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Che cosa è l'amore?/V

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V - La busecca

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IV VI

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LA BUSECCA.

Vedi questa mia barba selvatica? Vedi queste mie scarpe e questi calzoni inconciliabili nemici di ogni elementare eleganza?

E d’altra parte vedi quella automobile laccata di verde con quella bella signora? con quei due bambini, compresi già della loro posizione privilegiata? Vedi quella governante che conserva tutta la dignità della razza britannica a dispetto della bianca cuffia servile? Vedi tutto questo?

— Sì, vedo, ma andiamo oltre.

Il mio amico pittore — artista molto delicato e fine, ma pur troppo, oramai fallito per la gloria — si trovava in quell’ora del pomeriggio nel suo stato abituale di saturazione lucida di assenzio.

— Niente affatto «andiamo oltre», rimaniamo qui. Contempla soprattutto quella signora. Ti pare bella, sì o no?

— Sì, bella, ma andiamo oltre.

— Niente «oltre», perchè tu devi sapere che io, se non fossi nato imbecille, potrei essere seduto su quella limousine: quei figliuoli, cioè no quei [p. 60 modifica]figliuoli, insomma alcuni figliuoli li avrei potuti fare io, cioè lei; lei ed io in marital nodo congiunti. Tu ne dubiti? tu credi ad una mia allucinazione verde? Guarda! Sono stato avvistato. La signora ha dato ordine al meccanico di allontanarsi.

La signora, infatti, volgendosi a caso verso di noi, ci aveva scorti: aveva fatto un impercettibile segno di spiacevole sorpresa e poco dopo la automobile si allontanava per il viale del Parco.

L’amico pittore continuò:

— Ci credi ora? Vuoi sapere la storia? Vuoi venire a casa mia a vedere i documenti? no? Bene, paga un assenzio e ti racconto la storia inverosimile. Essa è fatta di niente.

È il dramma psicologico di un cretino: e il cretino, lo intuisci subito, sono io. Credi tu che uno, perchè è artista, non possa essere profondamente cretino? Credi tu che uno, perchè è pittore e sente il colore, non possa essere un cieco della vita reale?

Io sono un cieco della vita. Ascolta.

Dieci anni addietro questa barba orribile non era nata: fra le mie scarpe ed i miei calzoni esisteva un’intesa di eleganza e la mia cravatta svolazzante era come una bandiera di giovinezza. Ero astemio. I miei capelli fiorivano sul mio capo dolcemente al tepore della mia anima sciocca, ma sensitiva. Io giungevo per la prima volta a Milano così sicuro di essere accolto nel Grande [p. 61 modifica]Hôtel della gloria, come il mio primo quadro era stato accolto all’Esposizione di Brera: le poche centinaia di lire che avevo in tasca, mi parevano un capitale a fondo illimitato, come si legge nelle Società di banca, «capitale a fondo illimitato». La prima impressione di Milano non fu piacevole. Era un mattino grigio di febbraio; e già quel verde crudo della campagna sotto il cielo basso che gemeva di pioggia, mi pareva un colore stonato, disteso da un cattivo pittore. Le case, le strade, tutto mi pareva precipitare verso una tinta unica: un grigio caffè e latte. Perchè uno è imbecille? Perchè ha i sensi che fanno vedere e sentire tutto falso.

Era il mattino. Avevo negli occhi il risveglio nel mattino della mia Venezia, in piazza San Marco. San Marco balena d’oro; è tutto animato come una trireme antica in voga piena. Poi abituato al fetore delle alghe e di altre cose stagnanti, l’assenza di quel profumo mi pareva rendere l’atmosfera priva di un elemento necessario alla respirazione. Vi sentivo invece un indistinto lezzo di coloniali, droghe, zafferano; come un odore dell’anima mercantile della città. Il dialetto, questo terribile dialetto lombardo con quelle desinenze cupe, in ocu, u, uh, uuh, mi scoteva i nervi, e mi pareva che tutti si fossero divertiti a rivolgermi delle parole scortesi. Oh, invece, il risveglio della mia Venezia! batter di zoccoletti, scandere di parole cadenzate, musicali, come su di [p. 62 modifica]un’antica spinetta. Provai un bisogno di fuggire ancora, di imbarcarmi sul primo treno in partenza. Ma poi pensai: E la conquista della gloria? e il mio quadro all’Esposizione?

Avevo una fame da poeta; e proprio in quell’ora un ristorante si apriva.

— Avete niente di pronto?

— La busecca.

— Ah sì, la busecca!

Mi stava in mente l’idea che la busecca fosse una sorta di manicaretto raro; un cibreo delicato, aristocratico, asciutto, finamente rosato, servito in un piattino, o tegamino di bel metallo.

Mi vidi portare davanti una tazza da brodo, soverchiata da un liquido giallastro purulento. Dentro vi nuotavano delle anse intestinali lardacee. Ne concepii un terrore macabro.

Guardai il cameriere: esso stava col naso in su, soddisfatto di sè, intento alla disinfezione mattutina del detto naso. Questa non è una specialità milanese, ma dei lavoratori della mensa in genere. Ma allora mi parve una specialità milanese, come la busecca. Uscii naturalmente senza toccare cibo.

*

*  *

Girai tutto il giorno per trovare una stanza d’affitto che non avesse l’apparenza atroce di essere io in balìa di un’affittacamere. Ebbi la fortuna di trovare una cameretta pulita, in una via [p. 63 modifica]relativamente silenziosa. La mia finestra dava in un cortile grigio, quadrato. Quattro pareti grige, ma pulite, si innalzavano per altri tre piani e sprofondavano per altri due. In fondo, alcune piante di bambù si allungavano nella nostalgia dell’azzurro. Io le guardai con un affetto fraterno.

*

*  *

Passavo lunghe ore alla finestra a dipingere, ed ero così assorto nel mio lavoro che non mi accorsi che di fronte a me, a venti metri di distanza, una figura di giovinetta passava, ripassava, era intenta a fissarmi. La guardai anch’io. Essa si era messa con la testolina appoggiata sulle palme della mano, e mi pareva che le sue labbra mormorassero: «Cattivo, non vi accorgete che da tanti giorni vi guardo?»

Certamente — pensai — è una cameriera, una sartina, una ballerina, io non so bene. Ma qualcosa di volgare deve essere per fissarmi con tanta insistenza.

Risposi tuttavia al saluto. Un giorno mi fece un cenno vivace, come a dire: «Abbiate la cortesia di aspettare».

Aspettai.

Scomparve un momento, riapparve: diede una occhiata rapida per osservare se dalle altre finestre poteva essere scorta, se vi era qualcuno; [p. 64 modifica]poi rapida, risoluta, graziosissima, sollevò un foglio grande come quelli da disegno. Se lo collocò davanti alla faccia.

C’era disegnato in nero un gran V geometrico.

Subito il V è buttato via; ed è sollevato un altro foglio con un I della stessa proporzione.

Seguì un breve cenno molto calmo, molto grazioso con la testa, come a chiedere: «Avete capito? Quello che vi ho fatto vedere è un VI. Ora attento.»

Ed allora sfilarono fulmineamente tre lettere, sostenute da un colossale ammirativo: esse formavano la parola Amo! Vi amo!

E rimase lì imperterrita. Io rimasi lì. La rivedo ancora fare un gesto così grazioso, così disperato di impazienza! Certo deve aver detto: Dio, come l’è bell, ma come l’è stupid. El capiss no!?

Allora io, cretino, meditai come avrei dovuto fare per comunicarle la risposta, che era questa: «Io sono straordinariamente stupìto».

Mi posai la mano sulla fronte, e la allontanai con un gesto melodrammatico. «Ah! Ah, io sono straordinariamente stupìto».

Lei, la cara fanciulla, interpretò quel gesto come un’espressione romantica, come avessi detto: «Il vostro amore mi dà alla testa, e mi toglie la facoltà, per ora, di rispondervi.»

Parve soddisfatta; prese dalle sue labbra un bacio e me lo consegnò deliziosamente.

Scomparve. [p. 65 modifica]

*

*  *

Noi abbiamo tenuto corrispondenza epistolare per quasi un mese. Le sue lettere erano scritte tutte con alti caratteri in punta; esatte, regolari, e contenevano un loro profumino delicato, e la loro immancabile enorme viola fresca del pensiero, fermata con uno spillo e un nastrino all’angolo superiore sinistro. La sua ortografia era precisa, la sua prosa non priva di fioriture letterarie, nate non da lei, ma appiccicatele dalla maestra di letteratura. Le espressioni sue, sue di lei, invece balzavano fuori da quelle convenzionali, misurate, calme, positive, concludenti: tutto il contrario di quello che si poteva supporre dopo quell’assalto di torpedine: Vi amo!

La prima lettera fu naturalmente la sua, ed il ragionamento, così della prima come delle seguenti, seguiva questa linea di logica: «Voi — parliamoci chiaro — non mi amate se non forse un pochino per vanità. Io vi amo invece davvero, e ve l’ho dichiarato. Per quante prove io vi portassi che sono una signorina per bene, voi non ci credereste: non negate. È una disgrazia; ma mi crederete in seguito. Siete disposto a sposarmi? I miei genitori sono molto severi, ma mi vogliono anche molto bene. Io ho ventidue anni, ma non intendo di fare niente senza l’approvazione dei miei genitori. Potete dare, come non dubito dal caro volto che avete e che amo tanto, buone [p. 66 modifica]referenze di voi? Se sì, ditelo presto e l’affare è fatto».

Era stata allieva di qualche scuola di ragioneria, la signorina, per trattare l’amore così alla spiccia?

La signorina era carina: e ti confesso che se l’avessi veduta su di un balcone di marmo a Venezia, intenta a interpretare l’azzurro interminabile della laguna, io mi sarei chiamato felice di una così rara ventura. Invece io la vidi un giorno, quasi da vicino, in un grande negozio: slanciata, bella, elegante in un grembiuletto di seta, tutto quello che vuoi; ma ritta accanto ad un libro mastro. Era il negozio paterno. Esso era immenso, pieno di commessi, e ne esalava quell’odore di droghe, caucciù, medicinali che mi pareva l’odore di Milano. Il sorriso, che lei mi lanciò dietro il libro mastro, si impregnò di drogheria, di ragioneria. Ma che importa la ricchezza! Che importa la miseria! — dissi fra me — Non è la Miseria la divina introduttrice nel vestibolo della Gloria? Almeno così avevo imparato nei romanzi e anche nei libri di scuola.

Allora avrei dovuto lasciarla: una bella lettera d’addio, e tutto finito. Ma io, uomo inconcludente, oltrechè cretino, non sapevo decidermi. Non per amore, sai, ma così, per quella impotenza morale, che ho alfine riconosciuta come mia proprietà inalienabile: e un po’ per egoismo, perchè mi confortava il sapere che, nella città [p. 67 modifica]tumultuosa e grande, esisteva un piccolo cuore che palpitava per me; fosse pure un cuore di ragioniera.

Un giorno mi scrisse e diceva così: «Sentite, per lettera vedo che non c’intendiamo. Proviamo ad intenderci a voce: mi vedrete così anche da vicino. Alle ore sette trovatevi nella chiesa di via X***. Entrate in chiesa: a quell’ora la chiesa è deserta; potremo parlare.»

*

*  *

Un piccolo raggio di sole si riverberava sulle alte cime delle piante allora rifiorenti nei giardini pubblici per cui lei doveva passare per recarsi in quella chiesa. La vidi arrivare in fatti. Era in compagnia di una sua governante o domestica che fosse. Vestita di scuro con una veletta scura sul volto: dietro turgeva la massa bionda dei capelli. Mi vide. La sua testolina si inchinò insensibilmente, ed un piccolo cenno della mano mi fece capire: «Seguitemi a distanza». Le sue scarpette facevano scricchiolare i sassolini dei viali, deserti a quell’ora.

Allora vidi bene i suoi piedi. Io, l’essere più sprovvisto di fondamento, avevo delle idee estetiche assolute, sui piedi delle donne. Io pensavo ai piedi di lei e ad un’altra cosa che mi si era fissa in mente.

«Piedi troppo lunghi sospirai — ; [p. 68 modifica]irremissibilmente piedi troppo lunghi. È orribile: queste donne lombarde hanno tutte i piedi lunghi.»

Ella scomparve dietro la portiera della chiesa.

Io entrai.

La chiesa era deserta, infatti. Lei mi affrontò. Due bianche belle mani sollevarono la veletta.

— Voi non mi avete veduta mai da vicino — disse. — Voi siete artista e questo pensiero mi turba un po’. Sono quello che sono, così: guardatemi. Vi piaccio?

Dio, che caro volto, che tremore nelle pupille, che candore nei denti! Ma io pensavo a quei piedi, e poi aveva quell’altra idea fissa in testa. Vedi, quando io ricordo tutte queste cose, io corro alla buvette a bere assenzio e domando:

«Un assenzio per questo cretino.»

— E la voce? — io domandai.

— Ma deliziosa, amico mio: tutto delizioso.

— E cosa ti disse?

— Cosa vuoi che possa ricordarmi io che vivevo dentro un’idea fissa? Mi fece, ecco, capire che bisognava che mi decidessi: o prendere o lasciare. Quella insistenza mi turbava. Io mi ricordo che sentivo il suo piccolo tacco battere impazientemente come tu faresti se fossi un maestro di musica e udissi delle stonature.

— Ma di positivo che cosa hai detto tu?

Di positivo? ho domandato: Signorina, lei mangia la busecca?

Mi guardò trasognata. [p. 69 modifica]

Io ripetei imperterrito la domanda.

— Ma certamente — rispose. — Il sabato è d’uso, in casa, fare la busecca: a papà piace tanto. Perchè?

Vedi, amico, allora l’idea di sposare una donna che mangiava la busecca, mi incuteva un senso di orrore!

*

*  *

Poi non ricordo più nulla.

La rividi attraversare ancora i giardini. Aveva la testa abbassata, come se una ferita la avesse offesa nel petto.

Le sue finestre non si aprirono più.

La grande Arte non mi aprì nemmeno l’anticamera del suo palazzo; e l’Arte del tanto per cento mi scacciò a calci nel sedere.

Ma nelle trattorie di infimo ordine sono felice oggi quando mi annunciano che c’è una busecca con cui riscaldarmi e sfamarmi con poco prezzo. Allora penso: Cretino, che ti era capitata una donna col cervello sano e forte, col cervello di ragioniera, che avrebbe pensato anche per te... E tu...! Via, via, amico, pagami l’assenzio.