Dal Trentino al Carso/Sul Carso/La Battaglia di Ottobre/Il colpo di spalla

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Il colpo di spalla

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Sul Carso - La Battaglia di Ottobre Sul Carso - L'avanzata
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IL COLPO DI SPALLA.

Zona di guerra, 11 ottobre.

Quale è la nostra nuova fronte sul Carso? Da poche ore essa non è più quella che conoscevamo, quella che avevamo visto comporsi e consolidarsi dopo lo sbalzo del 14 settembre. Nessuno potrebbe delineare ancora con certezza la linea raggiunta oggi. Essa è mobile, agitata, è il limite di una tempesta, il bordo di un furore. Si indovina più che si conosca. I grandi comandi stessi non ricevono, da minuto a minuto, che notizie episodiche per le quali si fissano appena qua e là delle posizioni occupate, i capisaldi d’una linea in formazione, che può essere non definitiva. E ad ognuna di queste notizie si ha l’impressione di intravvedere piccoli lembi di solidità, vaghi e isolati, nella fluidità tumultuosa d’una bufera, come quegli indefiniti profili di paesaggio che appaiono attraverso gli squarci di un temporale.

La nostra offensiva sul Carso somiglia all’avanzare lento di quelle grandi colate di lava [p. 248 modifica] che rovesciano a tratti la loro pesante massa ardente, percorrono una breve zona e poi si freddano, si rapprendono, divengono pietra, assumono la fermezza di una muraglia, trasformano il loro bordo in una roccia fumigante, piena di incandescenza invisibile, gonfia di fuoco che affluisce da lontano e che improvvisamente erompe di nuovo, sconvolge la muraglia, l'abbatte e prosegue; la colata fiammeggiante si rimette in moto. Oggi la colata cammina. È giorno di battaglia.

Da due mesi i periodi di preparazione e i periodi di attacco si seguono con una regolarità formidabile. Ogni battaglia per la conquista di una nuova linea è più vasta, più intensa, più violenta della precedente. L’offensiva potè sorprendere il nemico all'inizio, nelle gloriose giornate di agosto, ma ora il giuoco è a carte scoperte, ed è soltanto con una calcolata e irresistibile superiorità di sforzo che la conquista procede, a palmo a palmo. Sotto certi rapporti la nostra azione somiglia nel suo svolgimento a quella franco-inglese sulla Somme, per quello che ha di sistematico, di aperto, di prevedibile, di ineluttabile. Ed anche per i metodi che il nemico ci oppone.


Come i tedeschi, gli austriaci, non potendo più erigere quelle possenti barriere che stimavano inespugnabili, sentendo che nulla resiste [p. 249 modifica]più al regolare colpo di maglio dei nostri attacchi, moltiplicano gli ostacoli. Non si sentono più capaci di fermarci indefinitamente, come sul San Michele, e creano infiniti argini successivi, compensano la robustezza incrollabile della fronte con la quantità delle linee di resistenza. Quando incominciò l’offensiva franco-inglese, si parlava di prima, di seconda e di terza linea tedesche, sorpassate le quali pareva dovesse determinarsi la guerra di movimento. Le tre linee sono sorpassate, ma altre sono sorte al di là, come se degli eserciti di trincee si affollassero a rallentare la marcia fatale della Vittoria. Così da noi, fra le grandi linee fortificate del nemico, preparate da anni sul Carso, altre minori e intermedie si formano per ridurre successivamente lo slancio della nostra avanzata.

Dopo il nostro attacco del 14 settembre, la seconda linea austriaca era a Castagnavizza. Saliva dalla valle del Vippacco, presso a poco all’altezza di Ranziano, passava per una delle alte vette del Dosso Faiti, sul ciglione del Carso, e per Castagnavizza scendeva al sud ad attaccarsi alle colline del Querceto (Hermada), sopra a Duino. Poi, qualche giorno dopo, i nostri esploratori aerei videro apparire brevi tratti di trincea, dei piccoli solchi oscuri, qua e là, sul Veliki Hribach, sul Pecinka, sul Nad Bregom.

Rapidamente i solchi si prolungarono, si [p. 250 modifica]congiunsero, in alcuni punti si raddoppiarono. Alla fine di settembre tutta una nuova seconda linea si era formata, con i suoi camminamenti e i suoi reticolati.

Avremmo voluto attaccare subito, tutto era pronto, ma il cattivo tempo ci teneva immobili. La stagione ha protetto il nemico. Ha interrotto la nostra azione di settembre ed ha ritardato la battaglia di ottobre, quella d’oggi. Il sereno arrivava, le artiglierie iniziavano in un’atmosfera limpida e luminosa il loro tremendo lavoro di demolizione, la fanteria si ammassava, e il giorno fissato per l’assalto sorgeva in un’alba tenebrosa e piovosa. Bisognava attendere e ricominciare. Il Carso è stato scosso a vari periodi, così, da bombardamenti spaventosi, preludi terribili di battaglia interrotti dalle intemperie. Ma nessuno ha raggiunto la violenza infernale dell’ultimo, di quello definitivo, che si è scatenato ieri ed oggi, e che continua.


Da Gorizia al mare è tutto un tuono, tutto uno schianto, un fragore atroce che sbalordisce, che annichilisce. Per scambiarsi una parola è necessario spesso aspettare un attimo di affievolimento del rombo immane. È un rullo di cannonate, uno scrosciare infinito di boati, di scoppi, di rimbombi, di ululati, di clamori possenti e soprannaturali, e si è squassati dagli spostamenti dell’aria lacerata dai colpi [p. 251 modifica]vicini. Si sentono passare delle ondate veementi, dei fantastici soffi d’uragano, in successione perpetua. La terra sobbalza, le pareti di legno dei baraccamenti sussultano, risuonanti come pelli di grancassa. Tutto quello- che avevamo visto e udito finora è superato. Il Vallone, angusto e profondo fra i selvaggi declivi, fonde il tumulto delle artiglierie annidate e dei proiettili che passano in un’eco immensa, in una sola voce profonda, lacerante, prodigiosa, che fa pensare ad una voce della terra stessa, ad un cupo e favoloso grido della montagna furente.

Nell’attacco del 6 agosto, che ci diede Gorizia, aveva fatto buona prova una preparazione violenta e breve. Otto ore di fuoco. Conveniva far presto, non dare tempo al nemico sorpreso di riaversi, di correre ai ripari, di rafforzarsi con riserve fresche. Ma ora il nemico sa tutto, prevede tutto, si tiene pronto, non può più essere còlto alla sprovvista, e il bombardamento sulle sue posizioni deve prolungarsi fino a raggiungere risultati materiali completi. Non c’è più niente di inatteso: è la forza sola che vince. L’assalto oggi si è sferrato dopo trentadue ore di fuoco di artiglieria.

Hanno cominciato i grossi e i medi calibri, ieri mattina. Una foschia leggera velava le posizioni. Gli osservatori vedevano male, ma il tiro di inquadramento dei giorni scorsi aveva già portato le batterie ad una relativa esattezza [p. 252 modifica]di puntamento. I cannoni tempestavano la prima e la seconda linea del! nemico, concentravano il fuoco sui capisaldi della difesa, sconvolgendoli. Avanti a Locvizza, avanti a Villanova, sulla Quota 208 nord, e in qualche altro punto della loro fronte, gli austriaci, lavorando assiduamente, avevano eretto dei fortini, delle ridotte, di quei loro sistemi complicati di trincee e di camminamenti destinati a resistere a qualsiasi urto di assalto, veri nidi di mitragliatrici ai quali si imperniava la linea di resistenza. Era su questi nodi di difesa che le enormi granate cadevano in più grande quantità, a stormi, impennacchiandoli di nembi agitati e immani.


Il nemico rispondeva di quando in quando con violente raffiche di cannonate, cercava le batterie nostre, tirava ad in terrompere le nostre retrovie nei passaggi più vulnerabili, batteva dei rovesci nei quali immaginava le fanterie in attesa. Degli aeroplani austriaci si levavano arditamente, esploravano, tentavano di abbattere i nostri palloni-drago, facevano segnalazioni con razzi fumiganti. Di tanto in tanto un martellamento di mitragliatrice scendeva dal cielo, e nell’azzurro si scorgeva un diafano e lontano aleggiare di aeroplani in lotta.

Scesa la notte, le grosse artiglierie hanno sospeso il fuoco e le piccole sono entrate in [p. 253 modifica]azione per impedire i lavori sulle trincee demolite e interrompere le comunicazioni. In ore prestabilite le batterie allungavano il tiro per permettere alle nostre pattuglie di uscire in ricognizione. Gli austriaci avevano rioccupato in forza le linee bombardate, che in molti tratti apparivano completamente distrutte. I nostri esploratori vedevano lontano sotto il plenilunio e scoprivano ad uno ad uno i varchi già aperti nei reticolati. Si udiva serpeggiare nella notte il crepitìo della fucileria. Le vallate erano colme di bruma che saliva lentamente.

Stamani tutti i cannoni, grandi e piccoli, hanno aperto il fuoco. Il cielo era coperto di tenui nubi, cumuli di nebbione che si squarciavano qua e là mostrando profondità azzurre. Un pallido sole filtrava ad intervalli. Le posizioni nemiche apparivano e sparivano, pallide e imprecise, nella foschia e nel fumo. Non un soffio di vento dissipava i nembi pesanti ed acri che erompevano ad ogni esplosione. Mentre il sereno si faceva in alto, un grigiore sinistro, un’ombra crepuscolare si addensava sulla battaglia.

Il pauroso fragore di centinaia e centinaia di colpi al minuto riempiva un paesaggio scolorato, livido, strano, lugubre. Si vedevano le grosse bombarde nere balzare su dai declivi, incessantemente, e tracciare la loro bizzarra traiettoria nella caligine. Salivano veementi, e [p. 254 modifica]al sommo della parabola pareva si fermassero un istante, oscillanti, come incerte, poi precipitavano e uno schianto come di folgore annunziava il loro giungere al suolo.


Non era più possibile in quell’atmosfera di catastrofe distinguere sempre i colpi di partenza da quelli di arrivo. Certi spari di obice pesante avevano da vicino la violenza di scoppi di granata. Da ogni parte si intravvedevano vampate, fra le rocce e nelle boscaglie, e fulvi annebbiamenti di fumo sorgevano a celare lo sfondo di una strada o lo sbocco di una gola. Le artiglierie nemiche mutavano continuamente obbiettivo, avevano lunghi silenzi poi tempestavano una zona. Quindici, venti granate di grosso calibro si seguivano nella stessa direzione col loro rumore da convoglio, lanciate a caso contro un presunto appostamento di batterie italiane od un supposto rifugio di truppe, e il luogo battuto spariva in una tenebrosa e tempestosa coltre di vapori. Si sentiva l'incertezza e l’affanno del nemico in queste sue disperate e cieche percosse.

Verso le dieci e mezzo i 305 austriaci hanno bombardato così il Vallone ai piedi del Nad Logern, aprendo enormi crateri nel terriccio rossastro vicino alla strada o svellendo macigni dai fianchi rocciosi del Brestovic, ammantati in parte da giovani boschi. E sulla strada, [p. 255 modifica]dopo la grandine fitta delle schegge e delle zolle, è caduto lieve un nembo di foglioline e di ramoscelli. Cumuli di fronde strappati alla montagna e trascinati in alto nei vortici d’aria e di fumo, sono ridiscesi come una nevicata. L’automobile che portava qualche corrispondente all’imbocco di un sentiero del Nad Logem, è passato su questo singolare tappeto di verdura.

Era l’ora fissata per le ricognizioni. Le batterie nostre allungavano il tiro, il bombardamento si calmava un poco, le pattuglie escivano. Sono arrivate alle trincee nemiche senza troppa lotta. Hanno trovato i reticolati divelti, i parapetti abbattuti. In qualche punto le pattuglie sono penetrate nelle posizioini austriache, piene di cadaveri e di feriti. Dei plotoni nemici si sono lasciati prendere prigionieri. Evidentemente il grosso delle forze austriache si era ritratto per balzare avanti al momento della suprema difesa.

Conoscendo i nostri preparativi, il nemico aveva fatto i suoi. Sapevamo che esso da qualche settimana riceveva enormi quantità di munizioni, di mitragliatrici, di materiale di ogni genere. Il movimento di treni sulle ferrovie dell’Altipiano, da Nabresina a Dornberg, era intensissimo. Per questo i nostri Caproni e i nostri dirigibili andavano così spesso a gettare tonnellate di esplosivi sulle stazioni di smistamento. [p. 256 modifica]Tutte le strade austriache erano ingombre di convogli. I nostri aviatori avevano contato fino a duecento camions automobili in una sola fila. Una grande quantità di trasporti affluiva anche dal nord, da Tolmino e da Plezzo. Le truppe si erano pure aumentate di qualche divisione della Transilvania, debitamente inquadrata con fedeli elementi magiari e tedeschi. Il nostro bombardamento aveva distrutto in grande parte le opere della prima linea, ma la entità della difesa non si sarebbe rivelata che al momento dell’assalto.


L’assalto è avvenuto alle 14,50. È scattato allo stesso minuto su tutta la fronte di attacco, dal sud di Gorizia al mare. Da un piccolo osservatorio sul Nad Logem, l’osservatorio del comandante di una delle nostre più ardite brigate, si è potuto scorgere lo svolgimento della prima fase dell’assalto dal Vippacco al Veliki Hribach. Si dominava la pianura di Gorizia, offuscata di caligine e di fumo. Ai piedi del monte, giù in fondo, i ruderi di San Grado sulla piccola altura bucherellata dalle cannonate, e più lontano Raccogliano e Merna, greggi di case scoronate e sventrate, circondati di prati, aggirati dal fantastico serpeggiamento del fiume. Il Nad Logem, il Veliki Hribach, e più lontano il Volkovnjak si ergono coperti di foltissime boscaglie fino alle vette. Solo la punta [p. 257 modifica]del Veliki appare nuda, e il suo fianco meridionale declina scoperto e rossastro verso il Pecinka. Le nostre posizioni di partenza, in gran parte nel bosco, erano indicate alle artiglierie da segnali al di sopra degli alberi.

Come ha capito il nemico che l’assalto era imminente? Nell’ultimo minuto di attesa tutta la sua artiglieria è entrata in azione. La pianura si è velata. Colonne immani di fumo color di ruggine passavano su San Grado. Si sono visti i segnali agitarsi, avanzare, sparire. «Vanno avanti! Vanno avanti!» — si sente gridare dall’osservatorio nel frastuono spaventoso. È l’assalto.

Non si ode l’urlo degli uomini nell’immenso tumulto dei colpi. Ai piedi del Veliki, sul tratto scoperto, si vede il brulichìo della massa che si avventa. Poi tutto si oscura, tutto svanisce. Il suolo sussulta di esplosioni vicine. Un picchiettio di schegge da tutte le parti. Il casco di un ufficiale osservatore, colpito, manda un suono metallico; l’ufficiale; trasmette indicazioni ad una batteria da montagna ed è così preso dal fervore del suo compito che non si accorge di niente. Il generale vicino a lui tende il suo volto magro ed energico con una attenzione spasmodica e mormora qualche cosa a sè stesso, gli occhi socchiusi, fermo come una statua. [p. 258 modifica]Il bosco rimbomba di esplosioni, sono forse tubi che spezzano reticolati fra albero ed albero. Non si vede niente. Niente altro che fumo. Dei rami volteggiano in aria lanciati da fosche eruzioni. Ma si capisce, si intuisce che la fanteria è passata e che il nemico batte nel vuoto. Sempre più intensa scroscia la fucileria, e le mitragliatrici mandano come uno stridore lacerante e profondo. Miriadi di sibili acuti solcano l’aria, gli alberi vicini stormiscono, il rumore del legno spezzato è continuo, e qua e là il rumore delle pallottole sulle pietre fa pensare ad uno schioccare di fruste.

Della gente a gruppi corre in una radura. Sono prigionieri che trottano in fila. Arrivano. Li precede un soldatino nostro, tutto sudato, con la maschera contro i gas attaccata al petto, carico di tascapani, di sacchi, di roba che gli saltella sul dorso, viveri, cartucce, granate a mano. Egli ha l’aria sbalordita e contenta.

«Bisogna che io sappia!» — esclama il generale, e lascia l’osservatorio per avviarsi ai rifugi dove sono i telefoni. Nel camminamento v’è una striscia di sangue. Di tratto in tratto il generale è costretto a fermarsi, curvo: passa una raffica di acciaio e di pietra. Ai rifugi trova le prime notizie e manda i primi ordini. Poi si volge rasserenato e sorride. Le posizioni nemiche sono espugnate. [p. 259 modifica]

Da altri settori le informazioni affluiscono. Villanova è presa. Avanziamo oltre le Quote 208. Contrattacchi nemici al centro sono respinti. Il successo si delinea su tutta la fronte....

La battaglia continua.