per la mia salvezza; io te fuggendo,
* per te solo fuggivo: altra non cerca
* in me cagion, ch’altra che te non vedi.
Utile ad Azio? ad Azio ratta io volo.
Giovarti spero al Nilo? ecco le prore
ho giá rivolte al Nilo... Ahimè, che quando,
stolta credetti al mio signor giovare,
inonorato, e vinto a morte il trassi!
Queta ogni gente, e i traditor fugati
seppi approdando. Or mi risparmia, o duce,
il dirti qual restassi, e i rei rimorsi,
* l’affanno, il duol, l’aspro tormento, e ’l pianto
in cui mi strussi, e struggerò tutt’ora:
a tai sensi ridir lingua non basta;
quel cor, ch’in sen racchiudi, or te li dica,
che del mio cuor conosce i moti appieno.
Se sopravissi, non fu amor di vita,
* che vita in te, e non altronde io traggo:
rivederti sperai, giurarti amore,
dirti, che fida io fui, indi morire.
Anton. Chi può saper se senti affetti, ovvero
se sol li fingi? ah! si dovriano in volto
* vedere impresse, e con non dubbj segni,
* degl’iniqui mortali, e l’alme, e l’opre.
Cleopatra, l’amor, che il cuor mi rode,
ogni senso mi vieta, e a te lo dona:
ma sian veri i tuoi detti, o sian mendaci;
è giunta l’ora, in cui si scioglie il nodo,
né dilungar si può; giudice il mondo

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sará fra noi, e fian palesi allora

le menti nostre. A questi lidi Augusto
di fortuna sull’ali omai s’appressa:
né perciò tremo: alla difesa armati,
oggi a sicura morte andranno in campo
li fuggitivi avanzi d’Azio, imbelli:
ed io con loro. Il vincitor vedrammi
piú grande almen della mia sorte avversa,
colá vinto morir, ma non fuggire.
Regina, addio.


SCENA QUARTA

Cleopatra, Diomede.

Cleop.   Ah! non mi lascia... udisti?

Diom. Sta fra virtude, e amor l’eroe dubbioso.
Cleop. È l’odio ognora il primo d’ogni affetto,
allor ch’è figlio di sprezzato amore.
Egli piú non mi crede? ei piú non mi ama.
Ei mi disprezza? io giá l’aborro; e giuro
che il piú acerbo nemico...
Diom.   Ove trascorri?
Chi infelice rendesti, insulti ancora?
Poiché l’Egitto ognor serbato ai lacci
deve servire all’un dei due rivali,
si elegga Antonio: è generoso, e grande;
debole, finto, e fier tiranno è Augusto.
Cleop. No, che all’Egitto son funesti entrambi...
Ed io frattanto, spettatrice oziosa
de’ miei scorni sarò, della rovina
di questo regno? Ah! no; non fia giammai;
* ove manca il poter, l’arte mi giovi.
Trionferò del vincitor, del vinto:
sí, tanto spero, e giá m’accingo all’opra;
tutto farò per ottenerne il fine.

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SCENA QUINTA

Diomede.

* Soggiacerá, sí, la virtude inerme,

* né mai s’armano invan perfidia, e frode.
* Oh sommi Dei! fu d’amor vostro un pegno
* crear li regi, oppur nell’ire estreme
* li feste voi per nostro rio flagello?