Brani di vita/Libro secondo/Gli ultimi anni di Giacomo Leopardi
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GLI ULTIMI ANNI DI GIACOMO LEOPARDI
Se con parole, con opere o con omissioni un disgraziato fece tanto da vedere la propria fama oltrepassare l’ombra del campanile natìo, non gli sarà più possibile nascondere qualche cosa alla curiosità dei concittadini. I Vapereau ed i De Gubernatis gli pubblicheranno la fede di nascita, il certificato di vaccinazione ed i connotati; e gli oziosi nei caffè discuteranno ad alta voce intorno al naso de’ suoi figli ed alle anche di sua moglie. Se poi la sventura lo percosse tanto crudelmente da farlo celebre ed ammirato anche fuor d’Italia, per lui non c’è più requie, nemmeno nella fossa. Si stamperà il numero de’ suoi capelli grigi, il numero dei bottoni della sua camicia e si cercherà avidamente di sapere se preferiva il lesso all’arrosto o le calze di lana a quelle di cotone. Ogni minimo atto della sua vita sarà commentato, ogni suo biglietto e magari le cambiali, ingrosseranno l’epistolario, e il cameriere, la cuoca, la lavandaia del grande uomo saranno chiamati a testimoniare davanti al tribunale della posterità. La professione di grand’uomo non è tutta di rose.
Tuttavia, siccome c’è anche qualche grande uomo di spirito, s’è finito col trovare un rimedio alla curiosità del pubblico ed alla indiscrezione dei biografi, ed il rimedio sta nello scrivere la propria autobiografia. Non sarà infatti sfuggito all’attenzione degli acuti lettori, che gli scrittori di autobiografie sono i meno perseguitati dai biografi, e questa ricetta, unita ad un po’ d’attenzione nello scrivere agli amici in previsione dell’epistolario, la regaliamo volentieri ai grandi uomini viventi che dormono male la notte pensando ai biografi futuri.
Ma se c’è stato al mondo un povero grande uomo crudelmente anatomizzato dalla feroce curiosità del pubblico e degli scrittori, certo è stato Giacomo Leopardi. Gli hanno applicato fino il microscopio spiando ogni battito del cuore, ogni moto del suo ingegno. Sappiamo il nome e la vita delle donne che gli piacquero, delle umili tessitrici che entrarono nella storia letteraria e nell’immortalità per aver dimorato in faccia al palazzo dei Leopardi. Sappiamo tutti i segreti della sua famiglia, tutti i pettegolezzi dei suoi concittadini, tutte le chiacchiere delle serve di casa. Gli hanno pubblicato i lavoretti di scolaro e le carte gettate nel cestino; gli han fatto il conto dei crediti e dei debiti, la diagnosi de’ suoi mali, la fotografia della sua deformità, ed ogni ora della sua dolorosa vita fu il tema di una dissertazione. Davvero che i più ambiziosi tra i letterati esiterebbero se qualcuno promettesse loro la gloria del Leopardi accompagnata dalle persecuzioni biografiche che crescono tutti i giorni invece di calare!
Badiamo bene che non si nega con questo l’utilità storica e critica delle rivelazioni intime e delle pubblicazioni curiose. Un’opera d’arte non esce dal cervello per generazione spontanea, non viene al mondo per una creazione ex nihilo, ma è il risultato complesso di una educazione, di un ambiente storico, di una miriade di sentimenti e di sensazioni che agirono sul cervello. Importa conoscere perchè un autore sentì e scrisse in quel dato modo e la critica non può fare a meno di analizzare minutamente le cause di quei sentimenti e di quelle opere. Il poeta per lo più è un malato d’anima e di corpo e, come la conchiglia, da una dolorosa puntura mette al mondo una perla. Ora è necessario che le vittime di quella strana malattia che si chiama il genio, siano intimamente scrutate dal critico, come è necessario che le vittime di certe strane malattie fisiche siano minutamente dissecate sulla tavola anatomica. E se un caso strano di genio ci fu mai, se un misterioso enigma comparve mai nel mondo dell’arte, quello fu Giacomo Leopardi. Così se si deve compiangerlo come martire delle nostre insaziabili curiosità, bisogna tuttavia riconoscere che queste curiosità nascono da un sentimento di ammirazione e sono di grande utilità alla critica.
Antonio Ranieri, l’amico intimo e sviscerato del Leopardi negli ultimi anni, non pareva però convinto di questa necessità delle rivelazioni private. Egli depositario di tanti segreti, tacque modestamente e stimò ciarlataneria grossolana tentare l’immortalità facendosi il dimostratore patentato delle debolezze e delle virtù di un uomo immortale. Tacque ed assistette sdegnoso a questa fiumana di libri, di opuscoli, di articoli, che contenevano ciascuno un brano del gran segreto. Si diceva che il Leopardi morendo lasciasse qualche cosa d’inedito e si incolpò il Ranieri di defraudarne la patria. Le più strane accuse furono susurrate contro una amicizia santa, e la pubblicazione dell’epistolario del Leopardi stesso dava credito alle mormorazioni, poichè il povero malato, scontento di tutto e di tutti, si lasciava andare a disconoscere persino tanta devota amicizia e chiamava odioso il soggiorno di Napoli. E il Ranieri tacque sempre, sicuro di sè e della sua coscienza, e finì anzi col non leggere nemmeno i libri dove si faceva l’autopsia del suo amico e della comune amicizia.
Ma la fiumana dei pettegolezzi ingrossò tanto, che al Ranieri toccò finalmente di parlare. La morte della sua adorata sorella Paolina, quella stessa che sostenne volontieri il santo martirio di esser infermiera del Leopardi, pare che non sia stata la cagione ultima del suo parlare. Infatti fin che vivono anche due testimoni di un grande avvenimento, possono costoro favellarne tra loro e sprezzare i profani; ma se ne sopravvive uno solo, che anzi vegga travisati i grandi fatti ai quali ebbe parte, è necessario, è fatale che egli parli alle turbe e rettifichi e racconti.
Così il Ranieri diede fuori il suo libro: Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, libro più che mai necessario alla completa biografia dell’infelice poeta.
Anche il Ranieri fu sforzato alla relazione minuta delle debolezze e delle aberrazioni di un malato; relazione tanto più utile in quanto riguarda il momento più inesplorato della vita del Leopardi, gli anni in cui l’ingegno suo era giunto a quella fredda esaltazione, a quella disperazione scettica da cui scaturirono i Pensieri e la Ginestra. Questo libro diventa così indispensabile a chi vuol parlare del Leopardi.
In quelle minuzie, in quegli aneddoti umili, c’è tuttavia quel che oggi si chiama interesse, e quando si giunge all’ultima pagina si trova che il libro è troppo breve. Qualche tensione lirica, qualche esagerazione di sentimentalismo romantico passano inosservate sotto al sentimento profondo dell’amicizia che si sacrifica, accanto alla forte e modesta carità di Paolina Ranieri che sembra aver ispirato tutto il libro. Infine il lettore giunge a dolersi che il Ranieri non sia stato il compagno di tutta la vita del Leopardi e che non ce l’abbia potuta narrar tutta, giorno per giorno, dalla nascita alla morte.
Il mistero delicatamente accennato nel settimo paragrafo, e che non è ormai più mistero per coloro che hanno sentito parlare del Leopardi da persone che lo conobbero, spiega molte cose oscure, molte debolezze, molti dolori del grand’uomo. Ma se il Ranieri qui ha parlato, ha poi taciuto affatto alla domanda, che, si può dire, l’Italia intera gli rivolge. Esistono presso di lui cose inedite del poeta? Il conte Carlo Leopardi sembrava credere che egli conservasse parte dei Pensieri ed altre cose. È vero?
E se è vero, che cosa più rattiene il Ranieri dal farli di pubblica ragione? Quando oramai nelle pubblicazioni fatte dal Cugnoni a Lipsia vediamo raccolte le minime e più giovanili cose che pure non hanno nociuto alla fama del Leopardi, certo non potrebbero nocer queste, concepite e scritte in età più matura. Ma, è vero?
Questa domanda rimase allora senza risposta.