Catullo e Lesbia/Annotazioni/21. - LX

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LX.


Pag. 210.          Num te leæna montibus Libyssinis.

Similmente Arianna abbandonala, a Tesèo:

Qual lionessa mai sotto a deserta
Rupe ti partorì? Qual mar crudele
Te fuor gittò dai procellosi flutti?
Qual sirti mai, qual mai vorace Scilla,
qual dai gorghi suoi vasta Cariddi
Te vomitò, se, per la dolce vita
Che devi a me, tal guiderdon mi rendi?

La fierezza delle lionesse è proverbiale. I leoni di Libia furono tenuti i più feroci. Onde Oppiano, nella stupida versione di Anton Maria Salvini, s’esprime nel modo che segue:

Nella Libia feconda, sitibonda
Terra, molta fremisce di gagliardi
Lioni turba, ma non già vellosa,
E poco raggio ne discovre sopra.
Nella faccia è terribile, e nel collo
Ed in tutte le membra un dolcemente
Negro fior porta, temprato di fosco:
La forza nelle membra è senza fine,
E tra’ regii Lioni, i Libiani
Sovrano hanno Lioni e regno e impero.

E pensare che il Salvini ebbe fama di profondo grecista e di buon traduttore; che il dizionario della Crusca cita le sue traduzioni; ch’egli tenne, come i Libiani Lioni, tra’ regii Lioni,

Sovrano su le scuole e regno e impero!

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C’è da venir la pelle d’oca! Ma per lasciar codesto papero infarinato, e tornare alla leonessa, non sarà inutile osservare, che il vocabolo leæna non è veramente latino, ma piuttosto greco. Plauto difatti chiama leo fæmina la lionessa, e lea, vuole che s’abbia a dire Isidoro, ad esempio di Ovidio:

At postquam virtus annis adolevit in apros
Audet, et irsutas comminus ire leas:

dove, non è da nascondere, che taluni leggono feras.


Pag. 210.          Aut Scylla latrans infima inguinum parte.

Di Scilla, che il poeta nostro chiama altrove vorace, favoleggiò prima Omero nell’Odissea, e poi largamente Ovidio nelle Metamorfosi. Furono due Scille, una figlia di Niso, re dei Magaresi; l’altra di Forco e della Ninfa Grateide; ma i poeti le confondono spesso. Cosi Virgilio:

Quid loquar aut Scyllam Nisi, quam fama secuta est
Candida succinctam latrantibus inguina monstris
Dalichias vexasse rates?

Scilla, Cariddi, il Caucaso, la libica lionessa, la tigre ircana, furono invocati, a sazietà, dai poeti, per esprimere un core crudele, inaccessibile a compassione, una mente dura e tetra, come dice Catullo (nel qual luogo è a notare l’epiteto tetra nel significato d’insensibile, selvatica, malvagia). Didone dice ad Enea:

Nec tibi diva parens, generis nec Dardanus autor,
Perfide; sed duris genuit te cautibus horrens
Caucasus; Hyrcanæque admorunt ubera tigres.

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E il Tasso, quasi traducendo, fa dire da Armida a Rinaldo:

Nè te Sofia produsse, e non sei nato
Dell’Azio sangue tu; te l’onda insana
Del mar produsse e il Caucaso gelato,
E le mamme allattar dì tigre ircana.

Virgilio aggiunge:

Nam quid dissimulo? aut quæ me ad maiora reservo?
Num fletu ingemuit nostro, num lumina flexit?
Num lacrymas victus dedit, aut miseratus amantem est?

E Tasso non smette dal tradurre:

Che dissimulo io più? l’uomo spietato
Pur un segno non diè di mente umana.
Forse cambiò color? forse al mio duolo
Bagnò almen gli occhi, o sparse un sospir solo?

Se Omero e Virgilio richiedessero le loro penne, quanti poeti, e dei più famosi, resterebbero spennacchiati come la gazza!