Atlantide/Canto II

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Canto II

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Canto I Canto III
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CANTO SECONDO


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Sorge la notte, e una stupenda barca
     Ferma ad un passo dalla riva attende,
     Ma come pria de’ due compagni è carca,
     4Silenziosamente il largo prende.
     Pari a luna recente essa s’inarca,
     E l’onde e l’aure come dardo fende,
     Aureo dardo però, ch’abbia per giunta
     8Rubinea cocca e adamantina punta.

Due candid’ale a questa e a quella parte,
     Di vele invece, aperte all’aura reca;
     Il timon, fatto con mirabil arte,
     12La governa da sè per l’aria cieca;
     Di nervei stami inteste son le sarte;
     La stiva sembra d’un cervel la teca;
     Dotti volumi ha di zavorra in loco,
     16E sul calcese un pennoncel di foco.

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D’ignudi fanciulletti un’inquieta
     Ciurma da poppa a prua corre, saltella,
     S’arrampica alle funi, alla secreta
     Stiva discende e s’urta e s’arrovella;
     Ma ad un cenno d’Edea, tacita e cheta
     Si ricompone, ed a quest’opra e a quella
     Con piè ratto s’addice e con man lieve,
     Ma torna al chiasso e al tafferuglio in breve.

Or sì or no tra bigie nubi erranti
     La luna affaccia la testina bionda,
     E or fa piacere a’ ladri ora agli amanti,
     Or a’ colli civetta ed ora all’onda:
     Forse ella sa, che per andare avanti
     Gabbar tutti bisogna, e ancor che tonda,
     A volpeggiare e trappolare apprese,
     Secondo il gusto dell’età borghese.

Se non che il cupo brontolio dei flutti,
     Benchè piana e lucente abbian la faccia,
     Avvisar può, che chi ninfeggia a tutti,
     Lo scontento di tutti alfin procaccia;
     E che la furberia dei farabutti
     Non troppo ha da contar su la bonaccia,
     Chè dare un tuffo da un istante all’altro
     Può nel cordon chi ti sembrò più scaltro.

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Turbasi infatti a poco a poco il mare
     E l’onde arruffa e l’irte creste imbianca,
     Sì che prima a cullarsi, indi a ballare
     44Comincia il navicel che pure arranca.
     Or qui l’ardua virtù convien chiamare.
     Disse al giovane Edea, che più ti manca,
     La virtù dico, onde non ha mai troppa
     48Provvista il saggio e del somier la groppa.

Chè se tu, come suoli, adito a lei,
     Non che ricetto, ora in cor tuo rifiuti.
     Mal potrai con pacato animo i rei
     52Lochi osservare a cui già siam venuti,
     Nè conoscere il mostro onde i più bei
     Sensi dell’uomo han tanti oltraggi avuti:
     Ed ahimè, troppo è omai che gli onesti hanno
     56Sul collo il giogo d’un sì vil tiranno!

Sappi, che questo oceano irrequieto
     Su cui la nostra prora agile move,
     Ancor che il vento non sia troppo líeto,
     60È detto il Mare dell’Ottantanove:
     Di molte isole e scogli esso è discreto
     Popolati di razze ibride e nove,
     Di cui lo stato, che da un secol dura,
     64Per basi ha l’avarizia e l’impostura.

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Uomo al mondo non è, se un bieco nume
     Troppo nol muti e la ragion gli offenda,
     Che qual falena innamorata al lume,
     Per propria legge all’Ideal non tenda;
     Ma se crasso abbia il cor, turpe il costume
     Ed un’avara passion l’accenda,
     Qui torpido s’accoscia, e non che pago,
     Beato vive come porco in brago.

Come se per declivi, alti canali
     La putida costringi onda marina,
     I gravi semi ed i corrotti sali
     Pone scorrendo e sempre più si affina,
     Le torbide così menti mortali
     Restan qui, come sozze acque in sentina;
     Ma l’altre fuor da queste isole impure
     Corrono all’Utopia libere e pure.

Ancor parlava Edea, che un isolotto
     A poche braccia si trovâr vicino,
     Il quale, benchè il Sol fosse ancor sotto,
     Ben si scorgea, chè aperto era il mattino:
     Sul ciglion della spiaggia era un ridotto,
     Un gran palagio in vetta, indi un giardino;
     Una muraglia con torrazzi armati
     Doppiamente il cingea da tutti i lati.

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Ma quel che più d’Esperio attrasse il guardo
     Un mostro fu, che lungo la deserta
     Rada si strascinava immane e tardo,
     Di color vario e di natura incerta:
     Non mai dai miti al secolo bugiardo
     Fu sì bizzarra e oscena bestia offerta,
     Chè Sfingi a petto a questa Idre e Chimere
     Parrebber belle, non che vive e vere.

Come d’enorme tartaruga tozzo
     E gobbo ha il corpo a scacchi varj pinto,
     Tutto di sangue e di materia sozzo
     E di zampe e di code intorno cinto;
     Qual tre serpenti in mostruoso accozzo,
     Triplice ha il collo in varj nodi avvinto,
     Su cui tre volti fan mostra arrogante,
     Un di prete, un di sgherro, un di pedante.
     
Su ciascheduna testa arida e smorta,
     Quasi ad emblema della sua natura,
     Un coperchio o cappello il mostro porta
     Di materia diverso e di figura;
     L’uno è un tricorno, ond’ogni punta è storta,
     L’altro un pajuol di nova architettura,
     Il terzo un’ammirabil papalina
     Fatta a Bisanzio di lana caprina.

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All’arrivar dell’inattesa prora
     Eresse il mostro diffidente il grifo,
     Spalancò le tre bocche, e mandò fuora
     Miasmi, ond’ebbe Esperio orrore e schifo;
     Anche colei che il guida e l’innamora
     Diessi a fiutar, non senza fare il nifo,
     Un’essenza ch’avea nella pezzuola
     Non so se di giaggiolo o di viola.

Gorgogliaron le aperte, avide gole,
     Che chiaviche parean sozze e profonde,
     E un intruglio di bava e di parole
     Ed altre defecâr materie immonde.
     Disse al giovane Edea: Se non si vuole
     Restar dell’altro a bada in su quest’onde,
     Subito mostra al minaccioso grugno
     La colma borsa, e se non basta, il pugno.

Poi che avara è così questa bestiaccia,
     Che nonostante la viltà natia,
     Non che cedere innanzi a una minaccia,
     S’avventerebbe addosso a chicchessia:
     Però cosa non è che dica e faccia
     Per la tua bella fronte o per la mia,
     Ma tutto in essa è calcolato effetto
     Delle due cose che testè t’ho detto.

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Non fece Esperio a tal precetto il sordo,
     Gittò la borsa, e ben l’intento ottenne,
     Che tosto il mostro, non pur fu d’accordo,
     Ma scesi appena, ad inchinar li venne.
     I fanciulletti che restâr sul bordo
     Montan come scojattoli alle antenne,
     E a cavalcion delle pennute vele
     Fan versacci alla bestia, e tiran mele.

Qualche bestemmia essa ghignando scocca,
     E schizza fìel; ma poi ch’è utilitaria,
     Si adatta al caso e quelle frutta abbocca,
     Ci prende gusto, e le ghermisce in aria;
     La borsa preziosa or guarda or tocca,
     E bofonchia: Sol questa è necessaria;
     Qui sta chiusa la forza e la ragione;
     E chi più me ne butta è mio padrone.

Fra la nausea ondeggiava e fra lo sdegno
     D’Esperio il cor, quando a dir prese Edea:
     Qui della Borghesia comincia il regno,
     Di cui dà il mostro una succinta idea;
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Qui tutto è regio quel ch’è dello Stato:
     Poste, scuole, telegrafi, ospedali,
     Ogni cosa è bollato e registrato
     Con le cifre e l’auguste armi regali:
     Queste rendono il popolo beato,
     Queste son panacea per tutti i mali,
     Queste fan per la publica salute
     La guardia al pube delle prostitute.

Qui l’accigliato Onor non fa nè ficca;
     All’austera Virtù qui ’l pan si nega;
     Qui l’ingegno ha valor fin che alla ricca
     Melma inchina la fronte e il dorso piega;
     Qui la Giustizia al passaggiero ammicca,
     L’adesca nella sua dietrobottega,
     Dove, fin su le cosce alzato il manto,
     Ogni bellezza sua gli offre all’incanto.

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Il più stimato e nobile mestiere
     È qui fare il mercante e l'usurajo;
     Il banchiere, il sensale, il rigattiere
     Sono i galli di questo immondezzajo;
     Vender sè stessi è il massimo piacere;
     Non trovar compratori il peggior guajo;
     Costume il furto, ufficio il tradimento,
     Una professione il fallimento.

D’ogni vol, d'ogni ardir, d’ogni divario
     Sì cordial nemico è questo gregge,
     Che, perchè tutto stia nell’ordinario,
     La potatura dell’ingegno è legge.
     Chi non bruca e non striscia è un visionario;
     Chi pensa ha il capo dietro alle corregge;
     Chi non si lascia cincischiar la pelle
     Senza guaire, a dir poco, è ribelle.

Con tal sodo sistema educativo,
     Fondato su l’amore e l’uguaglianza,
     Democratico, onesto, evolutivo,
     Le teste, è ver, non sono in abbondanza;
     Ma che importa ad un popol positivo
     Delle teste, con debita creanza?
     Alla bisogna sua basta una squadra
     Di gropponi tirati a fil di squadra.

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Vedi là quel ridotto, in su le arene
     Quasi a difesa del gran regno estrutto?
     Un enorme frantojo esso contiene
     Di nuova invenzion, di ferro tutto:
     Ogni lavorator qui tratto viene
     Tutto a depor di sue fatiche il frutto,
     E a depurarlo d'ogni umor maligno
     Vien cacciato ogni dì sotto all’ordigno.

Urge la mola immane, e in pochi istanti
     Al misero soggetto il succo spreme,
     Che dal torchio capace ai sottostanti
     Tini stridendo e cigolando geme:
     Scricchiolar senti l'ossa e i membri infranti,
     Stillar vedi col pianto il sangue insieme;
     Ma l'industria borghese è si squisita,
     Che nell’esausto sen lascia la vita.

Esce vivo il meschin dall’aspre strette,
     Ma tale che dir larva od ombra il puoi,
     E, sia stoltezza o sia viltà, commette
     Al torcolier di nuovo i giorni suoi:
     Questi che ben lo strinse e lo spremette,
     Fuor con una pedata il manda poi,
     E del sangue ancor caldo empiendo il gozzo,
     Gli gitta in cambio una minaccia e un tozzo.

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L’ira d’Esperio prorompea, quand’ecco
     Vien fuori del castello . . . . . . . . . . . . . .
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     . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Alla sua manca spalla un dal sembiante
     Incerto fra il soldato e l’uom di legge
     Muove tra maestoso ed arrogante,
     E lo guida, lo imbechera, lo regge,
     Gl'insegna a esser lepido e galante,
     A mostrarci benevolo al suo gregge;
     Insomma ei gli è maestro, arbitro, dio,
     Nè si chiama per nulla il Fottuttio.

Quale un annoso cervo alla foresta,
     Dove mai cacciatore orma non pose,
     Erge superbo la ramosa testa,
     Signoreggiando le campagne erbose,
     Tal fra la turba timida e modesta
     Spiega costui le sue frasi pompose,
     E tale egli ha la giovin fronte adorna
     Di magnifiche idee che pajon corna.

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Legato al collo ei porta lo specifico
     Mirabile per cui con senno pratico
     Congiunse in pateracchio alto e prolifico
     La Monarchia col Genio democratico:
     La libertà divenne un geroglifico,
     La legge diventò gioco enigmatico;
     Sicuro egli è d’aver con sommo ingegno
     Rimodernato, anzi rifatto il regno.

Altri sette con lui, quanti i peccati
     Mortali, han del poter l’inclito pondo,
     Destri tutti, scaltriti e accivettati
     A far lor agio ed a gabbare il mondo;
     Una falange di salariati
     Guarda loro dai bachi il mappamondo,
     Mentre con leste e graziose branche
     Essi ordiscon balzelli e asciugan Banche.

In una sala, o camera che sia,
     S’adunano con lor cinque o seicento,
     Che per la gran loquacità natia
     Sono detti gli apostoli del vento;
     Ma non si sa per quale arte o malia
     Cangian volto e natura ogni momento,
     E di persone oneste, abili e dotte
     Altri diventan lupi, altri marmotte.

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Non però tutti; chè talun sembianza
     Di turgid’otre o di vescica assume,
     E i miasmi che infettano la stanza
     Disperdere coi suoi buffi presume:
     Tal da’ campi del ciel, se marzo avanza,
     Soffiano i venti a dileguar le brume;
     Se non che di costui gli alti rumori
     Non fugan geli e non educan fiori.

Sopra quest’aula un bel salone è posto,
     Chiamato il Magazzin delle Parrucche,
     Dove agli eletti si tramutan tosto
     I vestiti in livree, le teste in zucche:
     Aggrapparsi al passato ad ogni costo
     È il fin delle costoro opere giucche;
     Ma a provar ch’ei son fieri ed han coscienza,
     Sbarrano gli occhi e fan la riverenza.

Benchè intarlati dall’età, costoro
     Veglian sempre dintorno al regio soglio,
     Ch’è confidato alla custodia loro
     Come a’ paperi un tempo il Campidoglio;
     E sì compresi ei son del lor decoro,
     Che s’un cala le brache e straccia un foglio,
     Mostrano con le lor vociacce roche,
     Che legittimi son figli dell’oche.

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Il ventoso schiamazzo e l’alto omaggio
     Odon le plebi estenuate e grame,
     E pazienti dicono: Coraggio,
     Verrà pur l’ora di colmar la fame;
     Il Signore è pietoso, il tempo è saggio,
     E appagherà le nostre umili brame;
     Santa è la pace ed il lavoro onesto;
     Soffriamo intanto: il dover nostro è questo!

O misero, ingannato, ignaro armento,
     Tradito sempre e ravveduto mai,
     Dopo tanto di mali esperimento,
     Chi sono i tuoi nemici ancor non sai?
     Ch’ogni loro promessa è un tradimento?
     Che in te stesso e in te solo a fidar hai?
     E in chi t’opprime e tuo campion si vanta
     Sol patto è l’ira e la vendetta è santa?

Questo pensier faceva Esperio, quando
     Notar gli fece Edea certo messere,
     Che tronfio, arcigno, sul caval d’Orlando,
     Sfidar parea, col brando in man, le sfere;
     Il conte Zero è questi, ed ha il comando
     Di non so quante bellicose schiere;
     Le patacche, le croci e le medaglie
     Son testimonj delle sue battaglie.

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Battaglie ho detto, e detto ho men del vero:
     Chè, se non più di due n’ha combattute,
     Aggiunger devo, ad esser veritiero,
     Che tutt’e due l'ha volentier perdute;
     Perchè la strategia del conte Zero
     Non mira alla vittoria e alla salute:
     Oibò, questi son rancidi ripeschi
     Da lasciare ai romantici tedeschi!

I tuoi guerrieri, Italia, i figli tuoi
     Denno a più alto segno alzar le mire:
     Gli eroi, figli d’eroi, padri d’eroi,
     Non devono saper se non morire;
     Sembri questa a chi vuol gloria da buoi,
     Essa t’è vantaggiosa oltre ogni dire,
     Se le disfatte tue son così gaje,
     Che padrona ti fan d’acque e di baje.

Togli all’opra dei campi e all’officine
     I tuoi giovani figli, Italia accorta,
     E di schioppi, di daghe e di spalline
     Nel guerriero fulgore il sen conforta;
     Fumin le icnusie steppe e le pontine
     Di miseria e di morbi, a te che importa?
     Sol dalle salutari arti di guerra
     Ricchezza, libertà, gloria ha la terra!

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Fugge, è ver, le tue case e i lidi cari
     Tanta parte de’ tuoi maledicendo,
     E per terre inclementi e vacui mari
     Erra le trafficate ossa spargendo:
     Meglio la sferza di padroni avari
     E le immani foreste e il mare orrendo,
     Che sotto il tuo bel ciel veder le grame
     Spose e i figliuoli smaniar di fame!

Che ti fa? Più gioconda e più secura
     La grifagna genía truffa e banchetta,
     E stretta ora coi despoti in congiura
     Ree leghe ordisce e leggi inique affretta;
     Di pietà mascherando or la paura,
     Con l'abborrito popolo civetta,
     E, ad ingannarlo e a soffocarlo intenta,
     Pace eterna promette ed armi ostenta.

Garibaldi, ove sei? Qui, dove or ora
     Lampeggiò la tua fronte e la tua spada,
     Dove l’anima tua palpita ancora,
     Viver si attenta una sì rea masnada?
     Viver, che dico? È forte ella, è signora,
     È regina di questa orba contrada;
     Di potere ubbriaca urla ed esulta,
     E all’ossa tue cancaneggiando insulta!

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Io fiamma esser vorrei! Tra le mie spire
     Soffocherei questa malnata schiatta,
     Che vivere non sa nè sa morire,
     Solo alle frodi e alle lascivie adatta;
     Vile negli odj, perfida nell’ire,
     Anche ne’ vizj neghittosa e sciatta,
     Insidiosa, torpida, maligna,
     Che alla virtù, che all’Ideal sogghigna.

Ed io vivo? E son qui? Ben la mia vita
     Rinvigorir ne’ tuoi ricordi io sento,
     Ma se a questa mi volgo orda abborrita,
     È peggior d’ogni morte il mio tormento.
     Trammi da questa gora all’infinita
     Luce, a cui sempre il mio pensiero è intento,
     Tu cittadino d’un aereo regno
     Me d’altra gente e d’altri tempi degno!