Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo VIII

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Capitolo VIII

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Capitolo Ottavo

Qual sia maggior cosa, o un grande scrittore

o un principe grande.

Se tutti i pregi che si richiedono per fare il sublime scrittore si trovassero pure riuniti in un principe, di quanto non dovrebbe egli primeggiar sovra tutti, poiché egli può operar tante cose che lo scrittore può appena accennare? Questa mi pare una questione da doversi esaminare profondamente, per la semplice soddisfazione e persuasione dei piú; che se io dovessi parlare a quei soli pochi che giudicano per forza d’intimo sentimento, non la tratterei altrimenti. Ricapitolerei [p. 166 modifica] soltanto tutti i pregi dello scrittore sublime; cioè sommo ingegno, integritá somma, conoscenza piena del vero, e non minore ardire nel praticarlo e nel dirlo. Da questo solo novero, verrei bastantemente a dimostrare che se tali e tante doti potessero per semplice forza di natura trionfare degli ostacoli annessi al nascimento e educazione del principe, un uomo che se ne trovasse fornito inorridirebbe tosto dell’esser principe, ed immediatamente cesserebbe di esserlo; e, divenendo facitore di cosí savie leggi che impedissero per sempre ogni futuro principe, egli verrebbe in tal modo (senza avvedersene) ad essere ad un tempo il primo degli scrittori tutti, e il solo vero gran principe che vi fosse mai stato. Dei tali non ne conosco dalle storie che un solo: Licurgo, che di re si facea legislatore, poi cittadino; e quindi finalmente esule si faceva della riprocreata sua patria, per dare cosí piú valore alle proprie leggi, acquetando con la sua lontananza l’invidia. Agide e Cleomene tentarono la stessa cosa piú secoli dopo; il primo perí nella impresa, il secondo non la riuscí interamente. Per ciò la gloria loro è minore di quella di Licurgo, ma di gran lunga maggiore di quella d’ogni altro principe.

Ma si lasci a parte questa specie di grandezza, principesca ad un tempo e cittadinesca ed umana, la quale, per essere troppo sublime, se non vi fosse stato un Licurgo, verrebbe riputata piú ideale che vera. Parliamo per ora delle tre specie di principi, grandi di grandezza principesca soltanto; che appunto di tre sorti ce ne somministra alcuni, ed anche rari, esempi la storia. Scegliendo dunque un principe grande di ciascuna classe, e paragonandolo a un veramente grande scrittore, (e di questa non ve n’è, se non d’una sola) mi affido di evidentemente dimostrare la veritá.

La esatta misura della fama meritata e acquistata innegabilmente sta nel maggiore o minore utile che si è arrecato agli uomini con imprese difficili, ardite, laboriose e grandi, sí per se stesse che pe’ loro effetti. I principi che noi chiamiamo grandi erano eglino conquistatori? La loro virtú è dunque stata utile soltanto ai pochi dei loro sudditi, dannosa ai piú, distruttiva per [p. 167 modifica] moltissimi uomini vicini, incognita o di nessun effetto ai lontani, di debole esempio o di tristo incitamento ai loro successori, e in fine di sterile maraviglia alle susseguenti generazioni. Erano eglino legislatori? Ma essi fondavano assoluti principati e non repubbliche mai. E, fondando governi assoluti, hanno insultati ed oppressi i piú; hanno innalzati, insuperbiti e fatti o lasciati essere oppressori i pochi e malvagi; quindi la loro fama, in proporzione dell’utile arrecato agli uomini, riesce pur sempre picciolissima o nulla agli occhi dei savi; ed agli occhi della moltitudine è durata quanto l’imperio loro, o poco piú. In fatti, per quanto sia stato grande Numa, credo che la fama di Giunio Bruto in Roma avanzasse di gran lunga, e giustamente, la sua; poiché Numa con tante savie leggi non avea però potuto o voluto impedire le seguenti tirannidi, che avvilita ed oppressa la tennero; e Bruto all’incontro, con una sola generosissima impresa, avea stabilito quella libertá da cui nacque la vera Roma, che fu poi per tre secoli la maggiore e la piú perfetta cosa pubblica di che si abbia esempio nel mondo. O, finalmente, grandi erano codesti principi per avere, in un regno giá stabilito, governati i loro popoli con somma politica, umanitá e dolcezza? ora, qual trista specie di uomini è dunque codesta dei principi, a cui viene ascritto come somma virtú, a cui acquista immensa fama ed eterna il semplice esercizio del lor piú stretto dovere? esercizio, al quale (se essi ben distinguono le cose) va annessa ad un tempo con il maggior loro utile la loro propria intera e sola felicitá. Fu egli mai riputato sommo verun giudice pel non commettere evidenti ingiustizie? verun pastore per non disperdere il proprio gregge? verun padre pel non trucidare i suoi figli? un uomo, in somma, è egli tenuto maggiore degli altri, soltanto per non esser egli e scellerato e crudele? Cosí è, pur troppo! Tanta è la facilitá, la possibilitá e l’invito al mal fare per chi sta sul trono, che chi, nol facendo, ha operato o lasciato operare dalle leggi un certo anche minimo bene, è stato riputato grandissimo. E, vista la nostra debile ed insolente natura, allorché alcun freno possente non la corregge, un tale principe si dée pur troppo riputare grandissimo. [p. 168 modifica]

Fra queste tre specie di principi magnati, piglierò per esempio della prima Alessandro, della seconda Ciro, della terza Tito: e paragonerò l’utile da essi arrecato agli uomini, e quindi la somma della loro fama, alla fama ed utilitá arrecata da un solo valente scrittore; e sia questo il piú antico, il gran padre Omero.

Alessandro, le cui vittorie e conquiste da nessun principe non furono mai agguagliate, non giovò ai macedoni; perché della infinita gente ch’egli estrasse dal proprio regno, il piú gran numero ne periva nell’Asia, e dei pochi che si arricchirono della preda dei persi, niuno quasi ne ritornava in Macedonia: e questa, allo svanire di quell’aura prima di gloria che al popolo conquistatore si aspetta, rimanea un picciolo regno da sé, poco o nulla serbando di quelle sue giá tante conquiste. Alessandro ai greci non giovò, poiché dalla epoca sua si deve ripetere la intera cessazione della loro libertá, per cui sola i greci si erano creati il primo popolo della terra; ai persi non giovò, poiché distruggea il loro impero, smembrandolo; agli altri popoli del globo non arrecò né utile né danno: ai principi nati dopo lui, e che senza le sue virtú imitare lo vollero, gran danno arrecò; e piú ancora ai popoli posteriori, che furono di quelle mal nate abortive ambizioni la vittima; Alessandro, in fine, alla universalitá delle successive generazioni null’altro lasciò di se stesso, se non il terrore o la maraviglia del nome.

Ciro giovò ai persi fondando il loro impero, e assicurandolo con savie leggi, per quanto pur elle siano combinabili col governo d’un solo. Ma Ciro, come avviene in ogni principato, assai piú giovò ai suoi successori re che non ai suoi popoli. E in prova di ciò, tolta una certa disciplina militare, che neppur molto durava e che in nulla era da paragonarsi alla greca e romana dappoi, in qual virtú, in quale arte divennero mai eccellenti i persiani? quai lumi ebbero? quali ne arrecarono alle soggiogate nazioni? quai tratti di sublime grandezza d’animo ci hanno tramandati le loro storie? dove sono le loro storie? Un vasto e muto silenzio di molti secoli, interrotto di tempo in tempo da milioni di schiavi armati, e sempre disfatti da poche centinaia di greci liberi, ogniqualvolta all’Europa affacciavansi; [p. 169 modifica] è questa la storia della nazione che nacque dalle leggi di Ciro: e se i greci scrittori stati non fossero, né di Ciro, né de’ suoi persi, il nome pure pervenuto sarebbeci. L’utile arrecato da questo conquistatore legislatore a’ suoi popoli, fu dunque assai picciolo; alle remote nazioni fu assolutamente nullo, alle postere nullo: ed il nome di Ciro, per essere piú antico e non greco, è anche rimasto assai minore di quello d’Alessandro. Tanto è vero che negli imperi assoluti non viene nulla piú riputato chi fonda di chi distrugge; ed è questa una tacita giustizia degli uomini, che con ciò dimostrano che negli assoluti imperi anco il fondare è un mero distruggere.

Tito, appellato «delizia del genere umano», giovò per pochi anni a Roma col rispettare alquanto le leggi, da’ suoi predecessori barbaramente straziate; ma non ne fece pur niuna che saldamente impedire potesse ai sucessori suoi di commettere le atrocitá dei suoi antecessori. Qual utile effimero fu dunque mai questo? Perdonò Tito ad alcuni congiurati; ma ciò fece anche Augusto e lo stesso Tiberio. Potea Tito giovare grandemente a Roma, tentando almeno di rifarla libera e virtuosa; ma ad una tal cosa neppure ei pensava. All’universale degli uomini non giovò egli né nocque; null’altro di lui rimane che il nome; e questo si va proponendo ogni giorno per modello ai principi tutti. Tito non è perciò imitato; ma se pure il fosse, quale utile ne risulterebbe ai popoli sudditi? un brevissimo istante di precario respiro, per poi risoffrire al doppio le oppressioni del successore. Ed in fatti, se anco da noi tutti non si dovesse aver mai altri principi che dei simili a Tito, ne saremmo quindi noi forse maggiormente uomini? nol credo: poiché i romani non ridivennero maggiormente romani sotto Tito, né sotto Traiano, né sotto gli Antonini, di quello che il fossero sotto Augusto, Tiberio e Nerone. I veri romani, cioè l’adunanza di tutte le virtú possibili in un ente umano, erano quella tal pianta che allignar ben doveva al tempo dei Bruti, dei Catoni e dei Fabi; ma, all’ombra dei Titi e dei Traiani, non mai.

Esaminate queste tre specie di principi grandi, veniamo presentemente al grande scrittore. Omero, verde e fresco dopo [p. 170 modifica] piú di due mille anni come se ier l’altro ei vivesse, agli uomini tutti presenti e futuri giova e gioverá; né ad alcuno mai nocque, se non a chi volle, senza averne l’ingegno, imitarlo. La virtú e la sublimitá egli insegna, il cuore dell’uomo sviluppa e commuove; guerriero egli e legislatore, amico degli uomini e del vero, gli illumina discoprendolo. Ed a cosí immenso giovamento quanto dal suo insegnare si trae, vi si aggiunge di piú quell’immenso diletto che a tutti arreca; cosa che nessun gran principe, neppure giovando, non arrecava ai popoli mai. Omero fu invidiato da Alessandro, senza accorgersene questi, nello invidiargli Achille; ma se Omero rivivendo paragonasse la sua propria fama a quella d’Alessandro, non credo io che egli mai Alessandro invidiasse.

Ma quando anche in vita fossero essi stati, o sembrati uguali il gran principe e il gran scrittore, eguale non può mai essere in appresso la loro memoria e fama, per due potentissime ragioni. Prima: che il principe non può aver giovato che ai soli suoi popoli, e per un dato tempo; lo scrittore a tutti e per sempre. Seconda: che il principe ha tratto la propria grandezza da mezzi che non erano in lui stesso: poiché, se non avesse egli avuto e stato e potenza, nessuna delle sue imprese avrebbe potuta condurre a buon fine: ed inoltre, di cotesta sua propria grandezza niuno stabile effetto ai posteri ne può il principe tramandare; null’altro del suo alla voracitá del tempo involandosi fuorché la memoria ed il nome: e questi anche, se debbono rimanere grandi davvero, abbisognano pur sempre d’un grande scrittore. Al contrario lo scrittore sublime, tutto in se stesso ed in sé solo trovando, fabro egli solo della propria grandezza, non meno che dell’utile altrui, alle seguenti etá tramanda eternamente la viva sua fama, non quasi un vuoto nome, ma corroborata e giustificata dal proprio libro.