Del principe e delle lettere (Alfieri, 1927)/Libro secondo/Capitolo VI

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Capitolo VI

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Capitolo Sesto

Che il lustro momentaneo si può ottenere per via dei potenti;

ma il vero ed eterno dal solo valore.

Io non saprei dar principio migliore a questo capitolo, che citando alcune parole di Tacito: «Meditatio et labor in posterum valescit; canorum et profluens cum ipso scriptore simul extinctum est»1.

Non credo io, né pretendo asserire ed espor cose nuove; benché forse non siano state trattate finora con questo stesso ordine; anzi a me pare che i medesimi artefici, cosí delle [p. 153 modifica] lettere come delle arti, le sappiano tutte quanto e piú di me. E cosí mi fo io a credere, perché altro non si legge nelle loro vite, fuorché ora gli uni per compiacere ai principi protettori li lodarono non gli stimando, ora gli altri ricevettero da essi il tema dei loro poemi, libri o quadri; questi lasciarono guastare i propri disegni di templi, di palazzi, di pubbliche moli, dal capriccio, dall’ignoranza e presunzione dei protettori, ordinatori o pagatori di esse; e tutti si vedono, in somma, aver sempre maledetto l’ora e il momento e la necessitá (dicon essi) che gli avea condotti a impacciarsi con gente che nulla intendendo e tutto potendo, assai piú atta riesce ad atterrire che a consigliare altrui.

Da codeste loro stesse moltiplicate e giuste doglianze, io dunque ne ritraggo la certezza che gli uomini per lo piú, anche riflettendo e conoscendo e palpando la vera cagione delle cose, pure ci si ingannano poi se medesimi; e rimane lor dubbio tuttavia se sappiano essi o no che pur vi si ingannano. Questo accade semplicemente, perché i piú degli uomini non vogliono riconoscere nel presente il passato, e nel passato l’avvenire: o, per dir meglio, perché non vogliono essi per lo piú veder altro che il presente, ed anche male osservarlo.

E la ragione trivialissima, messa in campo da tutti, che il presente ci tocca assai piú da presso, non si può assolutamente tollerare in bocca di nessun artefice di cose grandi: d’un uomo cioè in cui suppongo, e deve albergare, una nobile e ardentissima fiamma d’amor di gloria, la quale, se non sola, almeno prima motrice a lui sia. Che se il poeta, l’oratore e lo storico o il filosofo ardiscono pur pronunziare ch’essi hanno bisogno di pane, con viso giustamente adirato rispondono loro i non vili: — E perché dunque, abbisognando di pane, non vi destinaste voi da prima ad una qualche opera servile di mano? Piú certo era il pane, non era infame il mezzo; e non avreste cosí dovuto arrossire in riceverlo. —

Ma, ben mi avveggo che dai piú degli uomini, sotto il nome sacrosanto di pane, si ricercano, e vogliono acquistarsi molti superflui comodi. Cosí, sotto il nome di fama, null’altro si va [p. 154 modifica] cercando dai piú che un’aura passeggiera di vana glorietta, per cui, correndo il loro nome per bocca dei loro contemporanei, accarezzati e considerati da essi ne vengano. E questa effimera distinzione, a cui non so qual nome si aspetti, per mezzo di una mediocre virtú protetta da una assoluta potenza, si ottiene. Ma il tempo, vendicator d’ogni torto, la riduce anche in polve ben presto, insieme con la stolta superbia e colla debile fama del protettore.

L’uomo che è nato capace d’esser sommo in un’arte, se alla naturale capacitá egli aggiunge la tenace risoluzione di volersi far tale, io credo che prima d’ogni altra cosa egli debba piacere a se stesso; e per ciò innanzi tutto, conoscere, stimare e temere se stesso. Gli altri sono uomini anch’essi; ma i piú son minori di lui, e i pochi suoi eguali o sono da invidia e da altre passioncelle acciecati o, essendo in tutto dediti a speculazioni diverse dalle sue, raramente sono giudici competenti, illuminati e caldamente spassionati dell’arte sua.

Il bello, sinonimo perfettamente del vero, è uno in ogni arte; ciascun uomo piú o meno lo sente; ma chi può mai tanto sentirlo, quanto colui che lo può eseguire? Mille ostacoli impediscono il retto giudizio degli altri; ma, freddato interamente quell’impeto che allo scrittore era necessario pur tanto al creare, nulla può impedire in appresso il suo retto giudizio su le proprie opere; purché soltanto egli voglia giudicarle da quella prima impressione che ne riceve il suo intelletto nel rileggerle, o farsele rileggere, allorché non sono piú affatto presenti alla di lui memoria. Il che può accadere facilmente a quel tale scrittore che avrá il savio metodo di far succedere l’una sua opera all’altra, per modo che lungamente le prime riposino. Ma e dove vo io d’una in altra cosa saltando? Al mio fine vo sempre; e troppo l’ho io nel cuore, perché dalla mente ei mi sfugga. Il sommo artefice, cioè l’imitatore e ritrattore della natura, piú forse quale ella potrebbe essere che quale ella è pigliandola a parte a parte; l’artefice, dico, dée ascoltar quasi tutti e non dispregiar mai nessuno; ma, formato ch’egli ha se stesso su gli ottimi che lo han preceduto, dée, piú che ad ogni [p. 155 modifica] altro, piacere a quegli ottimi e a se stesso; e ciò necessariamente importa che egli piacerá poi a venti nazioni, a venti generazioni di uomini, in vece di piacere alla parte guasta di una. Né il sommo artefice dée cosí fare per orgoglio, ma per l’intima conoscenza del cuore umano ch’egli avrá acquistata leggendo, riflettendo, e pensando le passate cose; e per una intima conoscenza di se stesso e delle proprie forze, ch’egli avrá acquistata esercitandole, e comparando sé ai grandi di cui legge e le cose sue alle loro, e le loro vicende alle sue. Ed ecco come il sublime sguardo dell’uomo che sommo vuol farsi vede e misura ad un tratto il passato, il presente e l’avvenire; conosce se stesso negli altri, gli altri in se stesso; e la natura, la veritá, il retto ed il bello conosce nella loro maggiore estensione, per quanto ad uom si conceda. Ora un artefice che cosí fattamente pensa si lascierá egli proteggere nell’esercizio di un’arte per se stessa sublime, a cui vede palpabilmente dagli esempi passati che la protezione ha arrecato minoramento di fama e nel suo autore e nell’opera? E colui che ha necessitá di appoggio per sostenersi può egli avere spinto tant’oltre il suo imparziale ragionare e riflettere? ed essendosi pure spinto fin lá, non sceglierá egli piuttosto ogni altra via che quella di un’arte sublime, per procacciarsi il piú infimo indispensabile sostentamento?

L’uomo, che con qualche dritto si lusinga di conoscere il vero e che si sente il nerbo di esporlo con forza ed eleganza, o dée avere il bastante per vivere, o contentarsi del pochissimo, o rinunziare all’impresa, o guastarla.

Ma io dicitor di paradossi parrò, se esemplificando non provo, o almeno non identifico il mio pensiero. — La fama di Virgilio è somma; chi non se ne appagherebbe? chi l’ha agguagliato, non che superato? ed egli era pure protetto e pasciuto da Augusto. — Rispondo: — La fama dei libri di Virgilio è somma; e tale, quasi per tutti i lati, la meritano; e quelle parti di essi che possono essere combinabili colla timiditá dell’autore e coll’avvilimento della sua dipendenza, vi si scorgono tutte perfette; sceltezza e maestá di parlare, varietá e imitazione d’armonia, vivacitá di colori, evidenza, brevitá, [p. 156 modifica] costume e mill’altre: ma la principalissima parte d’ogni scritto, che dée essere (per metá almeno) l’utile misto col dilettevole; quella parte divina, che ha per base il vero robusto pensare e sentire, totalmente quasi manca in Virgilio. Alle prove. Discende Enea nell’inferno, e gli vien fatta la rassegna dei grandi uomini che sono per illustrar Roma, e per farla poi un giorno signora del mondo. Quale scrittore di veritá, qual pensatore, qual gelido cronologista per anche, si attenderebbe fra questi di mentovarvi primi Cesare ed Augusto? e di mentovarli con ben altre lodi che gli Scipioni, i Regoli, i Fabrizi ed i Fabi, i quali seguono col misero corredo di pochissimi versi? Non contento di ciò, Virgilio spende diciannove altri eccellenti e toccantissimi versi per far menzione d’un Marcellotto nipotino d’Augusto, morto nell’adolescenza, il quale sarebbe affatto sconosciuto, se non era la vile sublimitá di quei versi. Ma per Catone un mezzo verso basta a Virgilio; tre soli per Giunio Bruto; né una parola pure per Marco Bruto. Molti altri grandi vi sono appena accennati, moltissimi preteríti del tutto, e fra questi (chi ’l crederebbe?) il gran Cicerone; perché quel sommo oratore recentemente allora caduto era vittima di quella stessa tirannica mano d’Augusto che, sanguinosa ancora e fumante del sangue dei cittadini romani, pasceva ed avviliva il niente romano poeta. Anzi Cicerone dalla codardia di Virgilio viene espressamente insultato con quelle infami parole: «Orabunt (alii) caussas melius»2; nelle quali uno scrittore latino eccellente, con vile e menzognera sfacciataggine, gratuitamente accorda la palma dell’eloquenza ai greci, o a chi la vorrá; e ciò soltanto per toglierla a Cicerone. Il lettore, a tai passi, ripieno di giusta indegnazione, è sforzato a gridar fra se stesso: — Ecco il pane di Augusto, ecco l’utile che arrecano i principi protettori alle lettere, ecco l’inganno, la viltá e l’errore, che non mai da essi né dai clienti loro scompagnare si possono. —

Parmi innegabile che Virgilio in questo luogo, e in mille [p. 157 modifica] altri simili, abbia voluto piacere ad Augusto piú che a se stesso; e che in ciò solo abbia ardito scostarsi da Omero, il quale non tradí mai il vero e se stesso per adular chi che fosse; e che poco si sia egli ricordato della grandezza di Roma, e meno curato della propria fama fra i posteri. Virgilio dunque, nell’atto di scriver tal cosa, o non sentiva, o (che peggio è) sentiva egli e tradiva l’importanza del sublime suo incarico fra i suoi coetanei, di essere il poeta nazionale di un popolo, il primo che mai fosse stato sul globo, e che, ridottosi allora schiavo di fresco, non ne era ancora certamente divenuto l’ultimo. Virgilio non conoscea dunque se stesso, poiché non si supponeva da tanto, di potere, con la bellezza ed energia del suo verseggiare divino, riaccendere a libertá e a virtú quel popolo qual ch’ei fosse. E se egli anche non potea pure lusingarsi di tanto ottenere, un poeta veramente romano avrebbe soddisfatto almeno a se stesso, alla patria e alla fama e gloria d’amendue. col solamente tentarlo. Ma potremmo noi credere mai che Virgilio, quel sovrano scrutatore degli umani affetti, queste cose tutte al par di noi non sapesse? no certo. Eppure ei fece il contrario, e perché? perché non seppe, o non ardí egli conoscere e stimare se stesso. E perciò egli ha fatto il suo libro assai minore di quello che avrebbe pur potuto e dovuto essere; e perciò egli ha fatto se stesso minor del suo libro.

Se egli dunque non avesse avuto nell’animo quella viltá che sempre dá il pane principesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso, e quindi assai maggiore il suo libro. Che niuna cosa non viene chiamata mai somma, finché si ha pure idea di un meglio, eseguibile. In un poema che ha per titolo Roma, quale, senza però darglielo, ha preteso di fare Virgilio, egli vi poteva e dovea inserire, per la parte robusta pensante e giovevole, una grandezza, veritá, libertá e forza che invano vi si cercano. Virgilio dunque ha tradito in ciò la gloria di Roma, scambiandola (e non a caso) con quella dei Cesari; e ad un tempo stesso egli ha di gran lunga menomato la propria. E tutto ciò perché Virgilio non ha pienamente conosciuto o voluto o ardito conoscere, stimare e piacere a se stesso. [p. 158 modifica]

E questa parola se stesso, ch’io tanto ribatto, si dée talmente dall’artefice in tutta la sua immensitá immedesimare colla parola vero, che quando egli dice dopo il maturo esame d’una opera sua, come d’una altrui, «non mi piace», equivaglia ciò per l’appunto il dire «non ci è il vero»: con quelle picciole restrizioni però che le facoltá limitate dell’uomo richiedono pur sempre, ma, che non sostituiscono tuttavia mai il falso al vero.

Alcuni, per distruggere in una parola quanto io finora ho ragionato intorno a Virgilio, diranno che egli non avrebbe forse scritto nulla, senza la protezione d’Augusto. Rispondo che cosí può essere e ch’io stesso cosí credo; e che ad ogni modo noi dobbiamo pur essere molto tenuti ad Augusto di un tanto poema, in cui ciò che manca non si suol mettere in contrappeso dai piú con tutto quel che vi abbonda. Gli amatori principalmente di poesia, che con tanto trasporto leggono e debbon leggere l’Eneide, cosí dicono e cosí debbono dire. Ma chi specula in grande, è sforzato a giustamente conchiudere che il bene di una cosa non ne toglie però il male; e che dovendosi cercare, per quanto è possibile, sempre quella perfezione che sta sola nel maggior utile, indispensabilmente ella si dée sempre originare o dalla schietta veritá, o dalla finzione che venga a conchiudere in qualche schietta veritá. Quindi, anche gli amatori piú caldi di Virgilio (e mi vanto io d’esser uno di quelli) debbono pur confessare, se intendono ed amano il vero, che Virgilio, nato cent’anni prima con le stesse sue doti, avrebbe fatto di tanto migliore il poema, di quanto quella Roma era miglior della sua; ovvero, che essendo anche nato sotto Augusto, se egli, provvisto delle prime necessitá, avesse avuto sí fatta altezza nell’animo di tornarsene a scrivere liberamente il poema nella sua nativa palude, e che scrivendolo avesse avuto sempre in vista di piacere al vero e a se stesso, Virgilio in tal modo sarebbe pervenuto a piacere e a giovare assai piú a’ suoi coetanei e a’ suoi posteri; e tessuto avrebbe un poema tanto maggior di quel suo, quanto l’animo, i costumi, la vita e la sublimitá d’un vero saggio indipendente avanzano i costumi, la vita e la bassezza d’un tiranno e dei suoi cortigiani. [p. 159 modifica]

Quale romana storia agguagliare si potrebbe ai piú luminosi e forti tratti di essa, espressi coi sublimi versi di Virgilio? A far rinascere romani in Italia, quali insegnamenti piú alti e piú caldi si potevano mai lasciare ai venturi giovanetti, che le imprese dei Bruti, dei Fabii e dei Decii, da Virgilio pennelleggiate? E se i diciannove versi da lui consecrati ad eternare la nullitá di un Marcelluccio cesareo, col miglior senno consecrati gli avesse ad un Regolo o ad uno Scipione romani, la immensa e purissima gloria che gliene ridonderebbe da tanti secoli, la soddisfazione, piú cara ancora che la gloria, di avere con egregio stile laudata la egregia virtú, non gli sarebbero elle state piú nobile e desiderabil guiderdone che non quella disonorante mercede di non so quanti talenti da Livia donatigli? I versi eccellenti, consecrati a lodar la virtú, hanno la loro mercede in se stessi. Nessuno eroe romano ricevea mai guiderdone di danari dalla patria sua per aver fatto una nobile impresa; ed ardirebbe riceverla colui che, degnamente cantandola, si mostra degno e capace di, bisognando, eseguirla?

L’amore dunque della fama presente e non vera, spesso fa perdere, e talvolta scemar la futura, che sola è verace e durevole. I sommi scrittori lascino per tanto ai mediocri godersi questa picciola e momentanea fama, che è veramente la loro, poiché se ne appagano, e poiché dalla altrui potenza si ottiene. Ma essi, caldi proseguitori della vera fama che sta in loro stessi, e che dal vero e dal tempo soltanto si ottiene, nessun altro termine pongano alla loro virtuosa e nobile brama di giovar dilettando, se non se la infinita serie delle future generazioni. E sempre abbiano presente che un Omero ha dato e vita e fama perenne ad Achille; ma che nessuno Achille mai, non che un Omero creare, bastato sarebbe colle proprie forze a dar vita e perenne fama a se stesso.


Note

  1. «L’opera meditata, e accurata, cresce fra i posteri; le facili e canore baie col loro stesso scrittore si spengono». Tacito, Annales, lib. IV.
  2. «Altri popoli avranno piú eccellenti oratori, che non ebbero i romani». Virgilio, lib. VI, v. 850.