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Commedia (Buti)/Biografia di Francesco da Buti

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Biografia di Francesco da Buti

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Introduzione Inferno
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BIOGRAFIA


DI


FRANCESCO DI BARTOLO


DA BUTI


...... noi siam vermi
Nati a formar l’angelica farfalla.

Purg. 10.


Quando un uomo, pieno di rettitudine la mente e il petto, con la dolcezza della poesia tenta riscuotere la sua nazione, acciocchè si metta nel sentiero della virtù, ei risveglia di sè tale un ardente desiderio che ciascuno vorria pure udirne la voce, ognuno comprenderne i detti. Ma perchè non tutti sono possibili a raggiugnere l’altezza del dettato, ben si porgono meritevoli della civiltà coloro, che si adoperano di agevolarne la via, contribuendo così ad illustrare l’altrui intelligenza ed informarne il cuore. Questo della istruzione debb’essere il primiero scopo; ed ogni volta che a codesto efficacemente non si mira, anzi che le lodi ne riporta biasimi: perocchè non si avanzando, non megliora; ma ristando, intristisce. La cultura dell’intelletto come ne’ singulari uomini, così nell’universale consorzio vuol essere il primo pensiero; e quindi sapientemente [p. xxx modifica]si diportano que’ governi, che per ogni maniera una verace istruzione proteggono e promuovono, di perenne e reale felicità precipua ed unica sorgente. Nè codesta verità soltanto nei secoli più vicini a noi si è conosciuta; che anzi fu dessa, che ebbe diradate le tenebre dell’età barbare, penetrando nell’animo dei reggitori di municipio, i quali si diedero con ogni premura ad aprire Università e Studi, e porvi catedre, per fare al popolo abilità di addottrinarvisi. E niuno si avvisi che quelle Università e quegli Studi si potessero tenere al presente per norme sufficienti e per imitabili esempi: chè propio è di tutte le umane istituzioni l’approssimarsi via via al perfezionamento, aiutate dalle esperienza, alla quale richiedesi un certo volgere di stagioni. Seco però aveano questo d’eccellente; che una delle principali basi dell’insegnamento era la patria letteratura, la quale i nostri antichi saviamente giudicavano influirebbe al diritto pensare. E in fatti la parola, che è un sensibile, non è ella il vero mediatore tra il pensiero subiettivo e il pensiero obiettivo? Non era per anco trascorso un mezzo secolo che il Poema di Dante Allighieri andava divulgato per tutta Italia, e i dotti mostravano quanto frutto ne sarebbe venuto, se ad ognuno resa ne fosse piana ed agevole la lettura; ed ecco Firenze affidarne la esposizione a Giovanni Boccaccio, Pisa a Francesco da Buti1, e Bologna a Benvenuto Rambaldi. Oh anime bennate, che a sì nobile divisamento veniste, abbiatevi da’ posteri gratitudine e benedizioni: conciossiachè in tal modo a que’ valenti maestri abbiate fornito l’occasione di tramandarci de’ commenti, che si reputeranno sempre come eletti fiori nel giardino delle nostre lettere! Che se di codesti tre letterati contemporanei Giovanni Boccaccio per molti pregi avanza gli altri, noi però in questo soggetto antimettiamo a tutti Francesco da Buti e sì perchè ebbe commentato per intero la Divina Comedia, là dove il Boccaccio non oltrepassò il c. xvii dell’Inferno, e sì perchè la ebbe esposta in italiano, mentre il Rambaldi chiosò in lingua latina. Tali sono i meriti che troveranno sempre grazia al Commento del nostro Butese, di cui anderemo qui brevemente discorrendo la vita politica e letteraria.

[p. xxxi modifica]Tra i castelli, che fino da’ tempi della sua republica tenne in giurisdizione la città di Pisa, non diverrà mai oscuro quello di Buti, tra per la valle in mezzo di cui siede, popolata di maravigliosi oliveti, e per gli uomini che ne produsse illustri in armi, in lettere e in arti2. Insino dal 1115 un Guido da Buti, passato con lo stuolo pisano al conquisto dell’isola Maiorica, vi ebbe fatto mirabili pruove di valore; e questo Guido dello stesso lignaggio del nostro Francesco forse colla fama delle sue gesta ebbegli riscaldato l’affetto, acciocchè non ne riuscisse degenere nipote; ma anzi, come a specchio domestico ragguardando, l’altrui e la propria gloria rifiorisse. Gli studi, i quali Francesco ebbe con assai profitto compiuti nella Università pisana, gli valsero tanta estimazione che tosto venne ascritto nell’albo de’ cittadini pisani, e quel governo cominciò lui giovine a riconoscere come adatto ad ogni civile negozio e sì per le doti dell’ingegno e sì per quelle dell’animo. E già non ancora valicati i ventiquattro anni, venne eletto Senatore del Consiglio della Credenza, o consiglio segreto di quella republica, dove poscia sedette nella magistratura suprema degli Anziani, de’ quali esercitò eziandio l’officio di cancelliere ed altresì di notaio: e dall’archivio delle Riformagioni apparisce lui essersi trovato nel novero de’ Sapienti, deputati alle più importanti deliberazioni della publica bisogna. Dal che si può dirittamente inferire quanta fosse l’acuità della sua mente; come i riguardi verso di lui usati in qualunque vicissitudine dimostrano chiaro quale fosse l’opinione della sua probità. E per fermo anche sotto la tirannia degli Appiani, anco in sul ruinare della pisana republica, proposte le riforme d’offiziali e ministri, videsi decretato che Francesco da Buti uscisse esente da qualunque incarico reale e personale, nè fosse giammai rimosso dalla sua carica di Dottore, nè menomatogli lo stipendio. E nel vero, come avrebbono potuto diversamente condursi i cittadini pisani, senza offendere nella taccia di sconoscenti ed ingrati? Se con altri governi d’Italia insorgeva una qualche differenza, a chi mai se ne commetteva la composizione, se non a Francesco il quale con tanto senno venivane a capo da chiamarsene contente ambe le parti, e più tenacemente restringersi le alleanze? Allorchè da [p. xxxii modifica]Firenze, da Lucca, da Bologna, da Milano furono mandati ambasciadori a Pisa per trattamento della pace, infra i sei cittadini scelti a dar loro udienza non mancò maestro Francesco da Buti. Nel consiglio generale di Pisa, dove si elesse per sindaco della città messer Benedetto da Piombino, soggiornante in Venezia, fu preso per partito d’inviare colà il nostro Francesco, e vi procurerebbe di accordare insieme le città di Toscana e Lombardia. Nell’ottobre del 1398 morto in Pisa Vanni Appiani, uomo di molto valore, e volendosi darne la balia a un signore che potesse guidarla a bene e cessare le maladette parti, e grande essendo anche in Toscana la riputazione di Gian Galeazzo duca di Milano, furono spediti de’ legati a Pavia ad offerirgliela, e tra il novero di questi comprendevasi anche il butese Francesco. Il quale se noi ammiriamo tutto intento al bene della patria, come magistrato, lo scorgeremo non meno zelante come dottore nella Università, dove collocato lo avea quello stesso buon concetto, cui di sè avea già messo ne’ suoi concittadini. La catedra, che i moderni appellano di Letteratura, i nostri maggiori con voce greca dissero di Grammatica, e codesta non era, come oggi ordinariamente, occupata da taluni pedanti, i quali ignorando ogni principio ideologico, tutta ripongono la valentia loro in un affastellamento e congerie di precetti, di cui non intendendo neppur essi la cagione, ad altri non possono communicare. E così innanzi di rischiarare e addirizzare le menti dei novellini, le ottundono ed imbozzacchiscono, guastando per tale foggia le tenerelle piante, le quali mai non perverranno a maturità, perchè aduggiate in sul primo del loro svolgersi, ed invece rimarranno sterpi offensivi, perchè inetti ad adempiere il loro dovere. Di qui la mala riuscita di tanti giovani, i quali odiando lo studio, aborriscono da ogni sorta d’occupazione, e abbandonatisi all’ozio, rompono ad ogni fatta di vizi. La Grammatica presso gli antichi si aggirava intorno alla natura e proprietà delle parole, circa il collocamento loro e la dependenza e il loro accordo; ed uomini bene esperti della metafisica erano i maestri di questa parte così interessante dell’umano sapere, dalla quale proviene il buon successo in qual vuoi corso di arti liberali. E Francesco da Buti, che per un mezzo secolo, o in quel torno, ottenne siffatto magisterio, ebbevi condotto tutto quel lustro, donde le lettere, queste care compagne [p. xxxiii modifica]della nostra vita, deono sfolgoreggiare. Usavansi per le scuole d'Italia i precetti che Donato nel quarto secolo, e Prisciano nel sesto ne aveano lasciato, i quali dal nostro dottore butese rinvenuti non a bastanza opportuni all'apprendimento dell'idioma latino, furono per lui compilate le Regulae Grammaticales, a cui vennero eziandio aggiunte delle osservazioni, affine di meglio imparare la purità ed eleganza nel comporre, e sembra che in questo medesimo tema divulgasse un trattatello circa Verba et Adverbia. Che se con ciò per certa guisa avea supplito a un difetto delle scuole, al desiderio, che egli quale valente retore nudriva dentro da sè, avea pienamente soddisfatto? Ma l'arte che alcuni domandano Umanità (nè tale nominazione dovrebbe disgradarne: avvegna che dal conversare in iscritto o a voce si pare o no l'uom compìto e la gentile persona) a quali norme veniva ella raccomandata? I libretti dei prof. Boncompagno fiorentino e Giovanni Bonandrei bolognese intorno allo stile epistolare non si reputavano bastanti all'uopo; laonde il Buti dettò anche su questo un trattato, ragionando dell'Epistole e adducendone degli esempi, acciocchè dalla teorica scompagnata non andasse la pratica. Se noi giudichiamo di codesti lavori, fatta ragione dei tempi che non molto prosperi correvano alle amene discipline, per poco non affermeremo che esso, il Da Buti, ebbe fornito il suo compito di retore degnissimo, e tanto più che in questo mezzo accudiva sempre alle cittadinesche faccende. L'uomo che, sentendo le sue facoltà capaci di maggiori imprese, attiensi a quanto puramente il suo ufficio gl'impone, dimostra in sè bassezza ed infingardaggine. Un animo generoso disdegna di rimanere confuso tra la schiera dei volgari, e continuamente desidera gli si offera il destro di sollevarsene e quasi locarsi come astro, al quale altri si rivolga nell'attuare i propri concetti e si rassecuri per non fallire al porto della gloria. A codesta savia operosità si riferisce il conoscere Iddio e sè stesso; cioè la dignità dell'uomo e il debito congiunto a tale stupenda creazione.

Il publico Studio di Pisa, istituito nel 1339, diveniva di giorno in giorno più rinomato, ed affinchè dalla opinione la realtà non discordasse, il consiglio il quale ne lo dirigeva, ad esempio delle città di Firenze e Bologna stabilisce che vi si legga publicamente il Poema di Dante Allighieri. Leggere i padri nostri chiamavano l’in[p. xxxiv modifica]segnare: perciocchè l'insegnamento loro stava nella dichiarazione orale d'un testo scritto, e racchiudeva l'utilità della duplice parola; scritta e parlata, senza della quale difficilmente si genera un buono insegnamento. Oh con quanta allegrezza il nostro professore avrà accolta una simile congiuntura, nella quale fuor d'ogni dubbio avrebbe manifestato come non pur egli sapeva esporre i precetti dell'arte dello scrivere; ma poteva anche apprestare un modello di classica dettatura! E qui non mi so contenere dal querelarmi della grande nostra inerzia, che tenne occulto per forse cinque secoli un tesoro tra di stile e di lingua maraviglioso! Nel giugno del 1385 esso avea già terminato il suo Commento, cui dovette interrompere per due gravi infermità che ne lo incolsero; il quale breve spazio, che altrimenti avrebbevi consumato, serve a persuaderne quanta fosse la sua facoltà intellettiva e la studiosa di lui sollecitudine. Quale miniera non ebbe egli dischiusa ad arricchire il patrimonio della natia loquela? Quanta franchezza e quanta grazia nel coniare vocaboli nuovi o derivarli da idiomi affini, ed acconciarli e disporre con tale una avvenenza da sembrare anch’oggi nati fatti di poco? Pare che egli prenunziasse a quanto viene presentemente insegnato; che l’esplicamento altresì della favella vuol essere interiore, dinamico, organico, il quale consiste nel compimento dei derivativi d’ogni radice, e nell'aggiunta assennata di nuovi radicali, ricavati dalla lingua madre. La sua lezione è in sul dichiarare le storie? Pochi gli entrano innanzi vuoi nelle sacre, vuoi nelle profane. Domestico qual era e dei Padri della Chiesa e de’ Filosofi dell’antichità e dei Classici del Lazio, gli autorevoli detti loro ne riportava ogni volta che stimavali adatti a confermare o il testo del poeta o la propria esposizione. Di scienze fisiche e morali possedeva tanto, che, rispetto ai tempi, si dee ritenere uomo unico piuttosto che raro, dopo la morte dell’ Allighieri e del Petrarca. Non ignoro che oggi i più non fanno buon viso a un Commento così esteso; ma, in cortesia, de’ tanti che abbiamo così alla spicciolata quale sopra codesto riporterebbe il vantaggio e nella conoscenza del cuore umano e nella forma del facile eloquio? Lasciato stare che sia questo il primo Commento che l’Italia ebbesi per intero, vuolsi eziandio grandemente apprezzare come scrittura che mena oro e può emulare tutte le contemporanee. Che, secondo allegoria, o ver moralità, [p. xxxv modifica]egli abbia o no sempre colpito nel segno ricusiamo di erigerci a giudici; ma non dubitiamo d’asserire com’egli ne ebbe ad altrui appianata la via, che avrebbeli menati a buon fine, qualora avessero saputo entrarvi. E valga il vero. Là dove tocca del veltro e delle rimanenti bestie, mentovate nel primo canto, qual mai tra’ vecchi e recenti chiosatori seppe meglio approssimarsi al concetto Dantesco, referentesi all’Imperio e alla Chiesa, ed ai tre vizi della lussuria, superbia ed avarizia? Ma in tale proposito non vogliamo più dilungarci, affin di non sembrare che pretendiamo al nostro avviso aggiustino fede i filologi nostrali e stranieri, i quali meglio da sè vedranno, se l’amore alla nostra publicazione abbia per ventura potuto ingannarci. Un altro però è il fatto che amiamo venga osservato; com’egli, in tanta operosità e di magistrato e di professore, punto non trascurasse il governo della propria famiglia, mostrando anche in ciò esemplarità di cittadino; e a tale riuscirono tutte le sue cure in educare i figliuoli che Bartolommeo diventò giudice e notaio; Antonio, notaio degli anziani; e Giovanni, oltre avere sostenuti in Pisa diversi publici incarichi, professò eziandio legge in quell’Università medesima, a cui il padre aveva accresciuta la rinomanza. Questa vita cotanto onorata del nostro Francesco gli avrà per fortuna giovato a fargli godere un’età più che ottogenaria: chè nato nel 1324, morì nel 25 luglio del 1406. Il suo corpo fu seppellito nel primo chiostro de’ Francescani in Pisa, sotto il terzo arco, a sinistra di chi vi entra, ed ivi anch’oggi si vede questa lapida:

[p. xxxvi modifica]In quest'anno medesimo alcuni Butesi, mossi da riconoscenza verso il celebre loro compatriota, sopra la porta della casa dove egli venne alla luce, ànno collocato la seguente epigrafe:





MCCCXXIV

TRE ANNI DOPO LA MORTE

DI

DANTE ALLIGHIERI

IN QUESTA CASA NACQUE

FRANCESCO DI BARTOLO

IL PRIMO CHE IN ITALIANO

COMMENTASSE LA DIVINA COMEDIA

Note

  1. Anche Frate Guido da Pisa (dal Da Buti nominato frate Guido del Carmine pag. 189) compilò un Commento alla Divina Comedia; ma soli i primi 27 canti dell’Inferno ne illustrò in latino. Un codice di questo Commento si trova nella Biblioteca Archinto in Milano.
  2. In Panicale, su quel di Buti, ebbe i natali il famoso pittore Masolino, ne’ lavori del quale molto studiò l’immortale Rafaello.