Della pittura (Alberti)/Libro secondo

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LIBRO SECONDO

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LIBRO SECONDO


25.    Ma perché forse questo imparare ad i giovani può parere cosa faticosa, parmi qui da dimostrare quanto la pittura sia non indegna da consumarvi ogni nostra opera e studio. Tiene in sé la pittura forza divina non solo quanto si dice dell’amicizia, quale fa gli uomini assenti essere presenti, ma più i morti dopo molti secoli essere quasi vivi, tale che con molta ammirazione dell’artefice e con molta voluttà si riconoscono. Dice Plutarco, Cassandro uno de’ capitani di Allessandro, perché vide l’immagine d’Allessandro re tremò con tutto il corpo; Agesilao Lacedemonio mai permise alcuno il dipignesse o isculpisse: non li piacea la propia sua forma, che fuggiva essere conosciuto da chi dopo lui venisse. E così certo il viso di chi già sia morto, per la pittura vive lunga vita. E che la pittura tenga espressi gli iddii quali siano adorati dalle genti, questo certo fu sempre grandissimo dono ai mortali, però che la pittura molto così giova a quella pietà per quale siamo congiunti agli iddii, insieme e a tenere gli animi nostri pieni di religione. Dicono che Fidia fece in Elide uno iddio Giove, la bellezza del quale non poco confermò la ora presa religione. E quanto alle delizie dell’animo onestissime e alla bellezza delle cose s’agiugna dalla pittura, puossi d’altronde e in prima di qui vedere, che a me darai cosa niuna tanto preziosa, quale non sia per la pittura molto più cara e molto più graziosa fatta. L’avorio, le gemme e simili care cose per mano del pittore diventano più preziose; e anche l’oro lavorato con arte di pittura si contrapesa con molto più oro. Anzi ancora il piombo medesimo, metallo in fra gli altri vilissimo, fattone figura per mano di Fidia o Prassiteles, si [p. 46 modifica]stimerà più prezioso che l’argento. Zeusis pittore cominciava a donare le sue cose, quali, come dicea, non si poteano comperare; né estimava costui potersi invenire atto pregio quale satisfacesse a chi fingendo, dipignendo animali, sé porgesse quasi uno iddio.


26.    Adunque in sé tiene queste lode la pittura, che qual sia pittore maestro vedrà le sue opere essere adorate, e sentirà sé quasi giudicato un altro iddio. E chi dubita qui apresso la pittura essere maestra, o certo non picciolo ornamento a tutte le cose? Prese l’architetto, se io non erro, pure dal pittore gli architravi, le base, i capitelli, le colonne, frontispici e simili tutte altre cose; e con regola e arte del pittore tutti i fabri, iscultori, ogni bottega e ogni arte si regge; né forse troverai arte alcuna non vilissima la quale non raguardi la pittura, tale che qualunque truovi bellezza nelle cose, quella puoi dire nata dalla pittura. Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già ove sia la pittura fiore d’ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a proposito. Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie del fonte? Diceva Quintiliano ch’e’ pittori antichi soleano circonscrivere l’ombre al sole, e così indi poi si trovò questa arte cresciuta. Sono chi dicono un certo Filocle egitto, e non so quale altro Cleante furono di questa arte tra i primi inventori. Gli Egizi affermano fra loro bene anni se’ milia essere la pittura stata in uso prima che fusse traslata in Grecia. Di Grecia dicono i nostri traslata la pittura dopo le vittorie di Marcello avute di Sicilia. Ma qui non molto si richiede sapere quali prima fussero inventori dell’arte o pittori, poi che non come Plinio recitiamo storie, ma di nuovo fabrichiamo un’arte di pittura, della quale in questa età, quale io vegga, nulla si truova scritto, benché dicono Eufranore istmio scrivesse non so che delle misure e de’ colori, e dicono che Antigono e Senocrate misono in lettere non so che pitture, e dicono che Appelle scrisse a Perseo de pittura. Raconta Laerzio Diogenes [p. 48 modifica]che Demetrio fece commentari della pittura. E così estimo, quando tutte l’altre buone arti furono dai nostri maggiori acomandate alle lettere, con quelle insieme dai nostri latini scrittori fu la pittura non negletta, già che i nostri Toscani antiquissimi furon in Italia maestri in dipignere peritissimi.


27.    Giudica Trimegisto, vecchissimo scrittore, che insieme con la religione nacque la pittura e scoltura. Ma chi può qui negare in tutte le cose publiche e private, profane e religiose la pittura a sé avere prese tutte le parti onestissime, tale che mi pare cosa niuna tanto sempre essere stata estimata dai mortali? Racontasi i pregi incredibili di tavole dipinte. Aristide tebano vendè una sola pittura talenti cento; e dicono che Rodi non fu arsa da Demetrio re, ove temea che una tavola di Protogenes non perisse. Possiamo adunque qui affermare che la città di Rodi fu ricomperata dai nemici con una sola dipintura. Simile molte cose raccolse Plinio, per le quali tu conoscerai i buoni pittori sempre stati apresso di tutti in molto onore, tanto che molti nobilissimi cittadini, filosafi, ancora e non pochi re, non solo di cose dipinte, ma e di sua mano dipignerle assai si dilettavano. Lucio Manilio cittadino romano e Fabio uomo nobilissimo furono dipintori. Turpilio cavaliere romano dipinse a Verona. Sitedio, uomo stato pretore e proconsolo, acquistò dipignendo nome. Pacuvio poeta tragico, nipote ad Ennio poeta, dipinse Ercole in foro romano. Socrate, Platone, Metrodoro, Pirro furono in pittura conosciuti. Nerone, Valentiniano e Alessandro Severo imperadori furono studiosissimi in pittura. Ma sarebbe qui lungo racontare a quanti principi e re sia piaciuto la pittura. E ancora non mi pare da racontare tutta la turba degli antiqui pittori, quale quanto fusse grande vedilo quinci che a Demetrio Falerio, figliuolo di Fanostrato, furono fra quattrocento di trecentosessanta statue, parte a cavallo, parte sui carri, compiute. E in questa terra in quale sia stato tanto numero di scultori, credi che manco fussero pittori? Sono certo [p. 50 modifica]queste arti cognate e da uno medesimo ingegno nutrite, la pittura insieme con la scoltura. Ma io sempre preposi l’ingegno del pittore, perché s’aopera in cosa più difficile. Pure torniamo al fatto nostro.


28.    Fu certo grande numero di scultori in que’ tempi e di pittori, quando i prencipi e i plebei e i dotti e gl’indotti si dilettavano di pittura, e quando fra le prime prede delle province si estendeano ne’ teatri tavole dipinte e immagini. E processe in tanto che Paolo Emilio e non pochi altri cittadini romani fra le buone arti a bene e beato vivere ad i figliuoli insegnavano la pittura; quale ottimo costume molto apresso de’ Greci s’osservava. Voleano che i figliuoli bene allevati insieme con geometria e musica imparassono dipignere. Anzi fu ancora alle femine onore sapere dipignere. Marzia, figliuola di Varrone, si loda appresso degli scrittori che seppe dipignere. E fu in tanta lode e onore apresso de’ Greci la pittura, che fecero editto e legge non essere ad i servi licito imparare pittura. Fecero certo bene, però che l’arte del dipignere sempre fu ad i liberali ingegni e agli animi nobili dignissima. E quant’io, certo così estimo ottimo indizio d’uno perfettissimo ingegno essere in chi molto si diletti di pittura; benché intervenga che questa una arte così sta grata ai dotti quanto agl’indotti, qual cosa poco accade in quale altra si sia arte, che quello qual diletti ai periti muova chi sia imperito. Né ispesso troverrai chi non molto desideri sé essere in pittura ben dotto. Anzi la natura medesima pare si diletti di dipignere, quale veggiamo quanto nelle fessure de’ marmi spesso dipinga ipocentauri e più facce di re barbate e crinite. Anzi più dicono che in una gemma di Pirro si trovò dipinto dalla natura tutte e nove le Muse distinte con suo segno. Agiugni a questo che niuna si truova arte in quale ogni età di periti e d’imperiti così volentieri s’affatichi ad impararla e a essercitarla. Sia licito confessare di me stesso. Io se mai per mio piacere mi do a dipignere, — qual cosa fo non raro quando dall’altre mie maggiori faccende io truovo ozio —, [p. 52 modifica]ivi con tanta voluttà sto fermo al lavoro, che spesso mi maraviglio così avere passate tre o quattro ore.


29.    Così adunque dà voluttà questa arte a chi bene la esserciti, e lode, ricchezze e perpetua fama a chi ne sia maestro. Quale cose così sendo quanto dicemmo, se la pittura sia ottimo e antiquissimo ornamento delle cose, digna ad i liberi uomini, grata ai dotti e agl’indotti, molto conforto i giovani studiosi diano quanto sia licito opera alla pittura. E poi amonisco chi sia studioso di dipignere imparino questa arte. Sia a chi in prima cerca gloriarsi di pittura questa una cura grande ad acquistare fama e nome, quale vedete gli antiqui avere agiunta. E gioveravvi ricordarvi che l’avarizia fu sempre inimica della virtù. Raro potrà acquistare nome animo alcuno che sia dato al guadagno. Vidi io molti quasi nel primo fiore d’imparare, subito caduti al guadagno, indi acquistare né ricchezze né lode, quali certo se avessero acresciuto suo ingegno con studio, facile sarebbono saliti in molta lode e ivi arebbono acquistato ricchezze e piacere assai. Ma di queste assai sino a qui sia detto. Torniamo a nostro proposito.


30.    Dividesi la pittura in tre parti, qual divisione abbiamo presta dalla natura. E dove la pittura studia ripresentare cose vedute, notiamo in che modo le cose si veggano. Principio, vedendo qual cosa, diciamo questo esser cosa quale occupa uno luogo. Qui il pittore, descrivendo questo spazio, dirà questo suo guidare uno orlo con linea essere circonscrizione. Apresso rimirandolo conosciamo come più superficie del veduto corpo insieme convengano; e qui l’artefice, segnandole in suoi luoghi, dirà fare composizione. Ultimo, più distinto discerniamo colori e qualità delle superficie, quali ripresentandoli, ché ogni differenza nasce da’ lumi, proprio possiamo chiamarlo recezione di lumi.


31.    Adunque la pittura si compie di circonscrizione, composizione, e ricevere di lumi. Seguita adunque dirne brevissimo. Prima diremo della circunscrizione. Sarà circunscrizione quella che descriva l’attorniare dell’orlo nella pittura. In questa dicono [p. 54 modifica]Parrasio, quel pittore el quale appresso Senofonte favella con Socrate, essere stato molto perito e molto avere queste linee essaminate. Io così dico in questa circonscrizione molto doversi osservare ch’ella sia di linee sottilissime fatta, quasi tali che fuggano essere vedute, in quali solea sé Appelles pittore essercitare e contendere con Protogene; però che la circonscrizione è non altro che disegnamento dell’orlo, quale ove sia fatto con linea troppo apparente, non dimostrerà ivi essere margine di superficie ma fessura, e io desiderrei nulla proseguirsi circonscrivendo che solo l’andare dell’orlo; in qual cosa così affermo debbano molto essercitarsi. Niuna composizione e niuno ricevere di lumi si può lodare ove non sia buona circonscrizione aggiunta; e non raro pur si vede solo una buona circonscrizione, cioè uno buono disegno per sé essere gratissimo. Qui adunque si dia principale opera, a quale, se bene vorremo tenerla, nulla si può trovare, quanto io estimo, più acommodata cosa altra che quel velo, quale io tra i miei amici soglio appellare intersegazione. Quello sta così. Egli è uno velo sottilissimo, tessuto raro, tinto di quale a te piace colore, distinto con fili più grossi in quanti a te piace paraleli, qual velo pongo tra l’occhio e la cosa veduta, tale che la pirramide visiva penetra per la rarità del velo. Porgeti questo velo certo non picciola commodità: primo, che sempre ti ripresenta medesima non mossa superficie, dove tu, posti certi termini, subito ritruovi la vera cuspide della pirramide, qual cosa certo senza intercisione sarebbe difficile; e sai quanto sia impossibile bene contraffare cosa quale non continovo servi una medesima presenza. Di qui pertanto sono più facili a ritrarre le cose dipinte che le scolpite. E conosci quanto, mutato la distanza e mutato la posizione del centro, paia quello che tu vedi molto alterato. Adunque il velo ti darà, quanto dissi, non poca utilità ove sempre a vederla sarà una medesima cosa. L’altra sarà utilità che tu potrai facile constituire i termini degli orli e delle superficie. Ove in questo paralelo vedrai il fronte, in quello e il naso, in un altro le guance, in quel di sotto il mento, e così ogni cosa distinto ne’ suoi luoghi, così tu nella tavola o in parete vedi divisa in simili paraleli, ogni cosa a punto porrai. Ultimo a te darà il velo molto [p. 56 modifica]aiuto ad imparare dipignere, quando vedrai nel velo cose ritonde e rilevate, per le quali cose assai potrai e con giudicio e con esperienza provare quanto a te sia il nostro velo utilissimo.


32.    Né io qui udirò quelli che dicano poco convenirsi al pittore usarsi a queste cose, quali bene che portino molto aiuto a bene dipignere, pure sono sì fatte che poi senza quelle potrai nulla. Non credo io dal pittore si richiegga infinita fatica, ma bene s’aspetti pittura quale molto paia rilevata e simigliata a chi ella si ritrae; qual cosa non intendo io sanza aiuto del velo alcuno mai possa. Adunque usino questa intercisione, cioè velo, qual dissi. E dove a loro piaccia provare l’ingegno suo senza velo, pure in prima notino i termini delle cose drento da’ paraleli del velo, o vero così seguitino rimirandole che sempre immaginino una linea a traverso ivi da un’altra perpendiculare essere segata, ove sia statuito quel termine. Ma perché non raro ad i pittori inesperti sono gli orli delle superficie non conosciuti, dubbi e incerti, come ne’ visi degli uomini, ove non discernono che mezzo sia tra ’l fronte e le tempie, pertanto conviensi loro insegnare in che modo possano conoscere. Questo bene ci dimostra la natura. Veggiamo nelle piane superficie che ciascuna ci si dimostra con sue linee, lumi e ombre; così ancora le sperich’e concave superficie veggiamo quasi divise in molte superficie quasi quadrate con diverse macchie di lumi e d’ombre. Pertanto ciascuna parte, con sua chiarità divisa da quella che sia oscura, si vuole avere per più superficie. Ma se una medesima superficie cominciando ombrosa a poco a poco venendo in chiaro continua, allora quello che fra loro sia il mezzo si noti con una sottilissima linea, acciò che ivi sia la ragione del colorire men dubbia.


33.    Resta da dire della circonscrizione cosa quale non poco apartiene alla composizione. Per questo si conviene sapere che sia in pittura composizione. Dico composizione essere quella ragione di [p. 58 modifica]dipignere, per la quale le parti si compongono nella opera dipinta. Grandissima opera del pittore sarà l’istoria: parte della istoria sono i corpi: parte de’ corpi sono i membri: parte de’ membri sono le superficie. E dove la circonscrizione non altro sia che certa ragione di segnare l’orlo delle superficie, poi che delle superficie alcuna si truova picciola come quella degli animali, alcuna si truova grande come quella degli edifici e de’ colossi, delle picciole superficie bastino i precetti sino a qui detti, quali dimostrano quanto s’apprendano col velo. Alle superficie maggiori ci convien trovare nuove ragioni. Ma dobbiamo ricordarci di quanto di sopra ne’ dirozzamenti dicemmo delle superficie, de’ razzi, della pirramide e della intersegazione, ancora e de’ paraleli del pavimento, e del centrico punto e linea. Nel pavimento scritto con sue linee e paraleli sono da edificare muri e simili superficie quali appellammo giacenti. Qui adunque dirò brevissimo quello che io faccio. Principio, comincio dai fondamenti. Pongo la larghezza e la lunghezza de’ muri ne’ suoi paraleli, in quale descrizione seguo la natura, in qual veggo che di niuno quadrato corpo, quale abbia retti angoli, ad uno tratto posso vedere d’intorno più che due facce congiunte. Così io questo osservo descrivendo i fondamenti dei pareti; e sempre in prima comincio dalle più prossimane superficie, massime da quelle quali equalmente sieno distanti dalla intersegazione. Queste adunque metto inanzi l’altre, descrivendo loro latitudine e longitudine in quelli paraleli del pavimento, in modo che quante io voglia occupare braccia, tanto prendo paraleli. E a ritrovare il mezzo di ciascuno paralelo truovo dove l’uno e l’altro diamitro si sega insieme, e così quanto voglio i fondamenti descrivo. Poi l’altezza seguo con ordine non difficilissimo. Conosco l’altezza del parete in sé tenere questa proporzione, che quanto sia dal luogo onde essa nasce sul pavimento per sino alla centrica linea, con quella medesima in su crescere. Onde se vorrai questa quantità dal pavimento persino alla centrica linea essere l’altezza d’uno uomo, saranno adunque queste braccia tre. Tu adunque volendo il parete tuo essere braccia dodici, tre volte tanto andrai su in alto quanto sia dalla centrica linea persino a quel luogo del pavimento. Con queste ragioni [p. 60 modifica]così possiamo disegnare tutte le superficie quali abbiano angolo.


34.    Restaci a dire in che modo si disegnino le circulari. Tragonsi le circulari delle angulari; e questo fo io così. Fo in sullo spazzo uno quadrangolo con angoli retti, e divido i lati di questo quadrangolo in parte simili a quelle parti in quale divisi la linea iacente nel primo quadrangolo della pittura; e qui da ciascuno punto al suo oposito punto tiro linee, e così rimane lo spazzo diviso in molti piccioli quadrangoli. Quivi io scrivo uno cerchio quanto il voglio grande, così che le linee de’ piccioli quadrati e la linea del circolo insieme l’una con l’altra si tagli, e noto tutti i punti di questi tagliamenti, quali luoghi segno ne’ paraleli del pavimento nella mia pittura. Ma perché sarebbe fatica estrema e quasi infinita con nuovi minori paraleli dividere il cerchio in molti luoghi, e così con molto numero di punti seguire continovando il circolo, per questo, quando io arò notato otto o più tagliamenti, segno con ingegno il mio circulo nella pittura guidando la linea da termine a termine. Forse sarebbe più brieve via corlo all’ombra? Certo sì, dove il corpo quale facesse ombra fusse in mezzo posto con sua ragione in suo luogo. Dicemmo adunque in che modo coll’aiuto de’ paraleli le superficie grandi acantonate e tonde si disegnino. Finita adunque la circunscrizione, cioè il modo del disegnare, restaci a dire della composizione. Convienci repetere che sia composizione.


35.    Composizione è quella ragione di dipignere con la quale le parti delle cose vedute si pongono insieme in pittura. Grandissima opera del pittore non uno collosso, ma istoria. Maggiore loda d’ingegno rende l’istoria che qual sia collosso. Parte della istoria sono i corpi, parte de’ corpi i membri, parte de’ membri la superficie. Le prime adunque parti del dipignere sono le [p. 62 modifica]superficie. Nasce della composizione delle superficie quella grazia ne’ corpi quale dicono bellezza. Vedesi uno viso, il quale abbia sue superficie chi grandi e chi piccole, quivi ben rilevate e qui ben drento riposto, simile al viso delle vecchierelle, questo essere in aspetto bruttissimo. Ma quelli visi s’aranno le superficie giunte in modo che piglino ombre e lumi ameni e suavi, né abbino asperitate alcuna di rilevati canti, certo diremo questi essere formosi e dilicati visi. Adunque in questa composizione di superficie molto si cerca la grazia e bellezza delle cose quale, a chi voglia seguirla, pare a me niuna più atta e più certa via che di torla dalla natura, ponendo mente in che modo la natura, maravigliosa artefice delle cose, bene abbia in be’ corpi composte le superficie. A quale imitarla, si conviene molto avervi continovo pensieri e cura, insieme e molto dilettarsi del nostro, qual di sopra dicemmo, velo. E quando vogliamo mettere in opera quanto aremo compreso dalla natura, prima sempre aremo notato i termini dove tiriamo ad uno certo luogo nostre linee.


36.    Sino a qui detto della composizione delle superficie. Seguita de’ membri. Conviensi in prima dare opera che tutti i membri bene convengano. Converranno quando e di grandezza e d’offizio e di spezie e di colore e d’altre simili cose corrisponderanno ad una bellezza: ché se fusse in una dipintura il capo grandissimo e il petto piccolo, la mano ampia e il piè enfiato, il corpo gonfiato, questa composizione certo sarebbe brutta a vederla. Adunque conviensi tenere certa ragione circa alla grandezza de’ membri, in quale commensurazione gioverà prima allogare ciascuno osso dell’animale, poi apresso agiungere i suoi muscoli, di poi tutto vestirlo di sue carne. Ma qui sarà chi mi contraponga quanto di sopra dissi, che al pittore nulla s’apartiene delle cose quali non vede. Ben ramentano costoro, ma come a vestire l’uomo prima si disegna ignudo, poi il circondiamo di panni, così dipignendo il nudo, prima pogniamo sue ossa e muscoli, quali poi così copriamo con sue carni che non sia difficile intendere ove sotto sia ciascuno moscolo. E poi che la natura ci ha porto in mezzo le misure, ove si truova non poca utilità a riconoscerle dalla [p. 64 modifica]natura, ivi adunque piglino gli studiosi pittori questa fatica, per tanto tenere a mente quello che piglino dalla natura, quanto a riconoscerle aranno posto suo studio e opera. Una cosa ramento, che a bene misurare uno animante si pigli uno quale che suo membro col quale gli altri si misurino. Vitruvio architetto misurava la lunghezza dell’omo coi piedi. A me pare cosa più degna l’altre membra si riferiscano al capo, benché ho posto mente quasi comune in tutti gli uomini che il piede tanto è lungo quanto dal mento al cocuzzolo del capo.


37.    Così adunque, preso uno membro, si accommodi ogni altro membro in modo che niuno di loro sia non conveniente agli altri in lunghezza e in larghezza. Poi si provegga che ciascuno membro segua, a quello che ivi si fa, al suo officio. Sta bene a chi corre non meno gittare le mani che i piedi; ma voglio un filosafo, mentre che favella, dimostri molto più modestia che arte di schermire. Lodasi una storia in Roma nella quale Meleagro morto, portato, aggrava quelli che portano il peso, e in sé pare in ogni suo membro ben morto ogni cosa pende, mani, dito e capo; ogni cosa cade languido; ciò che ve si dà ad espriemere uno corpo morto, qual cosa certo è difficilissima, però che in uno corpo chi saprà fingere ciascuno membro ozioso, sarà ottimo artefice. Così adunque in ogni pittura si osservi che ciascuno membro faccia il suo officio, che niuno per minimo articolo che sia, resti ozioso. E sieno le membra de’ morti sino all’unghie morte. Dei vivi sia ogni minima parte viva. Dicesi vivere il corpo quando a sua posta abbia certo movimento: dicesi morte dove i membri non più possono portare gli offici della vita, cioè movimento e sentimento. Adunque il pittore, volendo espriemere nelle cose vita, farà ogni sua parte in moto; ma in ciascuno moto terrà venustà e grazia. Sono [p. 66 modifica]gratissimi i movimenti e ben vivaci quelli e’ quali si muovano in alto verso l’aere. Dicemmo ancora alla composizione de’ membri doversi certa spezie: e sarebbe cosa assurda se le mani di Elena o di Efigenia fussero vecchizze e zotiche, o se in Nestor fusse il petto tenero e il collo dilicato, o se a Ganimede fusse la fronte crespa o le coscie d’un facchino, o se a Milone, fra gli altri gagliardissimo, fusseno i fianchi magrolini e sottiluzzi. E ancora in quella figura, in quale fusse il viso fresco e lattoso, sarebbe sozzo soggiungervi le braccia e le mani secche per magrezza. Così chi dipignesse Acamenide, trovato da Enea in su quell’isola con quella faccia quale Virgilio il descrive, non seguendo gli altri membri a tanta tisichezza, sarebbe pittore da farsene beffe. Pertanto così conviene tutte le membra condicano ad una spezie. E ancora voglio le membra corrispondano ad uno colore, però che a chi avesse il viso rosato, candido e venusto, a costui poco s’affarebbe il petto e l’altre membra brutte e sucide.


38.    Adunque nella composizione de’ membri dobbiamo seguire quanto dissi della grandezza, officio, spezie e colori. Poi apresso ogni cosa seguiti ad una dignità. Sarebbe cosa non conveniente vestire Venere o Minerva con uno capperone da saccomanno: simile sarebbe vestire Marte o Giove con una vesta di femmina. Curavano gli antiqui dipintori, dipignendo Castor e Poluce, fare che paressero fratelli, ma nell’uno apparesse natura pugnace, nell’altro agilità. Facevano ancora che a Vulcano sotto la vesta parea il suo vizio di zopicare, tanto era in loro studio espriemere officio, spezie e dignità a qualunque cosa dipignessero.


39.    Seguita la composizione de’ corpi, nella quale ogni lode e ingegno del pittore consiste. Alla quale composizione certe cose [p. 68 modifica]dette nella composizione de’ membri qui s’apartengono. Conviensi che i corpi insieme si confacciano in istoria con grandezza e con adoperarsi. Chi dipignesse centauri far briga apresso la cena, sarebbe cosa innetta in tanto tumulto che alcuno carico di vino stesse adormentato. E sarebbe vizio se in pari distanza l’uno fusse più che l’altro maggiore, o se ivi fussero e’ cani equali ai cavalli, overo se, quello che spesse volte veggo, ivi fusse uomo alcuno nello edificio quasi come in uno scrigno inchiuso, dove apena sedendo vi si assetti. Adunque tutti i corpi per grandezza e suo officio s’aconfaranno a quello che ivi nella storia si facci.


40.    Sarà la storia, qual tu possa lodare e maravigliare, tale che con sue piacevolezze si porgerà sì ornata e grata, che ella terrà con diletto e movimento d’animo qualunque dotto o indotto la miri. Quello che prima dà voluttà nella istoria viene dalla copia e varietà delle cose. Come ne’ cibi e nella musica sempre la novità e abondanza tanto piace quanto sia differente dalle cose antique e consuete, così l’animo si diletta d’ogni copia e varietà. Per questo in pittura la copia e varietà piace. Dirò io quella istoria essere copiosissima in quale a’ suo luoghi sieno permisti vecchi, giovani, fanciulli, donne, fanciulle, fanciullini, polli, catellini, uccellini, cavalli, pecore, edifici, province, e tutte simili cose: e loderò io qualunque copia quale s’apartenga a quella istoria. E interviene, dove chi guarda soprasta rimirando tutte le cose, ivi la copia del pittore acquisti molta grazia. Ma vorrei io questa copia essere ornata di certa varietà, ancora moderata e grave di dignità e verecundia. Biasimo io quelli pittori quali, dove vogliono parere copiosi nulla lassando vacuo, ivi non composizione, ma dissoluta confusione disseminano; pertanto non pare la storia facci qualche cosa degna, ma sia in tumulto aviluppata. E forse chi molto cercherà dignità in sua storia, a costui piacerà la solitudine. Suole ad i prencipi la carestia delle parole tenere maestà, dove fanno intendere suoi precetti. Così in istoria uno certo competente numero di corpi rende non poca dignità. Dispiacemi la solitudine in istoria, pure né però laudo copia alcuna quale sia sanza dignità. Ma in ogni storia la varietà sempre fu ioconda, e in prima sempre fu grata quella pittura in quale sieno i corpi con [p. 70 modifica]suoi posari molto dissimili. Ivi adunque stieno alcuni ritti e mostrino tutta la faccia, con le mani in alto e con le dita liete, fermi in su un piè. Agli altri sia il viso contrario e le braccia remisse, coi piedi agiunti. E così a ciascuno sia suo atto e flessione di membra: altri segga, altri si posi su un ginocchio, altri giacciano. E se così ivi sia licito, sievi alcuno ignudo, e alcuni parte nudi e parte vestiti, ma sempre si serva alla vergogna e alla pudicizia. Le parti brutte a vedere del corpo, e l’altre simili quali porgono poca grazia, si cuoprano col panno, con qualche fronde o con la mano. Dipignevano gli antiqui l’immagine d’Antigono solo da quella parte del viso ove non era mancamento dell’occhio. E dicono che a Pericle era suo capo lungo e brutto, e per questo dai pittori e dagli scultori, non come gli altri era col capo nudo, ma col capo armato ritratto. E dice Plutarco gli antiqui pittori, dipignendo i re, se in loro era qualche vizio, non volerlo però essere non notato, ma quanto potevano, servando la similitudine, lo emendavano. Così adunque desidero in ogni storia servarsi quanto dissi modestia e verecundia, e così sforzarsi che in niuno sia un medesimo gesto o posamento che nell’altro.


41.    Poi moverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno suo propio movimento d’animo. Interviene da natura, quale nulla più che lei si truova rapace di cose a sé simile, che piagniamo con chi piange, e ridiamo con chi ride, e doglianci con chi si duole. Ma questi movimenti d’animo si conoscono dai movimenti del corpo. E veggiamo quanto uno atristito, perché la cura estrigne e il pensiero l’assedia, stanno con [p. 72 modifica]sue forze e sentimenti quasi balordi, tenendo sé stessi lenti e pigri in sue membra palide e malsostenute. Vedrai a chi sia malinconico il fronte premuto, la cervice languida, al tutto ogni suo membro quasi stracco e negletto cade. Vero, a chi sia irato, perché l’ira incita l’animo, però gonfia di stizza negli occhi e nel viso, e incendesi di colore, e ogni suo membro, quanto il furore, tanto ardito si getta. Agli uomini lieti e gioiosi sono i movimenti liberi e con certe inflessioni grati. Dicono che Aristide tebano equale ad Appelle molto conoscea questi movimenti, quali certo e noi conosceremo quando a conoscerli porremo studio e diligenza.


42.    Così adunque conviene sieno ai pittori notissimi tutti i movimenti del corpo, quali bene impareranno dalla natura, bene che sia cosa difficile imitare i molti movimenti dello animo. E chi mai credesse, se non provando, tanto essere difficile, volendo dipignere uno viso che rida, schifare di non lo fare piuttosto piangioso che lieto? E ancora chi mai potesse senza grandissimo studio espriemere visi nei quale la bocca, il mento, gli occhi, le guance, il fronte, i cigli, tutti ad uno ridere o piangere convengono? Per questo molto conviensi impararli dalla natura, e sempre seguire cose molto pronte e quali lassino da pensare a chi le guarda molto più che egli non vede. Ma che noi racontiamo alcune cose di questi movimenti, quali parte fabbricammo con nostro ingegno, parte imparammo dalla natura. Parmi in prima tutti e’ corpi a quello si debbano muovere a che sia ordinata la storia. E piacemi sia nella storia chi ammonisca e insegni a noi quello che ivi si facci, o chiami con la mano a vedere, o con viso cruccioso e con gli occhi turbati minacci che niuno verso loro vada, o dimostri qualche pericolo o cosa ivi maravigliosa, o te inviti a piagnere con loro insieme o a ridere. E così qualunque cosa fra loro o teco facciano [p. 74 modifica]i dipinti, tutto apartenga a ornare o a insegnarti la storia. Lodasi Timantes di Cipri in quella tavola in quale egli vinse Colocentrio, che nella imolazione di Efigenia, avendo finto Calcante mesto, Ulisse più mesto, e in Menelao poi avesse consunto ogni suo arte a molto mostrarlo adolorato, non avendo in che modo mostrare la tristezza del padre, a lui avolse uno panno al capo, e così lassò si pensasse qual non si vedea suo acerbissimo merore. Lodasi la nave dipinta a Roma, in quale el nostro toscano dipintore Giotto pose undici discepoli tutti commossi da paura vedendo uno de’ suoi compagni passeggiare sopra l’acqua, ché ivi espresse ciascuno con suo viso e gesto porgere suo certo indizio d’animo turbato, tale che in ciascuno erano suoi diversi movimenti e stati. Ma piacemi brevissimo passare tutto questo luogo de’ movimenti.


43.    Sono alcuni movimenti d’animo detti affezione, come ira, dolore, gaudio e timore, desiderio e simili. Altri sono movimenti de’ corpi. Muovonsi i corpi in più modi, crescendo, discrescendo, infermandosi, guarendo e mutandosi da luogo a luogo. Ma noi dipintori, i quali vogliamo coi movimenti delle membra mostrare i movimenti dell’animo, solo riferiamo di quel movimento si fa mutando el luogo. Qualunque cosa si muove da luogo può fare sette vie: in su, uno; in giù, l’altro; in destra, il terzo; in sinistra, il quarto; colà lunge movendosi di qui, o di là venendo in qua; il settimo, andando attorno. Questi adunque tutti movimenti desidero io essere in pittura. Sianvi corpi alcuni quali si porgano verso noi, alcuni si porgano in qua verso e in là, e d’uno medesimo alcune parti si dimostrino a chi guarda, alcune si retriano, alcune stieno alte, e alcune basse. Ma perché talora in questi movimenti si truova chi passa ogni ragione, mi piace qui de’ posari e de’ movimenti raccontare alcune cose quali ho raccolte dalla natura, onde bene intenderemo con che moderazione si debbano usare. Posi mente come l’uomo in ogni suo posare sottostatuisca tutto il corpo a sostenere il capo, membro fra gli altri gravissimo, e [p. 76 modifica]posandosi in uno piè sempre ferma il piè perpendiculare sotto il capo quasi come base d’una colonna, e quasi sempre di chi stia diritto il viso si porge dove si dirizzi il piè. I movimenti del capo veggo quasi sempre essere tale che sotto a sé hanno qualche parte del corpo a sostenerlo, tanto è grande peso quello del capo; overo certo in contraria parte quasi come stile d’una bilancia distende uno membro quale corrisponda al peso del capo. E veggiamo che chi sul braccio disteso sostiene uno peso fermando il piè quasi come ago di bilancia, tutta l’altra parte del corpo si contraponga a contrapesare il peso. Parmi ancora che, alzando il capo, niuno più porga la faccia in alto se non quanto vegga in mezzo il cielo, né in lato alcuno più si volge il viso se non quanto il mento tocchi la spalla; in quella parte del corpo ove ti cigni, quasi mai tanto ti torci che la punta della spalla sia perpendiculare sopra il bellico. I movimenti delle gambe e delle braccia sono molto liberi, ma non vorrei io coprissero alcuna degna e onesta parte del corpo. E veggo dalla natura quasi mai le mani levarsi sopra il capo, né le gomita sopra la spalla, né sopra il ginocchio il piede, né tra uno piè ad un altro essere più spazio che d’uno solo piede. E posi mente distendendo in alto una mano, che persino al piede tutta quella parte del corpo la sussegua tale che il calcagno medesimo del piè si leva dal pavimento.


44.    Simile molte cose uno diligente artefice da sé a sé noterà; e forse quali dissi cose tanto sono in pronto che paiono superflue recitare. Ma perché veggio non pochi in quelle errare, parsemi da non tacerle. Truovasi chi esprimendo movimenti troppo arditi, e in una medesima figura facendo che ad un tratto si vede il petto e le reni, cosa impossibile e non condicente, credono essere lodati, perché odono quelle immagini molto parer vive quali molto gettino ogni suo membro, e per questo in loro figure fanno parerle [p. 78 modifica]schermidori e istrioni senza alcuna degnità di pittura, onde non solo sono senza grazia e dolcezza, ma più ancora mostrano l’ingegno dell’artefice troppo fervente e furioso. E conviensi alla pittura avere movimenti soavi e grati, convenienti a quello ivi si facci. Siano alle vergini movimenti e posari ariosi, pieni di semplicità, in quali piuttosto sia dolcezza di quiete che gagliardia, bene che ad Omero, quale seguitò Zeosis, piacque la forma fatticcia persino in le femine. Siano i movimenti ai garzonetti leggieri, iocondi, con una certa demostrazione di grande animo e buone forze. Sia nell’uomo movimenti con più fermezza ornati con belli posari e artificiosi. Sia ad i vecchi loro movimenti e posari stracchi: non solo in su due piè, ma ancora si sostenghino sulle mani. E così a ciascuno con dignità siano i suoi movimenti del corpo ad espriemere qual vuoi movimento d’animo; e delle grandissime perturbazione dell’animo, simile sieno grandissimi movimenti delle membra. E questa ragione dei movimenti comune si osservi in tutti gli animanti. Già non si aconfà ad uno bue aratore darli que’ movimenti quali daresti a Bucefalas, gagliardissimo cavallo d’Alessandro. Forse facendo Io, quale fu conversa in vacca, correre colla coda ritta, rintorcigliata, col collo erto, coi piè levati, sarebbe atta pittura.


45.    Basti così avere discorso il movimento degli animanti. Ora, poi che ancora le cose non animate si muovono in tutti quelli modi quali di sopra dicemmo, adunque e di queste diremo. Dilettano nei capelli, nei crini, ne’ rami, frondi e veste vedere qualche movimento. Quanto certo a me piace ne’ capelli vedere quale io dissi sette movimenti: volgansi in uno giro quasi volendo anodarsi, e ondeggino in aria simile alle fiamme; parte quasi come serpe si tessano fra gli altri, parte crescendo in qua e parte in là; così i rami ora in alto si torcano, ora in giù, ora in fuori, ora in dentro, parte si contorcano come funi. Medesimo ancora le pieghe facciano, e nascano le pieghe come al tronco dell’albero i suo rami. In questo adunque si seguano tutti i movimenti tale che parte niuna del panno sia senza vacuo movimento. Ma siano, quanto spesso ricordo, i movimenti moderati e dolci, più tosto quali [p. 80 modifica]porgano grazia a chi miri che maraviglia di fatica alcuna. Ma dove così vogliamo ad i panni suoi movimenti, sendo i panni di natura gravi e continuo cadendo a terra, per questo starà bene in la pittura porvi la faccia del vento zeffiro o austro che soffi tra le nuvole, onde i panni ventoleggino; e quinci verrà a quella grazia che i corpi da questa parte percossi dal vento, sotto i panni in buona parte mostreranno il nudo, dall’altra parte i panni gittati dal vento dolce voleranno per aria. E in questo ventoleggiare guardi il pittore non ispiegare alcuno panno contro il vento; e così tutto osservi quanto dicemmo de’ movimenti degli animali e delle cose non animate. Ancora con diligenza séguiti quanto racontammo della composizione delle superficie, de’ membri e de’ corpi.


46.    Resta a dire del ricevere de’ lumi. Ne’ dirozzamenti di sopra assai dimostrammo quanto i lumi abbiano forza a variare i colori, ché insegnammo come istando uno medesimo colore, secondo il lume e l’ombra che riceve altera sua veduta: e dicemmo che ’l bianco e ’l nero al pittore esprimea l’ombra e il chiarore, tutti gli altri colori essere al pittore come materia a quale aggiugnesse più o meno ombra o lume. Adunque lassando l’altre cose, qui solo resta a dire in che modo abbia il pittore usare suo bianco e nero. Dicono che gli antiqui pittori Polignoto e Timante usavano solo colori quattro, e Aglaofon si maravigliano si dilettasse dipignere in uno solo semplice colore, quasi come fusse poco in quanto estimavano grandissimo numero di colori, se quegli ottimi dipintori avessero eletti quelli pochi, e ad uno copioso artefice credeano convenirsi tutta la moltitudine de’ colori. Certo affermo che alla grazia e lode della pittura la copia e varietà de’ colori molto giova. Ma voglio così estimino i dotti, che tutta la somma industria e arte sta in sapere usare il bianco e ’l nero, e in ben sapere usare questi due conviensi porre tutto lo studio e [p. 82 modifica]diligenza. Però che il lume e l’ombra fanno parere le cose rilevate, così il bianco e ’l nero fa le cose dipinte parere rilevate, e dà quella lode quale si dava a Nitia pittore ateniese. Dicono che Zeusis, antiquissimo e famosissimo dipintore, fu quasi prencipe degli altri in conoscere la forza de’ lumi e dell’ombre: agli altri poco fu data simile loda. Ma io quasi mai estimerò mezzano dipintore quello quale non bene intenda che forza ogni lume e ombra tenga in ogni superficie. Io, coi dotti e non dotti, loderò quelli visi quali come scolpiti parranno uscire fuori della tavola, e biasimerò quelli visi in quali vegga arte niuna altra che solo forse nel disegno. Vorrei io un buono disegno ad una buona composizione bene essere colorato. Così adunque in prima studino circa i lumi e circa all’ombre, e pongano mente come quella superficie più che l’altra sia chiara in quale feriscano i razzi del lume, e come, dove manca la forza del lume, quel medesimo colore diventa fusco. E notino che sempre contro al lume dall’altra parte corrisponda l’ombra, tale che in corpo niuno sarà parte alcuna luminata, a cui non sia altra parte diversa oscura. Ma quanto ad imitare il chiarore col bianco e l’ombra col nero, ammonisco molto abbino studio a conoscere distinte superficie, quanto ciascuna sia coperta di lume o d’ombra. Questo assai da te comprenderai dalla natura; e quando bene le conoscerai, ivi con molta avarizia, dove bisogni, comincerai a porvi il bianco, e subito contrario ove bisogni il nero, però che con questo bilanciare il bianco col nero molto si scorge quanto le cose si rilievino. E così pure con avarizia a poco a poco seguirai acrescendo più bianco e più nero quanto basti. E saratti a ciò conoscere buono giudice lo specchio, né so come le cose ben dipinte molto abbino nello specchio grazia: cosa maravigliosa come ogni vizio della pittura si manifesti diforme nello specchio. Adunque le cose prese dalla natura si emendino collo specchio. [p. 84 modifica]


47.    Qui vero raccontiamo cose quali imparammo dalla natura. Posi mente che alla superficie piana in ogni suo luogo sta il colore uniforme; nelle superficie cave e sperice piglia il colore variazione, però ch’è qui chiaro, ivi oscuro, in altro luogo mezzo colore. Questa alterazione de’ colori inganna gli sciocchi pittori, quali se, come dicemmo, bene avessono disegnato gli orli delle superficie, sentirebbono facile il porvi i lumi. Così farebbono: prima quasi come leggerissima rugiada per infino all’orlo coprirebbono la superficie di qual bisognasse bianco o nero; di poi sopra a questa un’altra, e poi un’altra; e così a poco a poco farebbono che dove fusse più lume, ivi più bianco da torno, mancando il lume, il bianco si perderebbe quasi in fummo. E simile contrario farebbero del nero. Ma ramentisi mai fare bianca alcuna superficie tanto che ancora non possa farla vie più bianca. Se bene vestissi di panni candidissimi, convienti fermare molto più giù che l’ultima bianchezza. Truova il pittore cosa niuna altro che ’l bianco con quale dimostri l’ultimo lustro d’una forbitissima spada, e solo il nero a dimostrare l’ultime tenebre della notte. E vedesi forza in ben comporre bianco presso a nero, che vasi per questo paiano d’argento, d’oro e di vetro, e paiono dipinti risplendere. Per questo molto si biasimi ciascuno pittore il quale senza molto modo usi bianco o nero. Piacerebbemi apresso de’ pittori il bianco si vendesse più che le preziosissime gemme caro. Sarebbe certo utile il bianco e nero si facesse di quelle grossissime perle quale Cleopatra distruggeva in aceto, ché ne sarebbono quanto debbono avari e massai, e sarebbero loro opere più al vero dolci e vezzose. Né si può dire quanto di questi si convenga masserizia al dipintore. E se pure in distribuirli peccano, meno si riprenda chi adoperi molto nero, che chi non bene distende il bianco. Di dì in dì fa la natura che ti viene in odio le cose orride e oscure; e quanto più facendo impari, tanto più la mano si fa dilicata a vezzosa grazia. Certo da natura amiamo le cose aperte e chiare. Adunque più si chiuda la via quale più stia facile a peccare. [p. 86 modifica]


48.    Detto del bianco e nero, diremo degli altri colori, non come Vitruvio architetto in che luogo nasca ciascuno ottimo e ben provato colore; ma diremo in che modo i colori ben triti s’adoperino in pittura. Dicono che Eufranor, antiquissimo dipintore, scrisse non so che de’ colori: non si truova oggi. Noi vero, i quali, se mai da altri fu scritta, abbiamo cavata quest’arte di sotterra, o se non mai fu scritta, l’abbiamo tratta di cielo, seguiamo quanto sino a qui facemmo con nostro ingegno. Vorrei nella pittura si vedessero tutti i generi e ciascuna sua spezie con molto diletto e grazia a rimirarla. Sarà ivi grazia quando l’uno colore apresso, molto sarà dall’altro differente; che se dipignerai Diana guidi il coro, sia a questa ninfa panni verdi, a quella bianchi, all’altra rosati, all’altra crocei, e così a ciascuna diversi colori, tale che sempre i chiari sieno presso ad altri diversi colori oscuri. Sarà per questa comparazione ivi la bellezza de’ colori più chiara e più leggiadra. E truovasi certa amicizia de’ colori, che l’uno giunto con l’altro li porge dignità e grazia. Il colore rosato presso al verde e al cilestro si danno insieme onore e vista. Il colore bianco non solo appresso il cenericcio e appresso il croceo, ma quasi presso a tutti posto, porge letizia. I colori oscuri stanno fra i chiari non sanza alcuna dignità, e così i chiari bene s’avolgano fra gli oscuri. Così adunque, quanto dissi, il pittore disporrà suo colori. [p. 88 modifica]


49.    Truovasi chi adopera molto in sue storie oro, che stima porga maestà. Non lo lodo. E benché dipignesse quella Didone di Virgilio, a cui era la faretra d’oro, i capelli aurei nodati in oro, e la veste purpurea cinta pur d’oro, i freni al cavallo e ogni cosa d’oro, non però ivi vorrei punto adoperassi oro, però che nei colori imitando i razzi dell’oro sta più ammirazione e lode all’artefice. E ancora veggiamo in una piana tavola alcune superficie ove sia l’oro, quando deono essere oscure risplendere, e quando deono essere chiare parere nere. Dico bene che gli altri fabrili ornamenti giunti alla pittura, qual sono colunne scolpite, base, capitelli e frontispici, non li biasimerò se ben fussero d’oro purissimo e massiccio. Anzi più una ben perfetta storia merita ornamenti di gemme preziosissime.


50.    Sino a qui dicemmo brevissime di tre parti della pittura. Dicemmo della circonscrizione delle minori e maggiori superficie. Dicemmo della composizione delle superficie, membri e corpi. Dicemmo de’ colori quanto all’uso del pittore estimammo s’apartenesse. Adunque così esponemmo tutta la pittura, quale dicemmo stava in queste tre cose: circonscrizione, composizione e ricevere di lumi.

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