Delle speranze d'Italia/Capo VIII

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Capo VIII

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CAPO OTTAVO.

eventualità future dell’impresa


1. Siami lecito domandare qui a’ miei leggitori un raddoppiamento di tolleranza. Io sono per dir verità o che almeno mi paiono tali, più ingrate forse che non le dette; per eliminare speranze più care forse che non le eliminate finora. Ma le. verità ingrate sogliono essere le meno dette, epperciò le più utili a dire: e non è se non coll’eliminazione delle speranze false, che si può giungere al risultato delle vere. Conscio io di dispiacere a molti, forse ai più (terribil pensiero) de’ miei compatriotti, non ne avrei probabilmente il coraggio, se credessi di poter mai giovar loro coll’opere, se temessi troncarmivi la via colle parole. Ma non potendo far loro tributo se non di queste, tant’è ch’io il faccia tutt’intiero.

2. Quando si parla di futuro, ei ne sono a distinguer due. Uno lontano, separato dal presente [p. 100 modifica]per una serie indeterminata di tempi e di fatti, e che si può quindi chiamare futuro imprevedibile. E questo è quello di che abusano i sognatori, tutti coloro che immaginano cose nuove impossibili ad effettuarsi, o cose antiche impossibili a restaurarsi. Non serve dimostrare a costoro le improbabilità. Con ostinatezza che scambiano per costanza ei ti rispondono sempre i medesimi «chi sa? Verrà un giorno. Non bisogna disperare». Non è da discorrer con costoro, nè con nessuno del futuro imprevedibile. Nè è per tal futuro o per le poche speranze implicate in esso che si vuole adempiere niun dovere; ma per il dovere nudo, avvengane che può. Quando l'impresa d'indipendenza durata XIII secoli avesse a durarne altri XIII, o XXVI, o infiniti, senza compiersi, ella dovrebbe pur proseguirsi senza speranza; perchè dovere d'ogni nazione; perchè val più una nazione che prosegua quell'impresa tra una servitù interminabile, che non una che alla servitù si adatti, che se ne consoli. E detto ciò a tal nazione sarebbe detto tutto.

3. Ma ei vi ha detto, grazie al Cielo, un altro futuro, un futuro prevedibile per l'Italia. Il quale è per vero dire incerto, anch'esso, come è ad ogni uomo ogni ora, ogni momento, oltre il presente, ma a cui più o meno vicino arrivano pure le conseguenze dei fatti presenti, arrivano le deduzioni [p. 101 modifica]che se ne posson trarre, arriva la previdenza umana. E di questo non è vero, come dicono alcuni storici impuntati sul passato od alcuni pratici impuntati sul presente, che non si possa parlare. Si può, si deve, e si fa continuamente da tutti gli uomini di pratica che sanno governar gli affari umani e non lasciarsene governare; si fa da molti grandi ed anche piccoli scrittori; si fa quotidianamente da numerosissimi scrittori quotidiani; e quando si fa colla pretensione non di prononciar profezie, ma di discutere probabilità, si fa bene o male ma legittimamente da ciascuno. Dicemmo gloria del Gioberti l'aver primo forse discorso in tal modo di questo nostro futuro prevedibile. E di questo solo e in tal modo intendiamo discorrere anche noi; restringendoci anzi a ciò che tocca all'indipendenza, alle eventualità della antica impresa italiana.

4. Incominceremo colle solite e pompose frasi. Sappiamo anche noi, che una nazione di 23 milioni d'uomini che voglia liberarsi, si libererebbe quando avesse contra sè l'universo mondo. Sappiamo, che una tal nazione piò mettere in campo uno, due, tre milioni di combattenti, e che il mondo moderno non può nè vuole metterne contra essa la metà altretanti. E sappiamo, che quando fosse all'opposto, quando stessero mezzo milione od anche meno di combattenti [p. 102 modifica]per l'indipendenza, e de o tre milioni di combattenti all'incontro, la vittoria non sarebbe dubbia; perchè la virtù d'una causa contò sempre molto, ed ora conta forse tutto; e se non su un campo di battaglia, certo su un campo di guerra, fa all'ultimo valer per dieci ogni difensor della causa virtuosa, riduce a un decimo del valor suo naturale ogni difensor della cattiva. - Ma qui sta il punto, qui la difficoltà: unire in campo quelle poche centinaia di migliaia di combattenti, unire all'impresa la nazione intiera. La difficoltà mi par grave; e valer la pena d'esser esaminata adagio, e facendo tutti i casi.

5. L'unione all'impresa d'indipendenza, ci pare non poter venire se non: I.° o spontaneamente dai principi italiani, 2.° o spontaneamente da una sollevazione nazionale, 3.° o per mezzo di una chiamata di nuovi stranieri, 4.° ovvero finalmente per qualche occasione che si afferrasse meglio che non fu fatto finora. Sono quattro speranze, o disegni. Esaminiamole ad una ad una.

6. SPERANZA I.a - DAI PRINCIPI. Questi non si possono unire se non o per mezzo di una confederazione che avessero già stretta, in che continuassero, e che volgessero allo scopo speciale dell'indipendenza; ovvero per una che facessero apposta. - Ma la prima, già difficile per sè come dicemmo, sarebbe impossibile poi a rivolgere allo [p. 103 modifica]scopo d'indipendenza. Quand'anche i Principi italiani fossero stati da tanto, di far la confederazione continua senza lo straniero (come vorebb'essere naturalmente per poterla rivolgere contra lui), e questo fosse stato così dappoco da lasciarla fare, egli è poi più che mai improbabile che fossero quelli tanto dappiù, e questo tanto dammeno che si potesse fare quel rivolgimento. Il timor del quale è quello appunto che non lascerà far mai la confederazione continua, quantunque innocua in apparenza. - E quanto poi a far d'un colpo, partendo dal nulla, una lega d'indipendenza, ella può ben succeder nel futuro imprevedibile, ma non in niuno di che io sappia prevedere o discorrere. In fondo ad ogni pensiero di confederazione per l'indipendenza, è sempre un circolo vizioso: la confederazione per l'indipendenza non si può fare, o almeno non si può sperare che si faccia, se non coll'indipendenza. Questa speranza mi sembra poco da valutare per sè stessa indipendentemente dall'altre. Dato che i sei o sette Principi italiani facciano mai una lega per l'indipendenza, ei non la faranno se non aiutati da' popoli o dagli stranieri o da una occasione, o da tutto insieme. Ondechè all'ultimo le speranze da considerare sono le tre rimanenti.

7. Vengo dunque alla SPERANZA II.a - DA UNA SOLLEVAZIONE NAZIONALE. Ma io penso, che nessuno [p. 104 modifica]mi vorrà udir discorrere d'una sollevazione che si facesse per un moto spontaneo e concorde da Susa a Reggio. L'accordo dei 23 milioni d'uomini sarebbe più impossibile che non quello de' sei Principi. Questi moti spontanei non si sono veduti guari in niuna gran nazione, o tutt'al più in conseguenza di qualche atto immane di tirannia che unisse tutti gli animi in uno sdegno1; due casi diversi dai nostri prevedibili. Nè potrebb'essere il caso di quel modo di sollevazione recentemente inventato o perfezionato in Irlanda e chiamato per agitazione. Qual che abbia ad essere il frutto di questo modo, ei non può usarsi se non in paesi già molto liberi, e in che si voglia più libertà o indipendenza; ma in quelli così tenuti che v'è difficile ogni menomo movimento, è impossibile il movimento massimo dell'agitazione. - Quanto alle sollevazioni non universali, ma d'una città od anche di uno intiero degli Stati italiani, ho io bisogno di [p. 105 modifica]ridire che elle sono un nulla, o peggio che nulla allo scopo unico, alla indipendenza nazionale? di rammentare gli sperimenti fattine? o fermarmi a dimostrare che il frutto delle imitazioni sarebbe simile a quello degli esempi? Che sarebbe frutto di dipendenze vecchie accresciute, e di nuove aggiunte? MA io farei ingiuria ad ogni lettore assennato con fermarmi a tutto ciò. - Io scrittore, avendo nel 1814 avuto l'onore d'essere presentato ad uno de' maggiori uomini di stato dell'Imperio austriaco, al dì che giunse in Parigi la nuova della sollevazione de' Milanesi (la qual fu pure diretta allo scopo unico dell'indipendenza, più che niuna delle fatte poi); e scandalezzandosi chi mi presentava ed era gran conservatore, all'udir quella sollevazione, quel tumulto popolare: «Oh! ma!», riprese l'Austriaco, «è sollevazione tutta a favore di casa d'Austria». E il detto mi s'infisse per non uscirne più mai nella mente giovanile; fu uno di quelli che la conformarono fin d'allora a queste opinioni, che vengo or vecchio promovendo. - Quanto poi a quella osservazione volgare, che anche questi moti parziali, ed anche falliti, giovano a tener vivo il fuoco sacro della libertà, risponderò brevemente (e credo basti ai sinceri) che giovano anzi a tener vivo il fuoco empio delle divisioni e delle vendette. E finisco con dire ai governanti: «Deh non [p. 106 modifica]date occasioni»; ed ai governati: “Deh non prendetele quand'anche vi son date a queste sollevazioni parziali. Dove che sia la prima, dove che resti la colpa ultima, è men colpa degli uni verso gli altri, che non verso la patria comune e straziata”. - Ma se la sollevazione universale contro agli stranieri è poco men che impossibile, ed una parziale è nociva, ei ci resta ad esaminare se non sarebbe il caso poi di una sollevazione generale, che si preparasse e facesse con quelle congiure o società segrete, che son tutt'uno comunque si chiamino, e qual che sia vessillo esse innalzino. E di queste poi non mi fermerò a dire tutte le bruttezze; non prenderò a mostrare che l'essenza loro, il segreto accettato prima di conoscerlo, l'obbedienza a un capo ignoto, la tendenza a un ignoto scopo, sono servitù moralmente peggiori di gran lunga che non qualunque servitù anche allo straniero; che a tenere e promuovere tali segreti, la dissimulazione si volge necessariamente in simulazioni, inganni e tradimenti; che non solo la bontà dello scopo non iscusa la malvagità de' mezzi, ma questa deturpa e perde quella, dichiarandone l'impostura, e che quindi quanto è più legittimo e santo uno scopo, tanto più son condannabili ed empi i cattivi mezzi; tutto ciò è chiaro a chi esamini la quistione di moralità. - Ma perchè sono e saran sempre [p. 107 modifica]molti che non esaminano se non la quistione di utilità, a questa dunque ci fermeremo. E diciamo risolutamente, che le congiure sono il mezzo meno utile, di men probabile riuscita in qualunque impresa di una grande nazione. Le congiure non riuscirono guari mai, se non di pochi e contro a pochi. Se son di molti suol mancare in alcuni o la segretezza o la temerità parimente necessarie. Se sono contro a molti suol rimanere ad alcuni la potenza d'impedire la riuscita. E quindi le congiure riuscirono ne' serragli dei Despoti asiatici, ne' palazzi degli Imperatori romani, degli Autocrati russi, e de' tiranni del medio evo, dove tolto di mezzo uno o due uomini era mutato tutto. E riuscirono per la medesima ragione talora nelle repubblichette antiche o del medio evo, che erano in mano a pochi cittadini. Ma negli Stati grandi e civili, sieno più o men liberi, più o men pure monarchie, le congiure poterono riuscir sì ad una scelleratezza od a un ammazzamento, ma non allo scopo di mutare lo Stato; perchè l'ordine dello Stato non vi dipende in realtà da un sol uomo, ma da molti, dall'abito, dall'opinione universale. Noi dicemmo le sollevazioni difficili; ma le congiure son molto più; e molte che han nome di congiure non furono se non sollevazioni. È naturale i perdenti non confessino queste, perchè il confessarle implicherebbe confessione d'es[p. 108 modifica]sere stati o tanto scellerati da darne causa, o tanto sciocchi da non vederne i segni che sogliono esser pubblici; mentre il dirle congiure li scusa da tirannia e da sciocchezza tutto insieme. E così è che quanto più si studia storie, tanto meno congiure si trovano; e le trovate, si trovano essere state poco men che inutili al fatto già compiuto dalle sollevazioni. A ciò son ridotte quelle due famose del Rutli e di Giovanni da Procida2. Del resto, quando si volesser vedere nelle storie più congiure riuscite che non se so vedere io, tale riuscita si è fatta e si fa più difficile ogni dì nella crescente civiltà. È parte importante e bellissima del progresso presente, che l'arte della difesa dello Stato sia progredita più che non quella dell'offesa. E il vero è, che fra tante congiure minacciate, temute, apparecchiate, rotte, scoperte, sve[p. 109 modifica]late od anche momentaneamente riuscite ai nostri dì, due sole si possono dire essere state vere congiure ed essere riuscite a vero e durevole effetto: quella di Germania contro a Napoleone e quella dell'esercito spagnuolo contro a Ferdinando VII. Ma lasciando questa, perchè fu congiura d'esercito più che di nazione, ed a scopo di libertà non d'indipendenza, fermiamoci all'altra che è più citata e più somigliante a quella, di che parliamo.

8. Ma, salva la somiglianza dello scopo, io non saprei scorgere se non differenze. I.° Fosse virtù propria o di quegli anni, i Tedeschi non impacciarono lo scopo; non incominciarono dalla libertà interna quando mancava loro la esterna. All'incontro è vizio antico italiano l'abbandonare questa per quella. Soli non vi caddero i collegati di Lombardia, che presero consoli, podestà, qual che lor s'offrisse governo interno, e seppero giovarsene contro allo straniero; e perciò riescirono. Ma pochi anni appresso vedemmo già così distrarsi miseramente tutta Italia, i Guelfi stessi. E così fino al fine delle repubbliche, così ne' 25 anni francesi moderni, così ne' sollevamenti parziali d'intorno al 1820 ed al 1830. Molti di questi furono vere commedie politiche; da passare, se fosse stato possibile nelle condizioni nostre, sulle scene; ma che, innalzate all'incon[p. 110 modifica]tro della persecuzione a dignità tragica, rimangon pur troppo tanto più profferite alle future imitazioni. E questo che è gran pericolo d'ogni impresa d'indipendenza, sarebbe grandissimo poi di qualunque si facesse per congiure e società segrete; le quali per lor natura e lor forme si fanno quasi scuole, o prime prove non solamente di libertà, ma di licenza. E deh fosse vivo uno, di che mi vanto essere stato non meno amico privato che avversario politico! Il quale, duce sincero ed ardito di siffatti convegni, io invocherei volentieri a riattestare “la compagnia empia e malvagia” ch'io gli udii già lamentare. - 2.° La nazione tedesca è per tutte le sue qualità e per tutti i suoi difetti, la più propria che sia a far congiure. È grave, soda, pensierosa, d'ingegno più profondo che vario, più tenace che pronto, più ragionatore che immaginoso; è operosa ma lentissimamente, segreta, confidente, semplice di costumi. All'incontro, che che si dica da molti stranieri a vituperio o da alcuni nostri a vanto, la nazione italiana è la nazione del mondo men capace di congiure; è quella che le fece sempre men bene. Gl'ingegni vi sono pronti e mutabili, forse oltre ad ogni prontezza greca o francese; sono varii, distranetisi ad arti, lettere, scienze materiali o spirituali o miste, tutto a vicenda e talor tutto insieme. E tuttavia l'ingegno v'è men [p. 111 modifica]pronto che la fantasia, e la fantasia men che le passioni. Molto si parlò di ciò che possono e fanno gli odii e le vendette, ma non forse abbastanza di ciò che può e fa o non lascia fare l'amore in Italia. In fatto di costanza poi, noi ammirammo quella della nostra impresa d'indipendenza; ma è lamentabile l'incostanza de' mezzi tentati. Il segreto ci è antipatico; la confidenza nostra suol essere abbandono; e i tradimenti ci vengono a ciascuno, più sovente da sè stesso, che non da altri. Tutte queste non sono qualità da congiuratori certamente. E s'io non temessi di stancare colle rassegne della storia d'Italia, io ne farei una delle Congiure italiane; e mostrerei che in proporzione al gran numero degli Stati nostri noi ne facemmo meno, e peggio, che niuna altra nazione, men che Francia ed Inghilterra in particolare, i cui scrittori ce le rimproverano. - 3.° Finalmente poi e principalmente, riuscì a bene la congiura d'indipendenza tedesca per questa ragione: che lo straniero v'era non solo grave ma opprimente, non solo incomodo ma disperante, non solo usurpator di provincie ma delle sostanze e delle persone, turbator di provincie ma delle sostanze e delle persone, turbator delle famiglie, delle vite, tiranno vero. Ora, ei si sa (e fu molto bene e facondamente detto dal Gioberti) che a far buone rivoluzioni ei ci vuol buona tirannia; ma a far congiure ei ci vuol tirannia buonissima. [p. 112 modifica]Questa era in Germania; epperciò la congiura riuscì e diventò rivoluzione. Ma in Italia è tutt’all’opposto. Ei può rincrescere ma così è: la tirannia non v’è. Sugli Stati italiani non è se non preponderanza, grado infimo di oppressione; la quale sì fa sentir più a’ governanti che a governati; più nell’impedire il bene che in procacciar mali. Il popolo, la plebe de’ Principati italiani che come ogni plebe ha a pensare alla vita quotidiana, non pensa al popolo delle province straniere; e gli uomini colti e pensanti pensano a non perdere l’indipendenza qual ch’ella sia che pur han: no essi, prima che a darla ai fratelli; pensano, e non si può dir che faccian male, ai doveri presenti verso il Principe, verso lo Stato proprio; primachè ai doveri eventuali verso i sudditi altrui. E tanto più che nemmen questi non vi pensan tutti. Io credo bene che colà gli uomini di coltura e pensiero, pensino la vergogna della soggezione, la miseria della inoperosità, il danno de’ vizi fomentati dallo straniero; ma nemmen là tutto ciò non si fa sentire al popolo intiero, al volgo basso od alto, a cui non sono impediti nè i bisogni nè i piaceri quotidiani. Virtù e vizii di quel governo concorrono là alla quietudine. Giustizia civile e criminale, amministrazione, strade, imprese pubbliche, stabilimenti di beneficenza, interessi privati, studi elementari, tutto il [p. 113 modifica]sufficiente, è protetto, è promosso là, sufficientemente. Si traggon ricchezze; ma ne restano. V’è poca coltura alta; ma v’è la bassa. Non si provvede all’operosità, si promuove l’ozio, forse il vizio; ma l’ozio ed anche il vizio sono piacevoli ai più, e chi pur cadendovi se ne sdegna, n’è tuttavia fatto incapace di sdegnarsene efficacemente. Pochi sono, dappertutto, gli uomini che si serbin vergini dagli effetti di qualunque servitù; ma più pochi, di una mitissima. “Tant’è l’un basto quanto l’altro”; dicono con parole degne del senso. E così in somma nè negli Stati italiani nè nelle provincie straniere, non è materia da congiura che possa diventar rivoluzione d’indipendenza; non è probabilità che tal sia data dai tempi i quali diventano via via più miti, più civili; non è a far tal congiura una nazione naturalmente capace di congiurare; se si facesse, sarebbe guasta probabilmente dall’antica preoccupazione di libertà cresciuta a’ di nostri; sarebbero difficili, impossibili ad unire in essa principi e popoli, grandi e piccoli, provincie e provincie. Deh non si faccia! deh tolga la Provvidenza il funesto pensiero dalle menti, dalle fantasie italiane!

9. Speranza iiiª. — da una chiamata di stranieri. Ma ciò che non è possibile per ispontanee confederazioni di principi o congiure di popoli italia[p. 114 modifica]ni, non sarebb’egli forse chiamando stranieri, i quali procurerebbero l’unione impossibile tra noi soli? Posto fuori un centro qualunque, un punto di convegno, non vi si riannoderebbe egli ciascuno? S’io credessi buono tal convegno, sarei il primo a confortarvi i miei compatriotti; per l’impresa d’indipendenza non è a fuggir niuna speranza che non sia colpevole. Ma non è speranza buona nemmen questa. Qui si versa più piena la facondia del Gioberti. E noi stessi ricordammo testè i danni di tutte quelle chiamate, di Greci contra Goti, Longobardi contra Greci, Franchi contra Longobardi, Tedeschi contra Franchi; un re Francese ed uno Spagnuolo invano chiamati, i Tedeschi chiamati e venutile fra questi una casa opposta all’altra, parenti a parenti, talora figli a padri; ed Angioini contra Svevi, Aragonesi contra Angioini, Francesi contra Aragonesi, Austriaci contra Francesi, Francesi contra Austriaci ripetutamente, senz’altro frutto che di servitù mutate, pessime delle servitù. — Ma, io intendo venire, deh si tolleri, a recente e maggior vergogna. In tutta quella lunga serie di chiamate antiche non è se non una rimasta inesaudita; salvo quella, i chiamati venner sempre. All’incontro, negli ultimi anni, dal 1815 in poi, già son parecchie chiamate italiane, a cui non fu dato retta. Ondechè, se elle si dovean già fuggire per le due [p. 115 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/147 [p. 116 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/148 [p. 117 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/149 [p. 118 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/150 [p. 119 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/151 [p. 120 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/152 [p. 121 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/153 [p. 122 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/154 [p. 123 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/155 [p. 124 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/156 [p. 125 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/157 [p. 126 modifica]Pagina:Cesare Balbo - Delle speranze d'Italia.djvu/158


Note

  1. Tal fu il caso della sollevazione degli Spagnuoli contra Napoleone nel 1808: l'invasione perfida e nuova sollevò gli animi in tutti. MA sarebbe stoltezza sperare che un'invasione antichissimamente adempiuta, e lungamente tollerata, producesse a un tratto il medesimo scandalo, le medesime ire, il medesimo accordo.
  2. Vedi la recente e bellissima Storia de' Vespri Siciliani dell'Amari; benchè questi abbia forse passato il segno non in propugnare meglio che i predecessori l'importanza della sollevazione, ma in iscemare i fatti della quasi inutile sì, ma certa e grande o almen larga congiura. Ed io lo noto, perchè quanto più larga fu questa, tanto più urgente rimane l'insegnamento della inutilità di lei. - Su quella poi della Svizzera io accennerei a' leggitori non tanto Müller, Zschokke o niun altro storico, come Schiller nell'immortale Guglielmo Tell. Questa sì che è poesia, storia, politica, filosofia, tutto insieme.