Arabella/Parte terza/4

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IV.


Un uomo tra due donne.


Olimpia sul primo momento, sorpresa e sbalordita dalla violenza del colpo, si rifugiò, senza capire, sotto il portico Quando rinvenne dal suo intontimento e sentì la gota ardere, cominciò a capire d’essere stata percossa da una donna gelosa, da quella stessa donna che l’aveva fissata così freddamente negli occhi.

Un vulcano di sdegno vomitò lava e fuoco nel suo cuore di bella donna superba e leggiera. Tale e tanta fu la furia che l’assalì, che, strozzata dall’emozione, non potè metter fuori una parola. Stretti i denti, da cui non usciva che un fischio sordo, montò a corsa le quattro lunghe scale, si attaccò furiosamente al cordone del campanello, riempì la casa del frastuono, entrò nella stanza dove ardevano ancora i doppieri, si tolse, o meglio si strappò di dosso la mantellina, la buttò sul letto, e ne uscì bellissima, terribile, nel suo vestito di teatro, d’un rosso metallico fosforescente, colle solide spalle ignude, colle braccia ignude fino ai guanti.

Lorenzo che l’aveva seguita ansante, entrò anche lui, ripetendo:

— Senti, senti... [p. 318 modifica]

— E tua moglie? — domandò, andandogli fin sotto gli occhi colle mani.

— Senti, dunque.

— È tua moglie? — ripetè con un tono, con uno sguardo che non ammettevano indugio.

— Sì, ma...

— Allora lo restituisco a te... — e cavandosi con uno strappo lungo e violento l’alto guanto di Svezia, collo sforzo irritato e raccapricciante di chi leva la pelle a una biscia viva, lasciò cadere la mano con un colpo forte sul viso largo del Bomba, che barcollò, si appoggiò all’uscio, e mormorò chinando la testa:

— Olimpia, che cosa fai?

— Aggiustatevi tra voi. Già sapevo che tu sei un imbecille.

— Scusa...

— Vammi fuori dei piedi... — e gli scaraventò addosso una boccetta d’acqua odorosa. Buon per lui che il colpo andò perduto.

Olimpia si strappò i braccialetti e la collana e pezzo per pezzo li buttò ai piedi di quel grosso imbecille, che stava appoggiato al muro, come un uomo sotto una gronda in attesa che si sfoghi un temporale.

Quando nel guardarsi nello specchio essa scorse sulla gota destra il segno e quasi il solco dell’oltraggio ricevuto, non avendo altro modo di vendicarsi, investì nuovamente Lorenzo, lo coprì di vituperi e di trivialità rimestate nel crudo linguaggio del palcoscenico e della bottega paterna. (Suo padre era uno zoccolaio di Pavia.)

— Tu mi darai una soddisfazione... — soggiunse, [p. 319 modifica]quando fu un poco sedato il terribile uragano delle sue passioni turbolente.

— Io ti chiedo scusa, Olimpia: io non potevo prevedere.

— Domani mi accompagnerai.

— Dove?

— A Nizza.

— Cioè...

— Sì, a Nizza. Poichè quella donna fa la gelosa, mi mette in puntiglio. Devi venire via con me. Voglio divertirmi. Ti vorrò bene ancora, forse, ma tu devi darmi questa soddisfazione.

— Ben, ne discorreremo. Adesso tu sei agitata...

— Termine ventiquattro ore: o tu mi accompagni a Nizza, o io dimostrerò a tutti che sei figlio di un ladro...

— Olimpia! — esclamò Lorenzo con qualche risentimento — tu non farai questa brutta parte.

— Termine ventiquattro ore, o con me o contro di me.

Olimpia chiamò la servetta e fece accompagnare alla porta il signor Lorenzo Maccagno, che se ne venne via come un cane scottato. Strada facendo, gli sonò nella testa più volte il dilemma: — O con me o contro di me... Di solito le furie di Olimpia duravano come le emicranie di una bella signora, e si poteva prevedere che passate le ventiquattro ore, non avesse a parlar più di Nizza e di soddisfazioni. Ma il caso non era dei soliti, e quando ella avesse proprio voluto giocare di puntiglio e pigliarsi una soddisfazione, non le mancavano i mezzi di tormentare lui, suo padre, sua moglie. C’era di mezzo un brutto intrigo, che in mano di furbi poteva diventare [p. 320 modifica]un pericoloso ricatto. Ma il guaio più grosso lo aspettava a casa. Chi avrebbe potuto immaginare che Arabella... Era proprio lei? chi le aveva dato questo coraggio? chi l’aveva così bene informata? dov’era venuta a nascondersi per uscire improvvisamente, come una donna qualunque, a menar le mani? Arabella? La madonnina infilzata, la monachella di Cremenno, che spia, sorprende, schiaffeggia una Olimpia, gli pareva un caso così poco naturale, così contrario all’indole di sua moglie che, strada facendo, andò a supporre in questa faccenda lo zampino di qualche interessato.

«Di chi? — si domandava, arrestandosi tratto tratto sulla soglia delle porte al coperto dell’acquazzone, che cominciava a battere il selciato. E proseguendo rasente i muri, seguitava ruminando: — Non c’è che lui che ha l’interesse di mettermi in cattiva vista d’Arabella: non c’è che lui che sa queste mie relazioni e che da un pezzo mira a romperla con me. È lui che istiga mia moglie, che mi mette in cattiva parte. Ora avrà gusto di vedermi nelle peste. È lui che vuole lo scandalo. Si parlerà di una separazione e ciò lo libererà dall’obbligo di mantenermi e di pagare i miei debiti. Non mi darà più un soldo, contentone di sostenere le parti di mia moglie contro di me. Io dovrei mostrarmi più forte in questa faccenda, più geloso de’ miei diritti... Non devo accettare una separazione, ma posso promettere a mia moglie dei nuovi patti. Voglio la mia indipendenza: il marito sono io, e in casa mia voglio aver il diritto di comandar io.»

In questi strani e rotti pensieri, tra cui non osava formolarsi interamente la languida e posticcia [p. 321 modifica]gelosia che lo istigava, Lorenzo, più stordito che umiliato, venne sotto la pioggia di via in viuzza fino al crocicchio che la via dei Ratti fa, o faceva, con quella degli Armorari. Ve lo aveva condotto in mezzo all’oscurità e all’incertezza della volontà un pensiero meno buio degli altri, che si confondeva quasi coll’istinto di una vecchia abitudine.

Quando fu sulla piazzetta, infilò una porticina, mezza nascosta da un assito di fabbrica, salì al lume d’uno zolfanello di cera una sconnessa scaluccia, dagli scalini rosicchiati dal tempo, picchiò col pomo del bastoncino in un uscio, sul primo pianerottolo, e mentre il buio lo avviluppava da ogni parte, stette e sentire se qualcuno rispondeva dal di dentro. Dopo un poco di tempo rispose un sordo brontolìo accompagnato da uno strascico di pianelle fruste. Di sotto alla fessura dell’uscio scaturì un filo di luce rossiccia, che si dilatò nel guazzo del sucido pianerottolo, mentre una voce che aveva dello spaventato, dimandava di dentro:

— Chi è?

— Sono io.

— Io, chi?

— Lorenzo.

— Che Lorenzo?

— Il Bomba.

— A quest’ora? — esclamò il Botola, aprendo e introducendo il figliuolo del suo miglior amico.

Il vecchio pignoratario s’era già messo in arnese di confidenza, con una zimarrona indosso, a fiorami gialli, filettata di nastro rosso e in testa un fazzoletto di nessun colore, raggirato come un turbante, sotto il quale la sua faccia piena d’infossature e [p. 322 modifica]sparsa d’una peluria dura di argento, luccicava come un vetro al riverbero della lucernetta ch’egli teneva in mano.

— A quest’ora, con questo tempo? tu devi averne fatta una delle tue. Hai giocato eh? hai giocato dalla zietta e hai perduto ancora, malandrino. Capisco dagli occhi che hai perduto. Quel tuo povero padre ha un bel risparmiare il quattrino e un bel mangiarsi il fegato, ma la testa non te l’aggiusta più. Io, se di una cosa mi contento, è d’essere solo al mondo come un vecchio cane, piuttosto che d’aver dei figliuoli che mi mangiano il sugo degli ossi.

— Quando avrai finito, Botola, raccomanda l’elemosina.

— Vieni, siediti. Sai che io ti ho sempre dato dei buoni pareri. Con tuo padre siamo vecchi amici. Abbiamo cominciato a far degli affari insieme sul mercato di Porta Ticinese, qualche anno prima del quarantotto. Tuo nonno, che chiamavano il Valsassina, aveva un botteghino di liquori laggiù, presso San Eustorgio, e mentre gli italianoni facevano alle barricate di fuori e di dentro, noi abbiamo quietamente introdotto qualche dozzina di brente di spirito senza pagare il dazio. C’era altro a pensare in quelle giornate che a curare chi frodava. Gli altri gridavano: Viva l’Italia! Viva Pio Nono! (con quel bel costrutto che s’è visto), e noi intanto si facevano i nostri bravi interessi. Quello fu il principio della fortuna di tuo padre, che, bisogna riconoscerlo, non ha mai fatto i corni alla fortuna come tu, animale, li fai alla tua legittima consorte. La sorte gli ha soffiato di dietro, e oggi il sor Maccagno può aspirare a esser cavaliere come ogni altro italianone, [p. 323 modifica]mentre io son rimasto un povero cane, costretto nella mia vecchiezza a far da pignoratario alla miseria altrui.

Il Botola indicò cogli occhi la roba, che riempiva lungo le quattro pareti la stanza, non molto ampia, col soffitto a travetti. Sopra alcune mensole confitte nel muro erano appesi dei rotoli, dei sacchi, degli involti gonfi, immersi in una misteriosa oscurità, dai quali emanava un lungo odore di muffa e di vecchiezza. Roba d’ogni foggia e senza foggia era ammucchiata negli angoli, in terra e sopra le seggiole, accatastata al muro, come se aspettasse d’esser portata via.

Sopra una gran tavola zoppa, d’uno stile quasi rococò, stavano dei registri a matricola con dei fasci polverosi di quitanze schiacciate da grosse chiavi, in mezzo a una raccolta di oggetti di apparenza rara e preziosa, come a dire orologi a pancia, cornicette sagomate, statuette di legno e di bronzo, tondini pieni di antiche monete e di minute rarità d’antiquario, reliquiari e perfino libri di preghiere, roba infine scossa e buttata dalla miseria e dall’onda della vita a depositarsi a poco a poco e a incrostare il banchetto d’un uomo paziente e preciso.

Per quanto l’apparenza del Botola fosse di pover’uomo (tutti lo chiamavano Botola, ma c’era chi credeva di sapere che il suo vero nome fosse Domenico Guerrini) tuttavia non gli mancava mai in casa un centinaio di lirette straccie per salvare un buon figliuolo di famiglia dal fare una cattiva figura, e più volte ne aveva prestate in segretezza anche al figliuolo del suo miglior amico, limitandosi a un meschino interesse per riguardo a una vecchia amicizia che risaliva fino al quarantotto.

[p. 324 modifica]Dopo il suo matrimonio, Lorenzo non si era lasciato più vedere dal vecchio pignoratario, e ciò spiega la meraviglia che il compare mostrò nel trovarselo davanti a quell’ora, con quel brutto tempo, con quell’aria malinconica.

— E dunque? è in casa dalla tua cara zietta che hai perdute queste duecento lire?

— Che duecento lire? chi ti ha detto che ho perduto?

— Me lo dicono i tuoi occhi di pollo morto. Son forse cinquecento? Io ti credevo canonizzato per santo, lo giuro. Arrivi in un cattivo momento, anima mia, se pensi che io possa aiutarti. Non è nè bello nè morale che un uomo tradisca il suo miglior amico, guastandogli il migliore de’ suoi figli.

— Se mi lasci parlare...

— Sì, parla, parla.

Lorenzo in quattro parole mise a parte il miglior amico di suo padre di ciò che era accaduto in Carrobbio e concluse:

— Olimpia è in collera e mi ha cacciato via, ma di lei non me ne importa. Penso invece che a casa non posso andare: le sfuriate non mi piacciono e tu sai che egli va presto fuori dei gangheri. Mi dispiace per Arabella... Se tu potessi aiutarmi...

— Come posso aiutarti?

— Cercando di placare Olimpia, che ha per te un po’ di deferenza. Ella sa che tu mi hai fatto del bene molte volte e che puoi far del bene anche a lei in una circostanza...

Lorenzo stette a osservare l’effetto che queste parole facevano sul vecchio pignoratario e gli parve di scorgere in fondo agli occhietti bigi e furbi un raggio di tenera compiacenza. Quindi soggiunse:

[p. 325 modifica]— Poi devi vedere subito mio padre e tenergli un serio discorso. Io so che in questa faccenda egli non rappresenta una bella parte, no: pare che ci trovi del gusto a compromettermi, a farmi fare delle cattive figure...

— Lo meriti...

— In lui parla un sentimento d’avarizia, e lo sai. Più volte mi ha ripetuta la minaccia di diseredarmi e di trattarmi male, non come un figliuolo, ma come si tratta un ingrato.

— L’ha detto anche a me.

— Tu vedi che rovina! Se Arabella domanda una separazione, io sono letteralmente sopra una strada.

— Ha detto anche a me che avrebbe lasciato il suo all’Ospedale, piuttosto che buttarlo in bocca ai creditori di suo figlio. Ma che interesse può avere?

Lorenzo non rispose e stette cogli occhi fissi, rivolti a un angolo buio della stanza, dove cercò nascondere una sua vergognosa idea. Agitò il bastoncino, picchiò sulla punta delle scarpe, e, traendo un grave sospiro, seguitò:

— Ora non posso dir tutto; ma tu devi vedere mio padre domani e parlargli chiaro.

— Cioè? che cosa gli devo dire?

— La sua volontà di ferro è la volontà di tutti, anche di Arabella, perchè in fondo ci domina tutti. Dimostrargli che è del comune interesse. Per parte mia prometto che farò di tutto, per essere...

— Meno indegno della sua eredità — suggerì il Botola sogghignando.

— Anche questo... — Lorenzo tagliò l’aria con tre o quattro movimenti di scherma. — Anche questo, [p. 326 modifica]Botola, e perchè no? Digli che non gli conviene pigliar di fronte Olimpia, usarle delle durezze, perchè Olimpia potrebbe diventare un nemico pericoloso. Essa pretende d’aver visto mio padre entrare a prendere delle carte nella stanza della morta Carolina... Conosci questa storia?

— La conosco, la conosco, Olimpia me ne aveva già parlato una volta. È una testimonianza che conta un bel nulla.

— Tuttavia i parenti ci fanno su un certo calcolo; Olimpia chiamata a giurare sull’onor suo...

— Che non ha.

— O sulla sua coscienza...

— Che il diavolo ha portato a conciare.

— Come vuoi; ma è una donna che fa del chiasso: e non vorrei che per smania di vendetta tirasse la questione su questo terreno.

— Io dirò tutto questo a tuo padre e sarò ben contento di mettere la pace in una onorata famiglia... — Il Botola strinse nelle rughe un sogghignetto ironico e picchiando sul ginocchio di Lorenzo riprese: — Quando si tratta di una certa eredità di quattrocentomila lire, trovo che si può fare anche qualche sacrificio. La miglior maniera per placare Olimpia sarebbe di anticiparle i quartali di una buona stagione.

— Tu potrai suggerire anche questo... Se tu mi aiuti, Botola non avrai a pentirti di me. Altrimenti io dovrò fare altri debiti e, non potendo pagarli, finirò coll’ammazzarmi.

— Non dire queste brutte cose... — sogghignò il vecchietto.

— Son così stufo... — disse soffiando il Bomba.

— L’ammazzarsi non paga nessuno. Voialtri giovinotti [p. 327 modifica]scapestrati credete di far dello spirito con questo vostro ammazzarsi, che lascia i creditori negli impicci. Il vero spirito...

— È quello che si froda al dazio... — fu pronto a ribattere con lieta soddisfazione Lorenzo, che tratto tratto aveva lampi d’ingegno.

L’acqua che gorgogliava nel canale richiamò per un istante l’attenzione dei due amici sul tempaccio, che infieriva di fuori.

— Dove intendi di andare con questo tempo? — chiese il padrone di casa.

— Sono uscito coll’intenzione di accompagnare Olimpia a teatro e l’abbiamo fatto noi il teatro. Ora è troppo tardi per chiedere ospitalità alla mia buona zia Sidonia, che sta fin laggiù nei Fiori. E poi dovrei dare delle spiegazioni che mi seccano.

— Ci va molta gente in casa di questi tuoi parenti?

— Da un pezzo non ci vado più.

— È vero che tuo zio Borrola vince... troppo?

— Che vuoi ch’io sappia? tu credi a tutte le voci.

— Ho sentito anche il marchesino di Brienne lamentarsi di questa faccenda. Un padrone di casa deve saper perdere qualche volta, se non altro, per cortesia. Del resto son cose difficili a giudicare e ognuno è padrone di far quello che vuole in casa sua. Così io intendo la libertà, la libertà vera, non quella che gridavano gli italianoni nel quarantotto.

— Senti la casa del diavolo! — esclamò Lorenzo a un colpo tremendo di tuono, che scosse la casa e i vetri.

— Se tu vuoi restare nella povera casa d’un vecchio amico, io posso offrirti questo divano e una coperta [p. 328 modifica]di lana, in cui potrai passare la notte, che è detta la madre dei consigli.

— Accetto volentieri se non ti disturbo.

— Non è la prima volta che offro la mia casa a dei bravi giovani. Quest’inverno ci ha dormito anche il marchesino e non si è trovato male. Già, intesi: io non posso offrire di più che una coperta.

— Nessuno pensa male delle tue intenzioni...

— Una buona coperta non manca mai...

Il vecchio pignoratario, strascinando le pianelle, andò col lampadino in mano verso un angolo della stanza, si abbassò, sciolse la bocca d’un sacco, riempiendo coll’ombra del suo corpo ricurvo il soffitto e le pareti, tirò dal sacco una coperta di lana, facendosi rosso per lo sforzo e tornò verso il giovine, trascinandosela dietro come un manto reale.

— Questa è roba della nobile e antichissima famiglia Rescalli. Qua dentro hanno dormito delle famose bellezze. Ci si sente ancora un delicato profumino di peccati mortali. Ora stento a difenderla dai topi.

Il vecchio pignoratario rallegrò il suo viso, angoloso e ruvido come un pezzo di tufo, con un sorriso di bonaria indulgenza. Buttò la coperta sul divano, e, accusando un gran sonno, accese un moccoletto di sego e se ne andò a dormire in un buco vicino augurando la buona notte. La casupola in cui abitava era di sua proprietà, acquistata a poco a poco con lenti risparmi. Varie scaluccie giravano in quel labirinto di muri cadenti, che una martellata del progresso ha di recente fatto scomparire come un castello di sudice carte da giuoco.

Intorno era una trama di vecchissime case, alcune [p. 329 modifica]delle quali con dei segni storici in fronte, l’una appoggiata all’altra per non cadere, con una rete di anditi e di corridoi e di cortiletti e di buchi da far venire in mente i meandri d’un formaggio lodigiano male assortito.

Lorenzo stese le gambe sul divano e accese un sigaro per abbandonarsi meglio al corso dei suoi pensieri.

Il mal tempo rumoreggiava e fiammeggiava sopra i tetti neri delle case vicine e sopra i tettucci logori d’un cortiletto chiuso come il fondo d’una torre, in cui tre o quattro canalacci di ferro versavano il diluvio universale con un frastuono d’inferno.

L’acqua, passando tra le fessure d’una finestra lunga e mal chiusa, cominciò a versare un rigagnolo che si distese a poco a poco in una tortuosa biscia nel mezzo della stanza. La lampadina a cui il padrone lesinava il petrolio, ben presto cominciò a crocchiare, a mandare dei guizzi, diffondendo ombre e puzzo, ombre in cui gli involti appesi ai ganci parevano i corpi degli strozzati di casa.

Il Botola sotto quella casa del diavolo aveva coraggio di dormire come un bambino. Il vecchio batteva il selciato dalla mattina alla sera, sempre sulla traccia d’un piccolo buon affare, e al primo stendere le gambe nel canile l’accoglieva il sonno del giusto. Il suo russare pareva il verso d’un cane malato: e due volte Lorenzo gli dette sulla voce. Il vecchio si voltò sul fianco e ripigliò la musica in nota di contrabasso.

A poco a poco Lorenzo potè mettere un ordine ne’ suoi pensieri. Il pensare non era il suo forte, ma questa volta capì che stava per giocare una carta [p. 330 modifica]seria. Si arrabbiava dentro di sè all’idea che Arabella avesse scoperto l’intrigo prima per il dispiacere che essa ne doveva sentire e poi per la serie di pasticci che ne dovevano derivare. Le donne non ammettono certe distinzioni, ma se egli avesse potuto persuaderla avrebbe parlato presso a poco così: — Senti, Ara bell’Ara, tu sei sempre mia moglie, io ti voglio bene; io anzi son superbo di te, e mi dispiace che tu possa essere gelosa di una cantante d’operette. Il cuore non c’entra. Tu sei stata così malata in questi mesi... — Ma capì che era tempo perso a seguitare su questa via, perchè nè egli avrebbe fatto un tal discorso a sua moglie nè Arabella avrebbe avuta la pazienza di ascoltarlo.

Come mai costei aveva trovato il coraggio di far quel che aveva fatto? Dunque non c’era in lei soltanto la devota cristiana e la madre della rassegnazione, ma anche un diavolo geloso che menava le mani maledettamente. Va a capire le donne! ti si cambiano nelle mani come le carte di prestigio. La donna di fiori ti diventa la donna di picche e viceversa. Il bello si è che, paragonando Olimpia, l’Olimpia dagli occhi pitturati e dalle carni floscie, a questa donnina nervosa, a questa bionda dagli occhi intelligenti che col suo bel tocco d’astrakan in testa si apposta dietro un uscio, sbuca fuori e batte senza parlare una sciocca rivale — confrontando le due donne come donne — il bello si è, che egli veniva a poco a poco a innamorarsi di sua moglie. E di nuovo tornava nel pensiero di prima: che Arabella non avrebbe mai saputo nulla, se non ci fosse stato di mezzo l’interessato a metter male, a seminare la zizzania tra marito e moglie, per raggiungere chi sa quali sue idee.

[p. 331 modifica]Quando Lorenzo si scosse una prima volta da queste confuse riflessioni che gli riempivano la testa di nebbie e di dolori, si accorse di essere al buio. L’acqua batteva rabbiosa contro il telaio della finestra e sgocciolava dai travicelli. Il Botola faceva di là il verso della morte. Cercò i zolfanelli e s’indispettì di non trovarseli più indosso. Nel mettersi a sedere sul divano, posò i piedi in terra e sentì che l’acqua del rigagnolo era già arrivata fino a lui come una lunga biscia e faceva un lago. Che notte birbona! Un senso non so se di odio, o di stizza, o di paura, o di dispetto, o di noia, o di tutt’insieme l’assalì, l’avvilì, gli fece provare il tedio immenso della vita. Capì come si possa in certi istanti mettere la mano sopra una pistola carica, puntarla alla testa e finirla con una vita stupida.

Finì coll’addormentarsi anche lui.