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Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo VII

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Capitolo VII

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Capitolo Settimo

Quanto sia importante che il letterato stimi con ragione se stesso.

Avendo io nel precedente capitolo, per quanto mi pare, dimostrato che dal conoscere se stesso, con intimo e pieno senso delle proprie facoltá, nasce la perfezione del letterato, e quindi la durevole sua fama; piacemi in questo di ragionare a lungo su la stima di se stesso, che dée necessariamente nello scrittore originarsi dalla intima e assennata di lui securtá nei propri suoi mezzi.

E dico da prima che da una tale stima vivamente sentita, e alle volte anche spinta alquanto oltre al vero, ne nasce il divino effetto di valere l’uomo assai piú che non varrebbe per se stesso, se egli meno si stimasse. Questa idea di sé, per quanto si può osservare dai fatti, ha generato sommi effetti, non solamente in alcuni individui, ma perfino nei popoli interi. Gli spartani, ateniesi, e romani, attesa la smisurata opinione di se stessi, saputa loro infondere dei savi governi, fondata però su alcune vere basi, divennero infatti per sí gran tempo superiori ai popoli tutti con cui ebbero che fare. E nei loro primi tempi, l’opinione di se stessi certamente avanzava la realitá della loro forza: ma si verificò in appresso una tale opinione, perché nel piú delle cose, il crederle fortemente le fa essere; come il debolmente crederle cessare le fa. Ma di nessuna si vede piú pronto e sicuro questo effetto, che della opinione avuta da ciascuno individuo di se stesso. Non dico io per ciò che ad essere un uomo grande basti il credersi tale; anzi, chi lo è tale per lo piú non si reputa: ma dico bensí che a volerlo divenire, bisogna essere in se stesso convinto di averne tutta la capacitá, e aggiungervi un intenso e incessante volere; e il tutto corredare poi di quella saggia diffidenza di sé, che non è né viltá, né coscienza della propria debolezza, ma un profondo sentimento della difficoltá e sublimitá della perfezione. [p. 161 modifica]

Se dunque il letterato, uomo per sé privatissimo e oscuro, senza nessun’altra potenza né autoritá che quella del proprio ingegno; se il letterato osa pur concepire il sublime disegno di voler da sé solo persuadere gli uomini, rettificare i loro pensieri, illuminarli, difenderli, dilettarli, convincerli e far forza ai piú; chiara cosa è ch’egli dovrá aggiungere al molto ingegno naturale, alla dottrina necessaria e bastante al soggetto, al caldo e puro parlare, una altissima stima di se stesso; e non solamente la stima del proprio ingegno, ma della illibatezza dell’animo, del severo costume, della virtuosa e libera sua vita, non contaminata (per quanto si può) da nessuna macchia di timore, di dipendenza né di viltá. Che se egli non si reputa e conosce per tale, come ardirá lo scrittore insegnar la virtú, che non ha praticata? altro non sarebbe che uno svergognare e condannare se stesso. Ma, se egli tal non si reputa, come potrá egli tale mostrarsi? Lo scrittore crede, e pretende, di parlare a tutti. Uno scrittore onorato non dée commettere alla carta veruna cosa che egli, in savia e ben costituita repubblica, non ardirebbe pronunziare di bocca ad un popolo intero. Non dée dunque mai porre in iscritto cosa che non creda esser vera e retta; e che, come tale, non segua primo egli stesso, per quanto è possibile.

Una moderna opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che il lettore dée giudicare il libro e non l’uomo. Io dico e credo, e facile mi sarebbe il provare, che il libro è, e deve essere, la quintessenza del suo scrittore; e che, se non è tale, egli sará cattivo, debole, volgare, di poca vita e di effetto nessuno. Ed eccone rapidamente le prove.

A voler fare vivamente sentire altrui, bisogna che vivissimamente senta lo scrittore egli primo; non si può mai fortemente esprimere ciò che debolmente si sente; un pensiero espresso debolmente, perché non è fortemente sentito da chi il concepisce, non potrá mai fare neppure una mediocre impressione in colui che lo legge. Da queste tre veritá, parmi che ne risulti una quarta: che se lo scrittore non è intimamente persuaso di ciò ch’egli dice, non persuaderá né commoverá mai nessuno; e quindi sará per lo meno inutile il suo libro. [p. 162 modifica]

E sempre io parlo di calda, di forte e di vivissima impressione, come della piú importante parte d’ogni buon libro; perché gli uomini tutti per lo piú, e maggiormente i piú schiavi (come siam noi) peccano tutti nel poco sentire. Credo che ciò provenga (almeno in noi) dal troppo parlare, dal poco pensare e dal nulla operare; esistenza affatto passiva, che ci è singolarmente toccata in sorte a questi tempi, come ho giá piú sopra osservato; sorte, di cui dobbiamo pure esser degni, poiché con tanta disinvoltura la sopportiamo; ed i piú la sopportano senza neppure avvedersene.

A cosí fatti popoli non si ardisce in nessun modo annunziare il vero di bocca; conviensi dunque a lor favellare per via degli scritti. Ma cosí forte e inveterato deve essere il loro callo, ch’io credo necessario il tuonare per fargli appena appena sentire. Ogni lievissimo cenno è troppo per aizzare la tigre e il leone; ma qual pungolo è mai troppo acuto per inferocire il placido aggiogato bue? Quindi, ogni libro debole di pensieri e di stile, riuscirá fra noi di nessunissimo effetto; ed ogni forte libro di picciolissimo effetto riuscirá. Non potendo dunque lo scrittore ottenere una commozione che egli fortissimamente non provasse prima in se stesso; né potendola egli in tal modo provare e causare in altrui, se le cose da lui inculcate non praticava egli primo, ne risulta che uno scrittore non ha fatto mai un forte e buon libro senza stimare se stesso moltissimo. Ma può egli moltissimo stimare se stesso, senza essersi fatto assolutamente libero da ogni servitú di coloro ch’egli stimare non debbe, né può? Ed essendo egli ingegnoso, libero, virtuoso, costumato, eloquente, potrá egli mai mancar d’alti sensi, né di giusto ardire, né di luminose idee, né di forti, splendidi e sublimi colori per esprimerle?

Si osservi che se a Virgilio (come giá dissi) è mancata l’energia d’animo che richiedeasi in un romano che a romani parlava, la cagion principale ne fu, che egli debolmente sentiva, e se stesso non istimava né stimare potea. Quindi è che, oltre il timore d’Augusto, anche la vergogna di se stesso lo trattenea dal dare certi tocchi risentiti, feroci e verissimi, i quali smentito [p. 163 modifica] avrebbero pur troppo la sua vita servile. E se alcuno volesse anche trovare da ridere in un autor cosí grave, l’osservi in quei pochi suoi passi, dove egli pur vuole parer cittadino; e lo vedrá procedere con timiditá tanta, e con tante cautele, che la di lui pusillanime cittadinanza lo svela, anche piú che le ardite sue adulazioni, per un vile liberto di Augusto. Ma, chi vorrá pur trovarvi onde piangere, e con ragione, da quegli stessi passi ne ricaverá non picciolo dolore, riflettendo che da quei mezzi tocchi, e da quelle massimette di semilibertá snervate in versi eleganti, ne nasce assai piú danno che utile alla universalitá dei lettori. Dal poco dire, ne risulta il meno sentire; e dal sentir poco, allorché un tale effetto si trae da un autore di grido com’è Virgilio, se ne cava questa falsa induzione che in un buon libro (e massime di poesia) molte cose importantissime vi si debbono piuttosto tacere, o appena accennare, che scolpire. Non mancava a Virgilio null’altro che l’alto e robusto pensar di Lucano; ma questa mancanza ad ogni pagina vi si fa grandemente sentire. Se non isbaglio, gli epiteti sono quelli che meglio svelano l’animo, le circostanze e il piú o men forte sentire dello scrittore. Esamiamo rapidamente, sotto questo aspetto, l’epitetar di Virgilio.

Nel sesto libro, parlando egli d’Augusto, ne dice in diciotto versi ciò che mai d’uomo nessuno dir non potrebbesi senza sfacciata menzogna, e senza che parimente non arrossissero il lodatore e il lodato; ma in quei diciotto versi non ci osservo altro che il vile. Proseguiamo. Nominando egli i Tarquinii, cioè quegli abbominevoli tiranni, la cui sola espulsione di Roma la fece poi grande, Virgilio dice «Tarquinios reges»1 e non vi aggiunge epiteto nessuno: perché ogni giusto epiteto che avesse loro dato veniva ad essere per l’appunto l’epiteto che, in vece dei diciotto versi sopraccennati, meritamente e solo spettava ad Augusto. E si noti che il buon Virgilio dice «Tarquinios reges»; neppure osando dire tyrannos; ed ecco il timido e ingannevole poeta che scrive non pei romani, no, ma [p. 164 modifica] pel principe che lo pasce. Piú oltre, menzionando Giunio Bruto, cioè il liberatore, e quindi il fondatore vero di Roma, dice il leggiadro poeta: «animamque superbam ultoris Bruti»2; ed ecco il non cittadino, il traditor della gloria, della libertá e dell’utile verace di Roma. Falsissimo, vile ed iniquo pensiero fu il suo di non dire, per la patria liberata da un Bruto, altro che «animamque superbam», e di avvelenare ancora quell’epiteto giá improprio, coll’aggiunto di «ultoris Bruti»; come se Bruto non fosse stato mosso da altro impulso che dalla privata vendetta, e altra impresa non avesse egli a fine condotta, che il vendicare la contaminata Lucrezia. Ma per i figli condannati dal padre (tratto, la cui ferocia non può essere scusata né abbellita, se non dalla riacquistata libertá) ci impiega egli maliziosamente quattro versi, sparsi di veleno cortigianesco; in cui dovendogli sfuggire per forza l’epiteto di «pulchra» a «libertate», intieramente lo cancella tosto coll’aggiungervi in fine il «laudumque immensa cupido»3; e con ciò Virgilio viene a dipingerci Bruto non come un cittadino liberatore, ma come un vendicatore crudele e vanaglorioso.

Che ne risulta da un cosí fatto scrivere? O il lettore, che non conosce Bruto altrimenti che da Virgilio, piglierá piú avversione che amore per Bruto e, stimando piú le private virtú che le pubbliche, abborrirá il parricida, senza badare al liberator della patria; tollererá gli Augusti, li crederá per anche necessari alla pubblica felicitá; ovvero il lettore, iniziato giá nelle cose romane da Livio, nulla potendo aggiungere alla stima e venerazione ch’egli avea giá concepita per Bruto, molto aggiungerá pur troppo al disprezzo ch’egli giustamente anche concepito avea per Virgilio ed Augusto, nel leggerne le sopra mentovate lodi non meno indiscrete che vili. Ma questo falso e debole pensare, potea egli forse provenire in Virgilio dall’avere egli stimato in suo cuore maggiormente Augusto che Bruto? niuno è che ciò creda. Non proviene dunque questa virgiliana viltá [p. 165 modifica] da null’altro, se non dall’aver Virgilio anteposto gli agi e gli onori del corpo alla altezza e chiarezza della propria fama, dall’aver egli temuto piú la povertá che l’infamia, dall’aver egli riguardato Augusto come il tutto e Roma come il nulla, dall’avere egli in somma temuto se stesso minor d’un tiranno.

Il sublime letterato, a parer mio, si dée dunque stimare piú che uomo nessuno, se egli non vuol tradire la sacrosanta causa dei piú, che sempre dev’esser quella che in mille diversi modi egli tratta. E gli orgogliosi re che, scambiando la loro illimitata potenza con se stessi, si credono essere il tutto e sono il perfettissimo nulla, debbono ai sani occhi del letterato il nulla parere; che tanto divario corre per l’appunto fra un illustre scrittore ed un volgar re, quanto ne correa tra un cittadino romano ed un servo asiatico eunuco.

Ma parole al vento gittate sarebbero le mie, se altro aggiungessi per provar la supremazia del sublime ingegno su la volgare potenza: mi pare bensí di dover dir qualche cosa su la preeminenza tra un principe grande e un grande scrittore; rarissime e sublimi piante l’una e l’altra, ma assai piú rara, e sempre meno sublime, la prima.


Note

  1. «I Tarquini re». Virgilio, lib. VI, v. 818.
  2. «E il superbo animo di Bruto vendicatore». Virgilio, lib. VI, v. 819.
  3. «E l’insaziabile desiderio di lode». Virgilio, lib. VI, v. 824.