Cosmorama Pittorico (anno I - n. 36)
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COSMORAMA
PITTORICO.
N.ro 36. | MOLTO per POCO | 1835. |
Un frammento di colonna, mezzo corrosa dagli anni ed annerita dal fumo, sorgeva appena dal suolo in uno dei più frequentati quartieri di Brescia, e pareva un inutile inciampo ai passeggieri, un’incomposta macerie abbandonata al pubblico vitupero.
Quel misero avanzo, quell’inconcludente frantume celava nient’altro che la più augusta opera monumentale di Brescia romana, il tempio eretto alla Vittoria, nel secolo di Vespasiano. Il sepolcro di tredici secoli, dopo le devastazioni e gli incendj dei barbari ne’ bassi tempi, e dopo il franamento del circostante terreno che aveva inabissato ogni orma di edificio, aveva bastato a cancellare ogni memoria di questo antico sacrario. Il caso doveva restituirlo alla pubblica ammirazione.
Gli scavi fatti in questo tratto di terreno nell’anno 1826 discopersero avanzi monumentali, a cui quel frammento di colonna apparteneva. Io visitava quegli scavi nell’anno 1828, e tutto il prospetto esteriore del tempio era stato già dissepolto, e presentava un magnifico pronao a colonnati, a cui si accedeva per un’ampia scalea. Presentavano allora questi scavi l’imagine che offro nell’annessa tavola: le colonne scanalate, con bellissimi piedestalli, erano infrante: qua e là giacevano avanzi di cornici e di ornati di una leggiadrissima foggia, e una mano di operai diretta dal diligentissimo Basiletti, stava assiduamente scavando le macerie che ingombravano l’interior parte del tempio. Ogni giorno si disotterravano preziosi frammenti di are, di idoletti, di fregi ornamentali, e si riconosceva l’esatta pianta dell’edificio. Dai resti di un’iscrizione latina, deduceva il dottissimo archeologo Labus l’epoca precisa e la consacrazione di questo tempio: ma ancora mancava la divinità cui parea dedicato. Alla per fine scavando in un lato del tempio, si trovava prostesa al suolo una statua colossale in bronzo, stata un tempo dorata, dai cui atteggiamenti e dai cui simboli si riconosceva rappresentare la Vittoria. La straordinaria bellezza di questo romano capolavoro, faceva dire, e con ragione, che quella era stata una vera vittoria riportata sull’antichità.
Questa preziosa scoperta valse tanto ad animare il fervore degli scavi, che in capo a breve termine di tempo erano essi compiuti. Fu allora che i generosi Bresciani svolsero il magnifico progetto di convertire quell’antico sacrario nel museo patrio di antichità: pensiero veramente degno di una popolazione per la quale il lustro del paese è un affetto direi quasi istintivo.
All’opera dello scavamento tenne tosto dietro quella dell’integrale restauramento del tempio. Per compiere questo dispendioso lavoro concorrevano i cittadini con largizioni, concorreva lo stesso Comune con larghi sussidii. Io ritornava a visitare gli scavi di Brescia nell’ottobre dell’anno 1834, e in vece di trovarvi uno spettacolo di rovine, vi ammirava uno splendido edificio che serbando nelle sue parti il rigore del gusto antico, spirava ad un tempo un tal vezzo moderno che rapiva ed allettava. L’antico peristilio che adduce al tempio venne integramente conservato; le colonne, benchè mozzate dall’ira degli uomini e del tempo, dispiegano tuttora nelle membrature rimaste l’antica loro magnificenza: le cornici e le modanature sono quelle stesse del tempio antico: soltanto si compì l’esteriore parete del sacrario, sul cui frontone si incise questa semplice inscrizione: Museo patrio bresciano.
L’interno del tempio presenta, come all’epoca di Vespasiano, tre grandi camere: la massima centrale e due laterali. Nella camera centrale sta infissa sulle pareti la storia lapidaria di Brescia romana. Tutte le iscrizioni antiche state ritrovate in città e nella provincia furono qui trasferite e collocate, e di quelle che non si poterono levare dagli edifici si riprodusse l’esatto fac simile. Il benemerito dottor Labus ordinò queste iscrizioni in varie classi: qua leggi le iscrizioni che rammentano un fatto storico, poi quelle che esprimono un rito, un voto, una sacra invocazione, quindi quelle che recano i nomi e gli elogi di uomini illustri, e da ultimo quelle che segnano un’epoca od una carica; le iscrizioni mutilate od infrante sono state magistralmente restituite alla loro primitiva lezione per opera dello stesso dottor Labus. Il numero di queste lapidi ammonta a qualche centinajo, ed io ebbi la soddisfazione di vedervi il fac simile di alcune iscrizioni state da me lette nelle più riposte parti della provincia, là dove nessun erudito avrebbe avuto il coraggio di arrampicarsi in compagnia delle capre e dei pastori.
Nella camera laterale a mano diritta è depositata una bella raccolta di busti antichi e di varie opere statuarie, tanto dei secoli migliori del romano impero, quanto dei bassi tempi. Ivi rinvenni religiosamente custoditi que’ tanti fregi simbolici che appartenevano all’architettura rituale usata in Italia nei primi secoli del cristianesimo, e che ora vanno qua e là dispersi, rovinati ed infranti, da quelli stessi che dovrebbero venerarli.
Nell’altra camera a man ritta si custodiscono in chiusi armadii i più preziosi frammenti stati rinvenuti in questi scavi. Si veggono cornici, fregi d’ogni maniera, pezzi di colossi equestri, tutti in bronzo dorato: alcuni di essi furono talmente consunti dal fuoco che accomunandosi la lega del bronzo coll’oro produssero le più curiose screziature di tinte, che pajono colorite dall’iride. Tutto questo assembramento di frammenti d’opere in bronzo, rivela abbastanza quanto sia stato riccamente ornato questo tempio eretto a quella gran diva che tanto avevano invocato i Romani per farsi padroni dell’universo.
Nel mezzo di questa sala grandeggia su un piedestallo la statua colossale in bronzo della Vittoria insieme a molte statue dell’antichità, ma non mi rammento di averne ammirato una che senta di un fare così inspirato siccome questa. Le sue linee, le sue movenze, sono così grandi che rapiscono, e direi quasi stordiscono. Lo svolgere de’ panni lascia trasparire forme di un’elezione veramente divina. Quando si ha fitta in pensiero l’impronta grandiosa di questo antico capolavoro, confesso il vero che non mi so dar pace come non abbiansi potuti fare giganteschi progressi nella statuaria, in un suolo in cui Canova e Thorwaldsen ci rivelarono, se non l’estro, almeno il gusto dell’antichità.
Mentre io stava ammirando quest’opera stupenda, il custode mostrava ad un artista francese alcuni frammenti in marmo di mani gigantesche, per mostrare come questo antico tempio sia stato decorato da varie statue colossali. Alla vista di quelle reliquie, l’artista viaggiatore torceva il naso e stringendosi nelle spalle rispondea freddamente: sono sassi da far calce. Ecco, dissi fra me, come si stimano i tesori dell’antichità da quei signori che ci rapirono nei primi anni di questo secolo i nostri precipui capilavori per fregiarne le sale del Louvre, e che ora vengono a visitare questa terra di sepolcri, come essi la chiamano, per profanarla.
Prima di lasciare questo tempio di antichità patrie ne visitai anche i bellissimi sotterranei, una serie di cellette o gabinetti, che rassomigliano in eleganza alle camerette delle case di Pompei. Le pareti sono dipinte all’encausto e la soglia è a musaico. Alcuni vorrebbero che queste celle sotterranee appartenessero a qualche antichissimo edificio, anteriore alla costruzione del tempio, ma a me pare che siano esse contemporanee dell’edificio ed abbiano servito di eleganti celle sacerdotali non potendo altrimenti presumersi che si volesse erigere un tempio colossale sopra dilicate costruzioni che ne avrebbero tolta ogni solidità.
Quando darò la veduta di questo Museo, come ora si presenta restaurato, terrò più speciale discorso intorno alle altre rarità che racchiude: frattanto ne gode l’animo pensando quanto l’amore delle avite memorie sappia serbarsi vivo in un paese che ha sparso due volte la civiltà nel mondo e conta trenta secoli di storia.
Giuseppe Sacchi. |
Ebbe Italia nel secolo XV molti capitani esperti, prudenti, audaci quanto le città dell’antica Grecia; passano i più inonorati o per incuria degli storici, o perchè datisi a seguire la ventura come voleano gli ordinamenti di que’ dì, non giovarono ad un paese, e le loro azioni andarono confuse con quelle degli Stati cui servirono: tale fu Bartolomeo Coleone; fra le sue azioni alcune sole basterebbero a fare grande un antico.
Ei nacque nel 1400 su quel di Bergamo, a Solza, castello ove tenea signoria la sua famiglia; uccisogli il padre mentre era ancor fanciullo, fuggì la patria, ricovrò a Piacenza, ove Filippo Arcelli lo tenne come paggio: giovane, queto, taciturno, fu creduto imbecille; fu deriso. Coleone attendeva l’occasione a svolgere la propria energia: sdegnò servire fra le mollezze, desiderò la guerra; prese la via di Napoli; viaggiò a piedi, sostenne disagi, dormì sul suolo: non ne lamentò, pensava ad una gloria futura. A Napoli entrò nel campo di Sforza e di Braccio di Montone; apprese ad armeggiare, e parve prode; era avvenente, fu vezzeggiato dalla regina Giovanna; ma ei voleva un grado, e non ottenendolo, pensò di cercare miglior ventura; salpò per la Francia, e preso da corsari, fu ricondotta a Napoli. Ivi s’accostò a Jacopo Caldora e ottenne di comandare venti cavalli, e dopo essersi mostrato prode, trentacinque; tanto pena sovente l’uomo a porsi in occasione che chiarisca di quanto sia capace. In fatti Coleone fece di seguito l’assedio d’Aquila e di Bologna: prode, comandante e soldato, usava ad un tempo il consiglio e la mano: il Caldora vinse con lui; ei s’acquistò gloria, e l’essere richiesto a capitano dalla Veneta Repubblica.
Allora Coleone sotto il comando del Carmagnola combattè contro l’armi di Filippo Maria Visconti capitanale dal Piccinino; attendeva a quanto operavano que’ due rivali, e apprendeva dall’amico e dal nemico; osteggiò Cremona con tanta prudenza, che, spento il Carmagnola dalla gelosia dei Veneziani, ebbe il carico della guerra. Quindi difende Bergamo, prende la rôcca di Gardona, ritorna a Brescia vittorioso ed il Senato veneziano il rimerita creandolo capitano dell’infanteria.
Finalmente Coleone raggiunge un lungo desiderio, è comandante e può da sè condurre un’impresa; e la sua prima fu ardita e grande. Imperava l’alleata armata veneta Francesco Sforza, quella del Visconti il Piccinino; questi stringeva d’assedio Brescia, e appena Francesco Barbaro valeva a sostenere il coraggio da’ tribulati cittadini; lo Sforza stendendosi sui colli euganei riparava alle truppa che divise dall’armata erano battute dalle armi del Visconti, ma non valeva a liberare o soccorrere Brescia. Coleone pensa sussidiarla per mezzo del Lago di Garda, penetra in val Lagarina, prende Torbole chiave del Lago; ma era nulla, bisognava navigarlo, fare fronte alla flotta nemica che stanziava a Peschiera e non si aveva un palischermo. Allora ei leva l’animo ad un gran pensiero; trova un ingegnere Candiotto, conferisce e decide di trasportare a traverso de’ monti una flotta e gettarla nel lago.
Parve delirio; il fatto rispose: fe’ condurre alle foci dell’Adige due galee grandi, tre mezzane, e venticinque barche armate, e risalì il fiume fino quasi a Roveredo: era solo lungi da Torbole intorno a quindici miglia; ma in mezzo vi erano erti monti che separano il lago dalla valle dell’Adige; solo fra quelle erte si avvallava un piccolo lago di S. Andrea; Coleone e due mila fra soldati ed operai sgombrano la salita, abbattono piante, gettano ponti, e fatta la via, attaccano trecento buoi per ogni nave, sollevano, strascinano, trasportano la flotta dall’Adige sulla montagna e la ripongono nel piccolo lago. Restava ancora a superare il monte Baldo, si prese la via d’un torrente, aspra, tortuosa, angusta; tutto s’agguaglia alla pertinacia de’ Veneziani, e le navi salirono ove non aveano annidato che uccelli. Di là si calarono sul rapido pendio, sostenendole a corde rafferme a piante, e dopo quindici giorni d’improba fatica, la flotta, per via inusitata, calò nel lago, imperante Coleone.
Audace impresa audacemente eseguila, e che ben può contendere coi più famosi passaggi alpini antichi e moderni; poichè se è arduo condurre un’armata fra monti, non lo è meno trascinarvi trenta navi: non decise che d’una piccola fazione, quindi andò inosservata nella storia, tanto è vero che il fine dà merito ad un’impresa.
Coleone colla gloria accresceva di forze; avea cinquecento militi a proprio soldo e divenne capitano di ventura: quindi, fatta tregua di quella guerra, lasciò Venezia e s’accostò al Visconti, e presa in nome di lui varie castella del cremonese. Ma il Piccinino lo odiava, volle perderlo: fu accusato di tradimento, e il Duca il fe’ gittare nel carcere di Monza, ove restò un anno, solo visitato e confortato dalla moglie Tisbe. Forse vi peria, ma fu ventura per lui, che le nequizie di Filippo Maria stancassero gli uomini e il cielo, e i Milanesi bisognando un capitano liberarono Coleone; ebbe il carico della guerra contro il Duca d’Orleans che pretendeva alla signoria dello Stato di Milano; e nell’11 ottobre 1447 ottenne al Bosco bella vittoria con una carica ardita e improvvista. Si raccese la guerra l’anno seguente fra’ Milanesi ed il Duca di Savoja, e Coleone nelle due battaglie del 2 e del 23 aprile al Bosco, acquistò gloria a sè ed all’Italia.
Dopo questi fatti, lasciò il campo de’ Milanesi e tornò a quello de’ Veneziani, indi di nuovo si collegò collo Sforza a danno di Venezia nel 1451, e finalmente tornò al soldo veneziano nel 1454: sono mutamenti vergognosi, ma consueti a que’ dì, e tanti ne fecero Carmagnola, Sforza, Piccinino, e gli Stati stessi non ne dolevano: infatti, sebbene corresse voce che il Senato attendesse di far assassinare Coleone nel 1451, dopo lo prese ancora a proprio generale, e gli diede onori e tanta podestà, che a due senatori che vennero a visitarlo nell’ultima sua malattia, fra i sensi di gratitudine ei disse, consigliassero la repubblica di non commettere mai più a nessun generale l’autorità ed il potere che avea concessi a lui.
Fu per ventun’anno supremo generale dell’armata veneziana, ma furono anni di pace, e solo turbata nel 1467 da fuorusciti firentini che mossero guerra a’ Medici: chiesero sussidio alla Repubblica Veneta: non accondiscese, ma concesse al Coleone di rendersi co’ suoi militi in loro soccorso: passò il Po, fu sull’Imolese, e condusse la guerra: in questa il vecchio generale ricorse a nuove armi; pensò pel primo adoperare in battaglia le artiglierie innanzi solo usate a difendere e ad oppugnare fortezze. Pose sui carri spingarde lunghe tre braccia, le strascinò in campo, le collocò dietro le schiere, ed al momento della battaglia dato un segno di tromba, sicchè i soldati si dividessero in due ale, posto fuoco alle artiglierie le scarica contro a’ nemici. Fu battaglia micidiale oltre il consueto, talchè Ercole duca di Ferrara ferito ad un calcagno da una scaglia, mandò lamenti al Coleone perchè avesse usate armi barbare: erano le battaglie a que’ di ostinate, lunghe, ma poco micidiali; perchè mal potevano le mazze e le spade contro i soldati vestiti tutti di ferro: si battevano talora un intero giorno, e ne morivano due militi arroncinati fuor di sella. Fu fatale l’esperimento del Coleone; ciò non toglie si debba a lui il merito d’una nuova applicazione nell’arte della guerra, che segnerà per epoca la battaglia di Molinella data ai 15 luglio 1467, e non a Francesi, come asserisce Guicciardini; è vergognoso che anche il Venturi e il Grassi gli tacessero questa gloria. Coleone inoltre in quel fatto fu al solito esperto nell’ordinare le schiere e prode nel combattere colla spada; pugnò di giorno e di notte, riordinò i suoi che piegavano, nè si messe dal caldo della mischia finchè ottenne vittoria: fu giudicato pari alla sua riputazione di primo capitano del tempo.
Dopo ritornò alla domestica quiete nel suo castello di Malpaga ove viveva usando splendidamente le dovizie acquisiate in tante guerre. Ivi accoglieva gli amici, i generosi, sdegnava i tristi. — A che pro, diceva, conversare con gentaglia, con cui bisogna rilasciar l’arco dell’anima? Oltre a ciò sarei da essi in cospetto blandito e dietro le spalle maledetto; che il costume de’ balordi è di compassionare gl’infelici, invidiare i prosperi, mordere con velenoso dente chi loro sovrasta. — Un dì Antonio Cigola dicevagli essere sciagurata la propria età: ei rispondea: — Mio zio dicea lo stesso, e tale riferiva essere stati i lamenti di suo padre, tali quegli degli avi. — Però Coleone sebben mostrasse con ciò dannare il difetto de’ vecchi, non seppe toglierlo dell’animo suo, poichè canuto ricreavasi di narrare sovente le proprie gesta e magnificarle.
Tra questa gloria compiacevasi di creare a Bergamo templi, ospizj di carità, fra quali quello di Pietà che dava doti a povere fanciulle; compiacevasi nell’educare le proprie figlie alle domestiche virtù, e volle fossero casalinghe, sapessero cucire, tessere e cucinare, e potè consolarsi di vederle spose e felici: in questa letizia, nell’età grave di 75 anni, ai 14 novembre 1475, chinò il capo all’estremo sonno.
Fu uomo mutabile come tutti i capitani di ventura: era il costume del tempo: amò la gloria, le ricchezze: fu moderato ed ambizioso: quindi azioni belle e biasimevoli: morendo, oltre ai pii legati, lasciò alla Repubblica Veneta molta parte de’ tesori adunati col credito che ella gli fece; e questa riconoscente gli elevò sulla Piazza di San Giovanni e Polo una statua di bronzo dorata, modellata da Andrea del Verocchio e fusa da Alessandro Leopardi della quale diamo il disegno: è tuttavia bell’ornamento di Venezia e testimone della gloria de’ capitani Italiani: qui le arti soccorrono alla storia per richiamare sempre la ricordanza d’un prode verso cui i posteri non furono sempre riconoscenti.
Defendente Sacchi. |
Nella chiesa cattedrale di Pavia sorge ora il monumento più magnifico della scoltura italiana del secolo XIV e contende coi più grandiosi delle altre età: è l’Arca di S. Agostino. Fu ordinata dai frati Agostiniani, ed elevata nel 1360 in una sagrestia della Basilica di S. Pietro in Ciel d’oro, in onore del vescovo d’Ipona, le sante ossa del quale vennero traslocate di Sardegna in quel tempio nel 722 per carità e pio zelo del Longobardo Re Luitprando: pensavano essi levarle dalla Confessione ove giacevano in un muro di mattoni, per collocarle in questo monumento, se non che quel pensiero fu impedito da alcuni frati più vecchi che si opposero, e l’arca restò soltanto siccome un Cenotafio.
Questo monumento del quale qui si offre disegnata la parte anteriore è di marmo bianco, in forma d’un quadrilungo a quattro piani, formati da cornici, statue, ornamenti diversi: è lungo metri 8,07, largo 1,68, alto 2,95.
Il primo piano posa sopra una base ornata a semplici intarsi in nero. Innanzi a ciascuno de’ quattro pilastrini che dividono i tre scompartimenti, è appostata una figura di tutto rilievo: ogni scompartimento poi è diviso in due nicchie formate da due snelle colonnette laterali a spirale, ed una in mezzo, sulle quali volge un arco: in ciascuna nicchia vi è di basso rilievo un Apostolo che reca scritto in caratteri gotici il proprio nome e un articolo del Credo. Le statue rappresentano le virtù teologali, cardinali, e la religione. Nel presente disegno si vedono le prime, cioè la Fede con un calice e una croce rovesciata, la Speranza che guarda al Cielo con una palma in mano, la Carità che ha nella destra un cuore, e colla sinistra regge due fanciulli alla poppa: l’ultima coi piedi sprofondati nello scoglio e la Religione con in mano un papiro ed una palma.
Sopra questa grandiosa base sorge la parte più ricca del monumento, destinata a feretro per la statua del santo. Quest’ordine è soffolto da otto colonne quadrate; quattro per lato, e su queste gira l’architrave diviso in tre archi per ciascun fianco, un solo largo ne’ due lati più stretti, e formano una specie di tempietto elegantissimo.
In mezzo a questo giace sur un letto coperto da un panneggiamento che ricade all’intorno, il corpo del santo Dottore tutto grande di naturale, vestito magnificamente in paramenti pontificali: sostiene colle mani un libro aperto sul petto, e rialza alquanto il capo e il fisa come chi legge. Circondano questo letto sei giovani arredati da diaconi, tre per lato; raccolti, devoti, con ambe le mani sollevano la sindone che vela il feretro. Fanno inoltre corteggio ed ossequio al padre quattro Santi. Il resto di questo tempietto è elegantissimo: ogni pilastro che è fregiato di ornati tutti variati e diversi, ha in giro ai lati quattro statue di tutto rilievo, e tutte rappresentano o frati, o Santi o allegorie: sopra i capitelli posano dodici statue sedenti in giro, e quelle che sono nel presente disegno offrono quattro martiri artisti. La volta è elegantissima, tutta a fregi ed a bassi rilievi.
Si leva sopra questo feretro il terzo ordine diviso al solito dai pilastri, innanzi a ciascuno dei quali è una statua, e ne’ campi che restano in mezzo tre bassi rilievi, ne’ due lati minori due. Le dodici statue che sono in giro rappresentano o vescovi o frati agostiniani diversamente arredati, siccome voleano i diversi ordini ai quali apparteneano. Ne’ bassi rilievi sono raffigurate alcune storie di varia composizione che si riferiscono alla vita del Patriarca Africano. Fra quelli che si vedono nella presente tavola, uno è S. Ambrogio che predica a’ credenti e a S. Agostino che l’ascolta, nel secondo il vescovo d’Ipona che conferisce con S. Sempliciano da un lato, e dall’altro ancora S. Agostino che assiso legge un libro, mentre un Angiolo gli porta dal Cielo l’opera di S. Paolo: nel terzo è il momento in cui il vescovo milanese veste al nuovo adepto affricano l’abito di Catecumeno.
Gira siccome corona del monumento l’ultimo ordine, di gusto germanico gotico moderno, e di molta eleganza. Si alternano ai due fianchi tre piramidi triangolari e quattro statue; ai lati più stretti, due piramidi con in mezzo una guglietta: ogni piramide orlata di una cresta a foglie tripartite, tiene nel vano a basso rilievo una storia spettante alla vita di sant’Agostino, ed in ispecie alle sue azioni e miracoli. In questo disegno si vedono in uno S. Agostino che libera del carcere un prigioniero che se gli inginocchia innanzi in atto di gratitudine. La carcere alta merlata è tutta traforata per entro, sicchè si vedono fino gli ingraticolati delle ferriate: seguita nel secondo il ritorno dello stesso prigioniero alla propria casa che è sur un colle; sull’indietro vedesi una chiesa. Nel terzo è la liberazione di un’indemoniata: questa sciagurata sta inginocchiata a terra innanzi al divo Presule che la benedice, e vedesi lo spirito maledetto uscirle di bocca. Ricopre finalmente il vacuo di mezzo, e forma la volta un ombracolo semplicissimo, sul quale certo doveva sorgere un ultimo finimento a cupola come ne comprovano l’esempio di tutti gli altri monumenti, e specialmente quelli della stessa scuola, come sono l’arca di S. Eustorgio e quella di Azzone Visconti a Milano, quella di Cansignorio a Verona e varie contemporanee delle altre parti d’Italia; non fu terminata.
Perchè poi riesca meglio di comprendere quanto sia la grandiosità di quest’Arca e quale la copia del lavoro, richiameremo che vi sono cinquanta bassirilievi, novantacinque statue, senza computare gli animali, ed in tutto quattrocento venti teste le quali hanno tutti gli occhi rimessi di metallo, meno quelle de’ bassi rilievi dell’ultimo piano.
Questo monumento segna un’epoca nella storia della scultura italiana, ed anzi appunto quella seconda dal principio del suo ristauramento. Infatti poichè la statuaria s’era tolta alla miseria a cui era scaduta nel medio evo, solo dopo il 1250 incominciava a creare opere le quali risentissero di quel bello che è solo e continuato retaggio della patria nostra, mercè gli studj di Nicola e Giovanni da Pisa, di Arnolfo di Lapo, del Cosmate. A questi succedettero con maggior lena Margaritone, Agostino e Agnolo Sanesi, finchè verso la metà del secolo XIV Andrea Pisano, Nino suo figlio, l’Orgagna, il Lanfrani, Pietro Paolo e Iacobello Veneziani, i Rossellini del Proconsolo, il Balduccio, Bonino da Campione ed altri migliorarono sì l’arte che la recarono ad una second’epoca di perfezionamento. Allora le statue alle quali prima non si aveva osato dare alcuna movenza, alcuna espressione ragionevole, presero migliori forme e attitudini, un andare più bello nelle pieghe dei panni, qualche buon’aria di teste; fu condotto talora il marmo con molto studio, sebbene non sempre con buon disegno. Lo stesso avvenne de’ mausolei, poichè se prima parvero ragguardevoli quelli del Cardinal Consalvo e del Savelli in Roma, di Cosmate, e l’arca di S. Domenico di Bologna, di Nicola da Pisa, li soverchiarono in breve per grandezza e copia di lavoro a Napoli, il Sarcofago di Roberto d’Angiò e quello di Maria Sancia d’Aragona del Massuccio, quello di Benedetto XI. in Perugia di Giovanni Pisano, quello di Guido Tarlato in Arezzo, dei fratelli Sanesi, quello del Duca di Calabria e della madre del Re Roberto, dello Stefani e di Massuccio secondo, e finalmente l’arca di S. Pietro martire del Balduccio a Milano.
L’artista del monumento pavese vide questi miglioramenti e tutti li introdusse nell’opera propria: ragionevolezza nel concetto, nel collocamento degli Apostoli, del Feretro, dei Cherubini: ricchezza di ornati e di bassi rilievi, de’ quali i primi ne ha dovizia senza che soverchino, i secondi ben disposti e molti di bella composizione. Il marmo è condotto con molta fatica; perchè specialmente nelle piante e nelle parti architettoniche, si sono fatti trafori con molto studio e diligenza. La statua giacente del Santo è di buonissimo lavoro, e per la testa che ha vera intenzione di leggere, e per gli accessorj, buone tutte le piccole statue che ornano il monumento fatte con disegno e quasi tutte belle arie di teste; alcuni bassi rilievi e specialmente que’ della volta del feretro sono assai belli. Tutto insomma dimostra nell’artista uomo di genio, perito nello studio dei contemporanei, e, desideroso di migliorare l’arte propria. Io ho dato più lunga analisi e descrizione di questo monumento in un libro pubblicato in Pavia da Fusi nel 1833, sull’Arca di Sant’Agostino.
Ma di chi è mai ques’opera? i modesti scultori del trecento non usavano scrivervi il loro nome. Alcuni quindi congetturarono fosse di Agostino ed Agnolo Sanesi, e il Cicognara opera di Pietro Paolo e Jacobello veneziani. Ma il monumento parla per sè ove mancano le memorie: le opere di belle arti hanno uno stile e questo non falla. I Sanesi nel 1360 eran già morti: dal confronto di quest’opera poi con quelle dei due Veneziani si trova uno stile affatto diverso. Non è poi della scuola pisana, non del Lanfrani, non di Nino: non dell’Orgagna: cade sempre il sospetto dal confronto delle opere come provai nel libro accennato. Quest’opera tien solo lo stesso stile dell’arca di S. Eustorgio fatta dal Balduccio nel 1339 in Milano: ma nel 1368 il Balduccio era morto; l’artista dell’Arca di S. Agostino lo vinse di merito: dunque è uno scolaro che lo superò. Confrontati i monumenti di quel tempio si trovano dello stesso stile, quello di Azzone Visconti, quello di Bernabò Visconti in Milano, tutti però di Autori sconosciuti: ma uno della stessa mano per fortuna se ne trova a Verona, è la magnifica tomba di Can Signorio: quivi il Signor della Scala che si fece fare il sepolcro ancor vivente e certo chiamò l’artista che avea lavorato il più gran monumento in Lombardia, cioè l’arca di S. Agostino, scrisse forse per orgoglio il nome dello scultore; è Bonino da Campione, nome che vediam pure ricordato fra i primi consultati pel piano della cattedrale di Milano. Lo stesso Cicognara con una lettera che pubblicò da poi e riprodotta nella seconda edizione di quella mia memoria, acconsente a queste induzioni, e si ricrede dalla sua prima opinione. Quindi nel secolo decimo quarto, era in Milano una Scuola di scultura che forse si fondò col venire del Balduccio, ma crebbe e fece insigni monumenti in Lombardia, e in altre parli d’Italia. Se ne daranno talora i disegni e le storie nel Cosmorama. Intanto giovi avere pel primo offerto il più grande.
Chiusa la basilica di S.Pietro in Ciel d’oro l’Arca fu levata e scomposta: giacque per molti anni negletta; ora venne innalzata nella cattedrale di Pavia: gratitudine a chi ebbe pensiero tanto amico delle arti, ma l’architetto dimenticando che il cenotafio in origine era in terra, lo pose quasi a tabernacolo sopra un altare: quindi non dà l’effetto per cui fu creato, quindi tutta la parte più bella del santuario ove giace la statua del Santo è fuori di veduta. Però gli errori d’un Artista non debbono togliere al merito de’ Pavesi di avere di nuovo innalzato il monumento, poichè almeno ricomposto, è restituito allo studio ed all’onore delle arti italiane.
Defendente Sacchi |
Nel N. 30 del Cosmorama riferimmo le precipue opinioni dei fisici intorno ai bolidi, ad illustrazione della meteora apparsa nel 17 luglio 1835. Ora raccogliamo da una lettera pervenutaci, che nel 19 agosto 1835 una nuova meteora apparve nella terra di Misano, villaggio situato nella provincia di Bergamo, fra Caravaggio e Treviglio; ed eccone i suoi fenomeni.
Erano le ore otto e mezzo pomeridiane: il cielo era sereno, tranne due piccole nubi isolate, ed un nembo temporalesco verso Milano. Quand’ecco che un gran globo di fuoco si vede scendere da una di quelle due nubi, e giunto presso terra, investe di sua luce e delle sue faville cadenti una delle estremità della contrada massima che divide il villaggio di Misano. Cinque o sei persone che si trovavano in quella contrada furono gettate a terra: le altre rimaste in piedi, per difendersi dalle scintille si mise le mani sul capo ed una di queste colta da una di esse n’ebbe scottato un dito. Le scintille, appena cadute estinguevansi diffondendo un gran fumo ed un odore sulfureo. La meteora percorse, fischiando, quasi tutta la lunghezza della contrada, poi dato di volta, retrocedette, descrivendo una linea elittica stretta e prolungata. Giunta all’estremità del paese da cui aveva prese le mosse, diede in un grande scoppio, mandando un chiaror tale che pareva destasse un incendio, gettando a terra una donna ch’ebbe scottata una guancia e abbrustoliti i capegli, e sparve, frangendo la torre di un cammino, le imposte di una finestra, e fendendo le mura di una casa, senza formare alcuna pietra aereolitica. Nè prima nè dopo lo scoppio fu udito alcun fragore di tuono, non videsi alcun baleno, non annubilossi il cielo, non cadde una stilla di acqua. Il sereno dell’aere non fu turbato, e solo rimase per qualche tempo un densissimo fumo ed un odore nitroso sulfereo diffuso nell’atmosfera.
Noi diamo il fac simile della scrittura di Giandomenico Romagnosi, scegliendo a quest’uopo le parole da lui scritte sotto il proprio ritratto litografico dedicato al suo cordiale amico Luigi Azimonti di Milano. Erano queste parole dirette all’amico signor Giuseppe Azimonti fratello del soprascritto.
Fra le tante varietà di pecore che in Europa si veggono, singolare è la razza dei montoni di Valacchia e dei merini di Spagna. Noi qui porgiamo l’immagine del montone di Valacchia:
Questo montone passa in grandezza gli ordinarj montoni di Europa: esso ha il capo assai piccolo ed è munito di corna spirali di una sorprendente lunghezza e bellezza. Lunga e folta è la lana che lo riveste, ed ha una coda assai grossa. La femmina di questa razza è piccola, ha un pelo forse più fino di quello del maschio ed ha corna brevissime ritorte indietro. Numerosi sono, gli armenti di questa varietà di pecore nelle terre dì Valacchia e vistoso n’è il prodotto delle lane.
Ma più vistoso è senza dubbio il prodotto che danno i merini di Spagna di cui qui offriamo la figura.
Questi animali che hanno la lana più fina e più pregiata che si conosca, sono di un carattere mansuetissimo e docilissimo; gracili però sono di complessione, non possono sostenere marcie faticose, soffrono il calore del sole, il freddo e l’umido, e vanno custoditi colla massima cura. Nell’inverno stanno chiusi nelle stalle ove sono scarsamente pasciuti, e nelle altre stagioni non si conducono al pascolo che quando la rugiada è svanita e si riducono all’ombra nelle ore di maggior caldo. Qualche volta si coprono con mantelli di tele cerate perchè non ingialli la candidezza delle lane, e quando si tosane tengonsi preservati dal freddo perchè non soffrano.
Ne’ paesi montuosi delle Spagne questa varietà di pecore, denominato merinos, forma la ricchezza di quegli abitanti: il loro numero ammonta a quattordici milioni, sebbene da alcuni anni a questa parte siansi diminuite.
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