Decameron/Giornata quarta/Conclusione

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Giornata quarta - Novella decima Giornata quinta

[p. 337 modifica]Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avevano contristati, questa ultima di Dioneo le fece ben tanto ridere, e spezialmente quando disse, lo stradicò aver l’uncino attaccato, [p. 338 modifica]che essi si poterono della compassione avuta dell’altre ristorare. Ma veggendo il re che il sole cominciava a farsi giallo ed il termine della sua signoria era venuto, con assai piacevoli parole alle belle donne si scusò di ciò che fatto avea, cioè d’aver fatto ragionare di materia cosí fiera come è quella della ’nfelicitá degli amanti; e fatta la scusa, in piè si levò e della testa si tolse la laurea, ed aspettando le donne a cui porre la dovesse, piacevolemente sopra il capo biondissimo della Fiammetta la pose, dicendo: — Io pongo a te questa corona sí come a colei la quale meglio, dell’aspra giornata d’oggi, che alcuna altra con quella di domane queste nostre compagne racconsolar saprai. — La Fiammetta, li cui capelli eran crespi, lunghi e d’oro e sopra li candidi e dilicati omeri ricadenti, ed il viso ritondetto con un color vero di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolati tutto splendido, con due occhi in testa che parean d’un falcon pellegrino e con una boccuccia piccolina li cui labbri parevan due rubinetti, sorridendo rispose: — Filostrato, ed io la prendo volentieri; ed acciò che meglio t’avveggi di quel che fatto hai, infino da ora voglio e comando che ciascun s’apparecchi di de ver doman ragionare di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse. — La qual proposizione a tutti piacque: ed essa, fattosi il siniscalco venire e delle cose opportune con lui insieme avendo disposto, tutta la brigata, da seder levandosi, per infino all’ora della cena lietamente licenziò.

Costoro adunque, parte per lo giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi qua e chi lá, a prender secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all’ora della cena. La qual venuta, tutti raccolti, come usati erano, appresso della bella fonte, con grandissimo piacere e ben serviti cenarono; e da quella levatisi, sí come usati erano, al danzare ed al cantar si diedono, e menando Filomena la danza, disse la reina: — Filostrato, io non intendo deviare da’ miei passati, ma sí come essi hanno fatto, cosí intendo che per lo mio comandamento si canti una canzone: e per ciò che io son certa [p. 339 modifica]che tali sono le tue canzoni clienti sono le tue novelle, acciò che piú giorni che questo non sien turbati da’ tuoi infortuni, vogliamo che una ne dichi qual piú ti piace. — Filostrato rispose che volentieri, e senza indugio in cotal guisa cominciò a cantare:

     Lagrimando dimostro
quanto si dolga con ragione il core
d’esser tradito sotto fede Amore.
     Amore, allora che primieramente
ponesti in lui colei per cui sospiro
senza sperar salute,
sí piena la mostrasti di vertute,
che lieve reputava ogni martiro
che per te nella mente,
ch’è rimasa dolente,
fosse venuto: ma lo mio errore
ora conosco, e non senza dolore.
     Fatto m’ha conoscente dello ’nganno
vedermi abbandonato da colei
in cui sola sperava:
ch’allora ch’io piú esser mi pensava
nella sua grazia e servidore a lei,
senza mirare al danno
del mio futuro affanno,
m’accorsi lei aver l’altrui valore
dentro raccolto, e me cacciato fore.
     Com’io conobbi me di fuor cacciato,
nacque nel core un pianto doloroso
che ancor vi dimora:
e spesso maladico il giorno e l’ora
che pria m’apparve il suo viso amoroso
d’alta biltate ornato
e piú che mai infiammato;
la fede mia, la speranza e l’ardore
va bestemmiando l’anima che more.
     Quanto ’l mio duol senza conforto sia,
signor, tu ’l puoi sentir, tanto ti chiamo
con dolorosa voce;

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e dicoti che tanto e sí mi cuoce,
che per minor martir la morte bramo:
venga adunque, e la mia
vita crudele e ria
termini col suo colpo, e ’l mio furore,
ch’ove ch’io vada il sentirò minore.
     Nulla altra via, niuno altro conforto
mi resta piú che morte alla mia doglia:
dállami adunque omai,
pon’ fine, Amor, con essa alli miei guai,
e ’l cuor di vita sí misera spoglia;
deh! fallo, poi ch’a torto
m’è gioi tolta e diporto;
fa’ costei lieta morend’io, signore,
come l’hai fatta di nuovo amadore.
     Ballata mia, se alcun non t’appara
io non men curo, per ciò che nessuno,
com’io, ti può cantare;
una fatica sola ti vo’ dare:
che tu ritruovi Amore, e a lui solo uno,
quanto mi sia discara
la trista vita amara
dimostri appien, pregandol che ’n migliore
porto ne ponga per lo suo onore.


Dimostrarono le parole di questa canzone assai chiaro qual fosse l’animo di Filostrato, e la cagione: e forse piú dichiarato l’avrebbe l’aspetto di tal donna nella danza era, se le tenebre della sopravvenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non avesser nascoso. Ma poi che egli ebbe a quella posta fine, molte altre cantate ne furono infino a tanto che l’ora dell’andare a dormir sopravvenne; per che, comandandolo la reina, ciascuno alla sua camera si raccolse.