Delle speranze d'Italia/Capo VII

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Capo VII

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CAPO SETTIMO.

breve storia dell’impresa d’indipendenza
proseguita sempre, non compiuta mai per xiii secoli


1. Così noi siamo ritornati ora a ciò che dicevamo in sul principio del Capo II, all’ostacolo straniero. Ma ei ci corre questa differenza, che noi abbiamo ora accettata da un nobilissimo scrittore l’idea di ciò che sarebbe a fare quando fosse rimosso l’ostacolo. Or dunque è tempo di rivolgerci a questo; e volgendovici, di guardarlo in faccia, qual è, in tutta l’estensione e la potenza che ha.

2. L’ostacolo è antico ed antico il tentativo di rimuoverlo; antica la grande impresa dell’indipendenza italiana. Quando fosse compiuta tale impresa, quando si potesse fare una storia revoluta, del principio, delle vicende e del termine di lei, certo è che riuscirebbe la più bella che possa essere al mondo; una storia di costanza ita[p. 55 modifica]liana, da disgradarne la famosa di Spagna nella cacciata de’ Mori. — Potrebbero allora introdurre a tale storia forse un’antichissima impresa dei Tirreni contro all’altre genti primitive; e certamente poi quella impresa di Roma contro ai Galli, che incominciò di mezzo alla città stessa già perduta tutta, salvo il Campidoglio; quando un fuoruscito, il più grande de’ fuorusciti, il grandissimo Camillo, tornò nella patria occupata, e liberolla; e respinti quinci gli stranieri, continuò a respingerli più e più su, ed ordinò Roma, e fecela capo a ciò di quella penisola inferiore, dove era nato il santo nome d’Italia. E fu perdurando poi quattro secoli in quell’impresa, che Roma si fece capo a poco? poco di tutta la penisola, e riunilla, e comunicolle quel nome; il quale ricorda dunque l’origine, l’impresa e la propagazione dell’antica nostra indipendenza.

3. Ma lasciamo l’Italia antichissima, e la romana repubblicana e l’imperiale, e veniamo a quella, che soggiaciuta ai Barbari insieme con ogni altra nazione europea, tentò sola liberarsene; un vanto che non fu forse avvertito abbastanza, nemmeno dai nostri adulatori. Ad ogni modo incomincia l’impresa d’indipendenza se non già fin dalla venuta di Teodorico, chiamato o mandato in nome dell’imperio, certo almeno fin dagli ultimi anni di lui, e così fin dalla prima metà [p. 56 modifica]del vi secolo, XIII secoli dunque prima di noi. Incontrastabile documento ne è allora quella accusa (di che dubita la storia, ma non importa qui se fosse giusta od ingiusta) che fu data a Boezio ed altri Italiani di macchinar la restaurazione dell’imperio romano. E ne sono documenti ulteriori e fatti incontrastabili, le crudeltà che ne seguirono e in mezzo a cui fini quel barbaro, ma grande e un dì mitissimo Teoderico; e le raccomandazioni di concordia troppo tardi fatte da lui morente a’ nobili Goti e Italiani; e le favole popolari con che fu perseguitata la memoria di lui; e poi le discussioni surte in breve tra Goti ed Italiani per l’educazione del successore, le vicende d’Amalasunta e di Teodato; che chiamarono finalmente i Greci, restauratori pretesi dell’imperio. Ma tristo risultato di quelle chiamate, i Greci non restaurarono l’imperio italiano, estesero solamente il greco; ed Italia, già capo, diventò provincia. — Ond’esce un grande, quantunque notissimo, insegnamento: che le restaurazioni d’indipendenza non si vogliono domandare a stranieri; e quest’altro poi, ch’elle non si vogliono complicare di altre restaurazioni.

4- L’imperio greco durò un venti anni a ristabilirsi sull’intiera provincia italiana, un dieci altri a stentarvi e cader poi sotto a’ Longobardi. Allora la penisola fu divisa per non riunirsi forse [p. 57 modifica]mai più, tenendo i Greci quasi tutta la parte orientale con Roma, i Longobardi quasi tutta la occidentale. Ma gl’Italo-Greci, o Imperiali, o come si dicevano Romani, furono senza paragone più indipendenti che non gl’Italo-Longobardi. Avevano Esarchi, Duchi, Governatori greci, stranieri; cattivi; ma obbedivano loro poco e di rado, obbedivano piuttosto ai Papi, a’ loro vescovi, a’ loro magistrati cittadini; erano già veri Comuni, a modo de’ lombardi e toscani di cinque secoli appresso; non tenevano conto dell’Imperadore greco lontano, se non come questi poi degli Imperadori tedeschi vicini od anche meno; e come questi, così quelli fecero le leghe e confederazioni già da noi accennate. E questa è la vera e bellissima origine della potenza temporale dei Papi; origine pari in antichità, superiore in vera legittimità a quella di qualunque regno europeo; scusa od anzi merito e virtù del loro costante resistere ai Longobardi; gloria di Gregorio Magno che prese primo la difesa di quel che restava d’indipendenza; gloria maggiore di Gregorio II che la difese contro ai Longobardi e P accrebbe contro ai Greci con una bella confederazione nazionale, e senza aiuti stranieri; scusa dei Papi successori di lui, che pressati da’ nemici vicini, abbandonati da’ signori lontani, ricorsero men vilmente che imprudentemente ed infelicemente [p. 58 modifica]all’aiuto dei Franchi, stranieri novelli. — E il risultato e l’insegnamento furono i medesimi che due secoli prima. Rimasero signori i nuovi chiamati.

5. Nè questo fu lutto; in breve rifecesi l’altro e forse maggiore errore di restaurare un nuovo preteso Imperio Romano. E siccome il primo restauralo era stato non Italiano, ma Greco, cosi questo fu Franco. Errore, preoccupazione, cecità, smania, stoltezza, impostura quasi inconcepibile a noi, questa di restaurare l’imperio! Nè parvero che sia durata tanti secoli, mille e più anni, dall’800 al 1805. Tanto può una memoria, una parola! Ma, non ci si venga a dire a noi Italiani, che quest’imperio Romano fu una grande idea di Carlo Magno, una gran bellezza del medio evo, una gran fortuna della Cristianità a cui furon dati così un gran centro temporale, e un gran centro spirituale, due grandi capi, l’Imperatore e il Papa. Io non so se tutto ciò, quantunque cantato da un vero poeta, sia poesia; ma non è storia di niuna maniera. Grande si fu l’ambizione, ma non l’idea di Carlo Magno; non dovendosi dir grande niuna idea che tanto scemi passando a realità. Certo, l’imperio ideato da Carlo Magno, cioè la supremazia d’uno dei Re sugli altri, non durò incontrastato se non i4 anni, quanto il fondatore; nè tra molti e gravi contrasti, se non 88, [p. 59 modifica]assai meno che non la schiatta carolingia di cui fu rovina; ondechè si vede essere stata piccola e cattiva idea. E quanto a quella bellezza dell’edifizio della Cristianità posta in bilico su due centri, io non so guari veder nulla di tutto ciò; posciachè in somma il centro imperiale non durò se non quegli 88 od anzi quei 14 anni, dopo i quali ogni re fece il re da sè, senza curarsi dell’imperatore più che di qualunque altro re. I due centri o perni esistettero sì veramente, ma per l’Italia sola; dove l’imperiale fu non fortuna ma sventura grandissima e moltiforme. Perciocchè prima, fu causa che dovendo l’imperatore esser re d’Italia, tutti i re carolingi vollero quel regno, e così sei disputarono e l’invasero. Poi fu causa che i pochi principi italiani, due Berengarii, un Guido, e un Arduino riusciti a farsi re d’Italia, non poterono rimaner tali come altri principi rimasero re di Francia, di Spagna e di Germania; il che, sia o non sia da lamentare per li tempi seguenti, certo fu gran danno per quelli, ne’ quali l’Italia ne riuscì più invasa, più avvilita, più corrotta che non sia stata mai ella o niuna nazione cristiana. Perciocchè certo furono molto avviliti quei Re che sottoposero la corona Italiana alla Tedesca; avviliti tutti quegli altri principi italiani che non traevan potenza se non dalle intervenzioni straniere; avvilite quelle principesse mere[p. 60 modifica]trici che la traevan dalle libidini nazionali e straniere; avviliti gli ecclesiastici ravvolti in tutto ciò, compratori e venditori delle sedie vescovili e della stessa romana; avvilita la nazione intiera, la quale chiamò più stranieri in quel secolo e mezzo che non facesse mai, e la quale alla morte di Arrigo Sassone giunse al segno di accattare padroni in tutta Europa, Francia, Germania e Castiglia, e di far rifiutar sua servitù da tutti, salvo che dai Tedeschi, che non la rifiutarono mai. E so che que’ nostri inalterabili piaggiatori i quali quando non ci possono lodare ci scusano, e quando non ci possono scusare ci consolano col paragone de’ vizii altrui, diranno qui che quel secolo d’intorno al mille fu secolo di avvilimento a tutta la cristianità, ai signori nostri come a noi servi, ai compratori come ai venditori della nostra indipendenza. Ma io dico che in tali contratti, i venditori son sempre di molto più avviliti che non i compratori; eh; si fa servo, che non chi si fa padrone. E confermo e conchiudo: che la nazione italiana cadde allora più basso che non fosse mai ella o niuna cristiana; e che fu effetto di quel mal sogno del Primato Italo-imperiale. — Onde mi sembrano uscir poi due insegnamenti: che prima di mirare a primati si vuol arrivare a parità, e che la prima delle parità colle nazioni indipendenti, è l’indipendenza. [p. 61 modifica]

6. Ma le nazioni cristiane possono ammalare, non morire, dice ammirabilmente il nostro Gioberti1. E la storia del secolo xi non solo prova la verità, ma dà le ragioni di tal fatto, accenna i modi del risanamento delle nazioni cristiane. Il rimedio che queste hanno e le antiche non avevano, è la Chiesa cristiana; la quale incorruttibile essa, basta a preservarle da mortai corruzione, basta a preservare la virtù, la operosità cristiana risanatrice. Pareva allora corrotta la stessa Chiesa, ma non era. Incorrotti molti membri di essa, si ritrassero dal mondo, ne’ monasteri. Fondaronsi quelli di Cluni, di Cisterzio, della Certosa, di Camaldoli, di Vallombrosa e molti altri; il cui merito massimo non fu, come si suol dire troppo umilmente, l’aver serbati i manoscritti o le lettere o l’agricoltura, ma la virtù; dico la severa e cristiana virtù. La storia di que’ chiostri d’intorno al 1000 è una meraviglia, un miracolo continuo. Un uomo, un santo sdegnavasi contro al secolo (quel secolo da fulminare allora veramente), contro ai costumi secolari, ecclesiastici, monacali. Quindi facea disegno di fondar un monastero nuovo, di restituire in esso la disciplina; fondavalo con due o tre compagni; l’estendeva a qualche centinaio di monaci; fondavane altri [p. 62 modifica]all’intorno, e tutto insieme chiamavasi una riforma. Talora, morto appena il riformatore, talora anche prima, la riforma cadeva nella corruzione universale; tal forza era in questa! Ma allora risorgeva un altro riformatore, un altro monastero, un’altra riformale ricorrotta questa, un’altra ed un’altra, finchè durò la corruzione universale, ed anche oltre. Intanto, or nell’uno or nell’altro chiostro, la virtù s’era serbata; e n’usci intorno alla metà del secolo uno stuolo, una schiera di uomini, che io non so come io chiami: grandi santi, grandi filosofi, grandi riformatori ecclesiastici, o grandi politici, perciocchè furono tutto ciò; Pier Lombardo, Lanfranco, sant’Anselmo da Aosta, uno o due altri Anselmi, san Pier Damiano, Annone di Colonia, e finalmente Ildebrando cioè san Gregorio VII. Il quale fu il più grande, ma non il solo grande, fu il principe di quello stuolo già formato, fu il raccoglitore e propagatore delle frutte seminate da altri; grande ingegno senza dubbio ma più gran coscienza, gran politico ma pontefice anche più grande. Ed egli e tutti gli altri insieme furono i risanatori della corrotta Cristianità in generale, ma della corrottissima Italia in particolare; non solamente perchè dall’Italia nacquero i più di essi (come è facile vedere dai nomi citati); ma sopratutto perchè a risanar Roma, a restituir ivi primamente [p. 63 modifica]la disciplina e l’indipendenza ecclesiastica attesero unanimi; e perchè da queste appena incominciate a restituirsi, segui, quasi conseguenza naturale, l’indipendenza italiana. Invano si disputa di questa o quella minuzia di libertà da attribuirsi o no ai Vescovi ed agli ecclesiastici nella fondazione dei Comuni; invano si allega che i Comuni sorsero talora non a favore nè con aiuto, ma contra i Vescovi. La virtù fece i Comuni italiani; e la virtù di quel secolo fu incontrastabilmente d’origine ecclesiastica; anche quella che in parecchi luoghi si rivolse contro ai corrotti ecclesiastici. — E quindi esce l’insegnamento, che la virtù fa l’indipendenza; e quest’altro, che niuno forse può tanto sulle virtù nazionali quanto gli ecclesiastici.

7. E quindi dal pontificato di Gregorio VII (an. 1073) incomincia quel lungo secolo che dicemmo il più bello della storia d’Italia, non per altro se non perchè fu il solo bello nella storia dell’indipendenza, il secolo della conquista fattane da’ Comuni. Ed incomincia insieme e s’accompagna il secolo de’ maggiori papi politici, che sieno stati. E primo dunque Gregorio VII di cui non è facilmente finito di dire, che fu pure inventor delle crociate, difensor di popoli e principi oppressi, stabilitor del solo vero centro politico che sia stato nel medio evo; esagerator forse di que[p. 64 modifica]sta centralità; usurpator forse di alcuni diritti temporali, e di ciò vituperato già, lodato ora sovente, mentre si dovrebbe forse solamente scusare; Gregorio VII combattitor lunganime per tutte queste imprese, e che morì fra esse, esule, martire, vantandosene e tramandandole ai successori. I quali furono tra gli altri un Urbano II adempitor del pensiero delle crociate, Calisto II adempitor della indipendenza ecclesiastica, Alessandro III il gran confederato dei Comuni italiani. Del resto tutti questi Papi non furono già essenzialmente capi di una parte italiana contro all’altra; e nemmeno capi della nazione contro agli stranieri. Tali furono si occasionalmente, temporariamente; ma in essenza, in continuazione ed in somma, furono ciò che dovevano, capi della Cristianità, non meno e non più. E se attendendo a tutti gli interessi cristiani, promovendoli tutti, que’ d’Italia si trovarono più promossi, ei non fu se non perchè questi erano allora de’ maggiori. La grandezza temporale de’ Papi e l’indipendenza d’Italia crebbero insieme e s’aiutarono senza dubbio a vicenda. Ma inducono in grave errore coloro che non sanno narrare se non l’una o l’altra impresa, e fanno così que’ Papi più italiani o quegli italiani più papalini, che non furono. Ei non fu se non Alessandro III che s’unisse veramente all’impresa d’indipendenza; e non vi si unì forse [p. 65 modifica]intieramente se non quando Federigo Barbarossa ebbegli contrapposto un antipapa, e così più per gl’interessi del papato che non dell’indipendenza. Nè egli o i predecessori sono a biasimare, o tener in minor conto perciò. Chi oserebbe biasimare, ed anzi non lodare coloro, che fecero il proprio ufficio prima che quel degli altri, il loro ufficio maggiore prima che il minore; e che avendo in mano gl’interessi dell’intiera Cristianità e quelli d’un principato od anche di una parte italiana (chè di tutte non l’ebber mai) attesero a quelli sopra questi? In somma, questa fu appunto una delle cause, che quella magnifica guerra d’indipendenza, quella guerra così giustamente incominciala, così costantemente sostenuta, così mirabilmente condotta alla confederazione, così felicemente vinta a Legnano, si terminasse colle paci inadeguate di Venezia e Costanza. Anche Alessandro III, il massimo fra’ papi aiutatori d’indipendenza, riconosciuto che fu papa, lasciò l’impresa, abbandonò i Comuni vincitori; ed io non so chi oserebbe dire che facesse male, o che egli avrebbe dovuto rigettare dalla comunione della chiesa l’imperatore e mezza cristianità per gl’interessi d’Italia. E se si dicesse ch’egli avrebbe dovuto far cessar lo scisma come papa, e continuar la guerra come principe, si farebbe una distinzione impossibile forse a mante[p. 66 modifica]nersi in qualsiasi tempo, ma certamente in quello. Non era nemmen proprio di quel tempo, già il dicemmo, che si cercasse l’indipendenza compiuta dall’imperatore; ed ottenutone quel tanto per cui s’era combattuto, si sciolse la lega. — E da tutti questi fatti uscirebbono poi numerosissimi insegnamenti; ma due sopra tutti: che le confederazioni sono senza dubbio il miglior mezzo di conquistare l’indipendenza; ma che senza indipendenza compiuta non si sogliono nè si possono conservare confederazioni; e che i papi, grandi aiutatori, non possono essere buoni capi a tali imprese.

8. Dalla pace di Costanza (an. 1183) alla venuta di Carlo VIII (an. 1494) corrono poi que’ tre secoli della gioventù, dello splendore, e dell’incontrastabil primato d’Italia, da cui sorgono sperimenti e insegnamenti innumerevoli oramai; secoli di minor virtù che non il precedente, colsero i frutti seminati da’ padri, tranne uno che non seppero maturare. Non seppero compiere l’indipendenza; allettati che furono dall’altra opera più immediatamente piacevole, di compiere ed esagerare la libertà interna. Dimenticarono l’imperatore per volgersi contro a questo o quel tirannuccio vicino, contro ai nobili grandi o minori, contro agli stessi popolani maggiori o grassi, o viceversa; con perpetue vicende, con ispen[p. 67 modifica]sieratezza che anch’essa pare inconcepibile a nostra età, con un eccesso di licenza che servì poi d’argomento agli avversari non solo de’ governi popolareschi, ma d’ogni libertà. Ma ciò non ostante il vero è che in que’ tempi del sistema feudale, cioè dell’aristocrazia più ristretta e più oppressiva, dell’ordinamento più mal ordinato che sia stato mai; il disordine, la licenza stessa, ogni eccesso popolaresco erano ancora un vantaggio, facevan della nostra nazione mal libera e male indipendente, una nazione meglio condizionata di gran lunga che non le feudali. Questo fu il vantaggio d’Italia, questa la causa del primato di lei lungo i tre secoli; vantaggio e primato che cessarono poi naturalmente da sè, quando scemato lo svantaggio degli ordini feudali nell’altre nazioni, l’Italia non si trovò più al paragone se non collo svantaggio proprio e massimo della indipendenza incompiuta. — Intanto fin dal primo de’ tre secoli, tra que’ governi popolari nuovi, i dialetti diventaron lingua; lingua poetica, politica, nazionale, servente a tutte le colture. E sorsero o s’accrebbero le industrie, le navigazioni, i commerci, le ricchezze, tutte farti; in cima a cui, come sogliono, quelle che si chiamano arti belle, e potrebbon chiamarsi arti somme. Quindi quel primato di coltura, che riman più incontrastabile che non quello di civiltà, potendo rima[p. 68 modifica]ner dubbio di questa in coloro che tengono per sommo pregio di essa F indipendenza. — Ad ogni modo corre su questi tre secoli una grande illusione. Que’ Comuni popolarmente retti chiamaron sovente sè stessi repubbliche; e repubbliche furon chiamati poi da parecchi scrittori, e ultimamente dal Sismondi in quella storia intitolata appunto Delle Repubbliche italiane, che è uno dei più leggibili e più letti, e letterariamente uno de’ più bei libri di nostra storia. Ma se si conservi a quel nome di repubblica il senso etimologico ed universalmente accettato, di cosa pubblica, cioè tutto lo stato, cioè lo stato indipendente pubblicamente amministrato; ei si vedrà che di tutte le così dette repubbliche italiane del medio evo, una sola fu repubblica vera, quella di Venezia; e nemmen questa dal tempo di sua nascita o di sua gioventù favolosa, ma solamente da quando essendosi disputato de’ limiti tra l’imperio carolingio e il greco, ella era rimasta in mezzo, indipendente. Tutte l’altre città nostre rimaser Comuni e non più; Comuni dipendenti, in diritto sempre; in fatto, tutte le volte che un imperatore potè far valere il diritto. E questo fu il grave vizio, che viziò le variatissime costituzioni, i fatti, la vita, la intiera civiltà di que’ Comuni. E quindi tutti i vizi minori, tutte le sventure, tutte le incapacità, e la mala riuscita ultima di que’ tre [p. 69 modifica]secoli. — E prima le dite parli guelfa e ghibellina, le quali (tanto era il vizio di mirare nelle cose italiane non all’Italia ma fuori, ma all’imperio, il vizio imperiale), prendendo nome da due famiglie che si disputarono l’imperio poco dopo la pace di Costanza, rimasero in breve, la ghibellina parte imperiale, la guelfa parte papalina e dei Comuni; parte, così, incomparabilmente più nazionale. Strano, assurdo a vedersi ora, dopo l’evento! che fosse tale una parte, non la nazione intiera; che una parte sola sapesse e volesse seguire quell’andamento così naturale in tutte le imprese d’indipendenza, di compierla dopo una prima vittoria; che un’altra parte fosse a voler fermare od anche far indietreggiare l’impresa. Ma tant’è; in tutt’i tempi, fra tutte le imprese, sono di questi ferma tori ed indietreggiatori; buoni senza dubbio se l’impresa è cattiva, ma pur senza dubbio cattivi se l’impresa è buona, come era certamente questa dell’indipendenza. Quindi per un secolo all’incirca, tra le contese d’imperio che seguirono la morte d’Arrigo VI di Svevia, e la lunga minorità di Federico II, e le vicende di questo forse più immaginoso che grande imperatore, e le nuove dispute d’imperio alla morte di lui, e sotto la condotta di nuovi grandi papi politici, inferiori solamente ai grandissimi del secolo precedente, la parte guelfa crebbe, potè molto [p. 70 modifica]più che non la ghibellina. E sotto la sana ombra di lei nacquero, crebbero i padri di tutte le grandezze italiane: san Francesco, la gran carità, san Bonaventura e san Tomaso, la gran filosofia teologica Italiana; il Compagni, i Villani, che si dicon grandi cronachisti, ma che in virtù sono forse i più grandi storici italiani; Dante, Petrarca, e Boccaccio, la gran poesia italiana non arrivata, non arrivabil forse mai più; i Pisani, Cimabue, Giotto, frate Angelico, Arnolfo di Lapo, i padri dell’arte italiana. E andiam pure più oltre: guelfe furono la maggior parte delle grandezze italiane anche posteriori al secolo guelfo: guelfe in corpo tutte le grandezze papali; guelfe tutte le ecclesiastiche; guelfe tutte quelle di Venezia, che senza il nome ebbe più che nessuna l’essenza guelfa, ebbe e serbò ciò che i Guelfi desideravano, la compiuta indipendenza: guelfe in corpo tulle le grandezze di quella Firenze, la quale non per altro fu la prima, la più gentile, la più civile, se non perchè fu la più costantemente guelfa tra le città italiane; la quale fu l’Atene d’Italia, perchè come la Grecia fu la innamorata dell’indipendenza.

9. Ma pur troppo, verso il fine del secolo xiii, i Guelfi (come succede fra’ trionfi a tutte le parti), caddero in gravissimi errori. E prima in quello già accennato di esagerare, purificare le democrazie. Meno male! quando la democrazia ha [p. 71 modifica]spenta un’aristocrazia ella se ne fa una nuova, inevitabilmente; la quale può ben essere meno splendida, non ricordar co’ nomi i fatti antichi, destar minori ammirazioni ed invidie; ma che in somma, nata che è, rifa l’ufficio essenziale d’ogni aristocrazia, l’ufficio di adoprare nel governo della patria chiunque non ha necessità d’adoprarsi per le proprie sostanze. Ma l’irremediabil errore guelfo fu quello fatto per un’ira di parte, anzi per una di quelle prolungazioni d’ira, che son fatali dopo cessati i motivi e i pericoli antichi, perchè distraggono da’ pericoli presenti; per una di quelle intolleranze che sviano dallo scopo. I Guelfi del mezzodì non vollero tollerare l’ultimo resto dell’odiata schiatta sveva, Manfredi re di Puglia e Sicilia; il quale, non imperatore, non pretendente all’imperio come i maggiori, era il solo Svevo da tollerarsi, e sarebbe diventato poi egli o i figli re indipendente ed italiano. Per ciò i Guelfi rinnovaron l’errore antico di chiamare i Francesi; e con tanto minore scusa allora, che avevano cinque secoli di ulteriore sperienza, e di cresciuta civiltà. E l’errore produsse il danno solito. Carlo d’Angiò, e gli Angioini suoi discendenti, e i Francesi suoi parenti diventarono essi signori di parte guelfa, ne tolsero il capitanato ai papi, trassero ed esiliarono questi ad Avignone, e ponendo sè stessi, sè stranieri in lor luogo, sna[p. 72 modifica]turaron la parte, la fecero scender da parte sola nazionale, a non altro che parte degli uni stranieri contra gli altri. — Allora sali d’altrettanto la parte ghibellina; d’allora in poi diventarono grandi alcuni Ghibellini; e allora Dante il grandissimo guelfo diventò il gran ghibellino. Dico che questo spiega, non iscusa, e tanto meno non fa bello, non imitabile il mutar parte di Dante. Io credo amar Dante quanto l’ami qualunque Italiano. Ma amo più che lui quell’Italia, che egli amò pur errando; ed ammaestrato co’ miei contemporanei da cinque nuovi secoli succeduti, amo sopra ogni uomo o cosa italiana l’indipendenza d’Italia. E dico che il mutar parte è sempre grande infelicità a chicchessia; che tuttavia non è colpa anzi è virtù mutar da una più cattiva ad una più buona, o men cattiva, ma che è infelicità e colpa il mutar alla più cattiva, quand’anche l’altra abbia fatto errori, sciocchezze o delitti; bastando allora separarsi in ciò, od in tutto da essa, senza unirsi alla peggiore. E Dante si vantò di tal moderazione, si vantò d’aver “fatto parte da sè stesso;” ma noi fece, ma cadde in quella parte peggiore. Pur troppo è dimostrato irreparabilmente, a chiunque non abbia il vizio di non veder vizii negli oggetti del proprio amore, da quell’incredibil libro Della Monarchia, che è più colpevole, più fuorviato, più mediocre [p. 73 modifica]che non le stesse mediocrità e sciocchezze guelfe, perseguite con tanti disprezzi da Dante. E molti pur troppo fecero come lui; molti si ritrassero dalla parte guelfa diventata non meno straniera che la ghibellina, si ritrasser da’ Papi diventati stranieri. Vedesi nell’opere degli altri due padri di nostra lingua Petrarca e Boccaccio; e vedesi nel fatto de’ Vespri Siciliani, e in quel di Cola di Rienzi, e in tutti quelli italiani fino al ritorno dei Papi. La parte guelfa aveva perduta la sua virtù primitiva. Ma la ghibellina non ne aveva guari acquistata; perchè non n’era in sua natura; perchè non ne può essere in niuna parte contraria all’indipendenza nazionale.

10. Dal ritorno de’ Papi fino alla morte di Lorenzo il Magnifico, è la decadenza dei Comuni italiani, è quel secolo xv tanto inferiore in virtù politiche al xii e al xiii, in lettere al xiv e xvi; quel Quattrocento che, salve l’erudizioni e Parti, si potrebbe ricordare all’ingrosso col nome di secolo di mediocrità. I papi reduci di quel soggiorno di Avignone che fu chiamato cattività di Babilonia, non ritrovarono nè il capitanato di parte guelfa nè quasi parte guelfa. Le parti, snaturale, cadono da sè. E tra la guelfa non più buona, e la ghibellina non istata buona mai non rimase più parte nazionale nessuna. Vera e compiuta nazionalità italiana non era stata mai; ma [p. 74 modifica]in mancanza di quella aveva giovato la parte nazionale. Or, mancando questa, mancò tutto; la virtù, l’ambizione stessa, l’ispirazione nazionale. E questa è la causa, dell’essersi fermato il progresso delle lettere, e dell’armi nel Quattrocento. Nate le lettere, sempre continuano ad essere letterati; nate le milizie, condottieri, uffiziali. Ma quando manca l’ispirazione i letterali non si fanno autori, i condottieri non capitani. Che se poi nel Cinquecento si rividero autori ma non capitani italiani, egli è che a rifar quelli bastano talora le speranze, ma a questi è necessaria la realità della nazionalità e dell’indipendenza; e che a questa riacquistare la misera Italia mancò intanto una delle più belle occasioni, che le sieno mai state apparecchiate dalla benigna Provvidenza. — Era il tempo che cresceva con ammirabile intelligenza degli interessi proprii e di tutti i germanici la casa d’Absburgo, la gran casa d’Austria. Fin dal nascere, fin dal suo grandissimo fondatore Rodolfo, ella s’era scostata dalle vane ambizioni italiche degli antichi imperadori Sassoni, Franconi e Svevi; aveva inventata, proseguita, ampliata, satisfatta una nuova ambizione nazionale germanica. E quindi se ci si conceda una volta dir grandi i principi non in ragione di ciò che ambirono ma di ciò che fondarono, grandi noi diremo questi, che posero le fondamenta [p. 75 modifica]della grandezza austriaca lungo le falde settentrionali dell’Alpi, quel Danubio dove sono oggi ancora la sedia e i destini di lei. Quindi era bella all’Italia l’occasione di conquistar quel poco che le mancava d’indipendenza; di far passare in diritto ciò che ella aveva quasi intiero in fatto. Ma ella si contentò di godere ciò che n’aveva senza cercare il rimanente. Nè i Papi talor grandi, nè Cosimo e Lorenzo de’ Medici i più grandi uomini di stato di quel secolo, non pensarono guari all’avvenire della patria. Lorenzo stesso, l’autore della confederazione da noi lodata, non pensò a compiere nulla, ma solamente a conservare; e non pensò che non si conserva mai nulla bene, che non sia perfetto. L’Italia dopo due secoli di coltura, dopo quattro d’indipendenza quasi compiuta, non s’era maturata a compierla, a carpirne l’occasione. E l’indipendenza incompiuta, lasciò l’Italia aperta a qualunque nuova, ed anche menoma intrusione straniera.

11. La venuta di Carlo VIII sovverti l’Italia al momento in che, sgombra di stranieri e confederata, ella potea parer più vicina a condizione di vera e grande nazione. E quindi sono giuste, naturali, e volgari le invettive contro a quel re di mente ed ambizioni leggiere, contro a’ Francesi che leggermente il seguirono, contro agli Italiani che lo chiamarono scelleratamente. Ma [p. 76 modifica]si vorrebbon pure rivolger l’ire contro a tutta quella generazione d’italiani più colli e più eleganti che non forti, più corrotti che inciviliti, i quali soffrirono così facilmente quella conquista così leggera. Del resto questa passò in poco più d’un anno; e passarono poi parecchie altre francesi, spagnuole e tedesche, con vergogne e danni nostri crescenti senza dubbio. Ma il danno maggiore e durevole ci venne da questi ultimi, e soliti stranieri. L’imperio, il funesto imperio romano-tedesco fu quello che ci perdette questa volta come l’altre; le ragioni dell’imperio furon quelle che fecero dar prima al Moro traditore, poi rivendicare all’imperio, e serbarsi finalmente da casa d’Austria quella Lombardia che è di lei ancora; 1 imperio che spalancò tutte le porte d’Italia a Carlo V; l’imperio che già infermo di tutti que’ mali fra cui prolungò poi sua decrepitudine, sostituì a sè, nel possesso della misera Italia le due case austriache, spagnuola e tedesca. L’imperio e l’elegante corruzione furon quelli che in poco più di sessantanni fecer passare l’Italia dalla più lieta alla più trista, dalla più libera alla più servil condizione, in che sia stata mai. — Ma ammiriamo anche di mezzo ai nostri dolori le vie della Provvidenza. Tutti quegli stranieri accorsi a straziarci, Spagnuoli, Francesi e Tedeschi riportarono a casa alcune parti della nostra [p. 77 modifica]già vecchia coltura; e così questo secolo già terzo della nostra, fu tenuto primo di tutte l’altre, e v’ha nome di secolo di risorgimento. E diciam pure, che noi soffrimmo dunque per tutti. Ma sappiam confessare che non soffrimmo senza colpa; sappiam vedere che tutto quel nostro primato di coltura od anche di civiltà, non ci servì nulla, nè a compiere nè a serbar nemmeno ciò che avevamo d’indipendenza, nulla a salvarci nè da’ lunghi strazii nè dall’ultima abiezione. — La quale fu confermata poi nel 1669 per quella pace di Cateau Cambresis, che lasciò Sicilia, Napoli, Sardegna e Milano in mano a casa d’Austria spagnuola, e l’Italia imbrancata così da’ due estremi. Quando sarà, .che si osi fare una storia di questi! sessanta sei anni, così splendidi e così tristi, da Carlo VIII a Filippo II, da Macchiavello al Tasso, da Raffaello ai Caracci, da Lorenzo magnifico a Cosimo granduca? e che si faccia non coll’animo elegantemente indifferente di Macchiavello o Guicciardini, ma con uno artisticamente sensitivo ed insieme virilmente giudice delle rade virtù, degli innumerevoli vizii, delle varie ma vane meraviglie di quella generazione italiana? A scrivere e far leggere in patria una tale storia, la minor difficoltà verrebbe forse dalle censure; sarebbe cibo da forti palali, da generazioni avvezze o almeno adulte all’indipendenza. [p. 78 modifica]

12. Da quella nuova e pessima condizione fatta all’Italia, incomincia quel periodo stroppo più lungo che un secolo, il quale è svergognato in tutte le memorie italiane sotto il nome di Seicento; periodo della dipendenza diretta più estesa, dell’indiretta più grave, della nazionalità più ridotta che sieno state mai; periodo che rimane quindi per natural conseguenza povero d’ogni operosità e virtù ispiratrice, ricco d’ozii, di vizii e di corruzioni, nelle lettere, nelle arti, negli ordini civili e nell’armi. Questa opinione del nostro Seicento fu già universale, ed era non meno sana che giusta. Giusto era e sano, che un periodo di dipendenza si tenesse per periodo d’abiezione, e l’abiezione per corruzione; giusto e sano, che posto questo nostro secolo xvii col x, si vedesse che da qualunque grado di coltura e civiltà, una nazione può precipitare in dissimili ma pari abiezioni e corruzioni. Ma ora, corre un modo pessimo di storie; una ricerca di erudizioni recondite, di filosofie storiche rovesciate; una smania di negare tuttociò che il senso comune delle generazioni aveva fatto passare in certezze universali; una pretensione di trovare ed insegnare ciò che non fu mai nè insegnato nè saputo. E semplice ambizione di novità? ovvero forse applicazione lata di quel metodo storico, che incominciò colla negazione delle verità, del[p. 79 modifica]le tradizioni più universali e più importanti? lo non entro in intenzioni, e lascio ciascuno decidere inappellabilmente delle proprie. Ma discuto i fatti e lor importanze; ed importantissimo affermo, che si serbi la salutare infamia del Seicento. Invano ci si cita per redimerlo la grandezza di Galileo. Galileo fu primo, buono, grande e pratico avviatore delle scienze materiali tutte quante, in quel metodo dello sperimento, che Bacone non fece se non raccomandare quand’era già incominciato a praticarsi. E quindi è buona la rivendicazione di questa vera e grande gloria italiana; buono T osservare la inesauribile fecondità dell’ingegno italiano, il quale troncategli tutte l’altre vie seppe pur trovarne a sè ed altrui una nuova e magnifica. Ma le scienze materiali hanno questa, che non so s’io chiami virtù o vizio: che elle non sono quanto l’altre, dipendenti dalle virtù, dalle condizioni nazionali; che elle possono allignare e fiorire anche in nazioni servili e corrotte; benchè poi non vi fruttifichino a lungo nemmen esse. E il vero è che la vita di Galileo è prova ella stessa della dappocaggine de’ suoi contemporanei. Non è il papa, non la curia romana, contro cui si voglian rivolgere l’ire principali per le persecuzioni fatte a Galileo. La curia romana non fece forse, ella, di quella questione di scienza, una questione di teologia? Ga[p. 80 modifica]lileo, egli il primo la fece tale, con imprudenza e zelo senza dubbio molto perdonabile; ma perdonabile è pure l’imprudenza e lo zelo contrario della curia romana. Ondechè il più imperdonabile in tutto ciò fu la dappocaggine del gran duca, e degli altri protettori, e di molti amici, cioè in somma de’ contemporanei di Galileo. Ma peggio assai è quando, a redimere il Seicento, ci si citano un Masaniello, un Bruno, un Campanella; un pescator capopopolo impazzito tra gli otto dì d’una sollevazione vilissimamente poi terminata; e due frati, nelle opere di cui si ritrovano non so quali semi di alcune idee filosofiche, che si trovano (siccome insite nella natura umana) quasi dovunque si frughi; ma le cui opere e la cui vita furon certamente men di buoni filosofi, che di cattivi teologi, e talora di sciocchissimi astrologi. Meglio citato è Vico, filosofo nuovo e grande senza dubbio, il quale scrisse tra il finir del Seicento e il principio del Settecento; ma l’assoluta trascuranza in che fu tenuto da’ contemporanei, prova la nullità ed abiezione prolungata fino a questi. Nè servirebbe citare un Alessandro Farnese, un Piccolomini, due Villa, Montecucoli o il principe. Eugenio; tutti insigni ed alcuni grandi guerrieri, ma guerrieri di ventura fuor di patria. Le grandezze fuor di patria dimostrano sì, che, secondo la frase d’Alfieri, la pian[p. 81 modifica]ta uomo nasce vigorosa in Italia; ma dimostrano insieme che l’aria vi è sovente cattiva; che per allevarsi, grande, la buona pianta ha talor bisogno d’essere trapiantata; e che l’arie straniere le sono talora pur troppo più amiche. Tutti questi guerrieri senza possibilità di guerreggiare per l’Italia e guerreggianti fuori, mostrano quanto fossero mutate le condizioni nostre da que’ tempi, in che almeno assoldavamo noi gli stranieri, non mandavamo a soldo altrui i nostri capitani di ventura. — Se si voglia riposar l’occhio su qualche vero resto di virtù italiana esercitata in Italia, forza è rivolgersi a quelle province che, dipendenti dalla preponderanza, erano almeno indipendenti dalla diretta signoria straniera, Roma, Venezia, il Piemonte. Ma quali indipendenze, quali virtù anche queste, se vogliamo una volta guardare e vedere? Di Roma e de’ papi dell’ultima metà del Cinquecento e di tutto il Seicento, abbiamo da un Tedesco ed Acattolico una recentissima storia, la quale descrive la magnifica resistenza fatta da que’ papi coll’aiuto di parecchi nuovi e giovani ordini religiosi, contro all’eresie giovani e forti ancor esse. E v’abbiamo, pur degnamente lodali, alcuni fatti civili di alcuni di que’ papi, sopra tutti di Sisto V. Ma questi furono pure i tempi di quel nipotismo menomato e più vile, che non potendo più dar pro[p. 82 modifica]vince e città, dava poderi e danari; e non aveva quindi nemmen la scusa di accrescere la potenza, diminuiva solamente la ricchezza della Santa Sede2. E questi sono i tempi che Francia, esclusa dalla penisola, non aveva nemmen bisogno di scendere per tiranneggiare Roma, e farsi fare scusa d’aver resistito alle proprie insolenze; i tempi in cui bastava un confessor di Ludovico XIV a turbar la quiete della curia romana. — E Venezia poi era indipendente; ma come usava l’indipendenza? Contro ai Turchi. Ed era bene senza dubbio; e le imprese di Candia e di Morea possono servire di consolazione a coloro che ne voglion trovare ad ogni modo. Ma queste imprese tanto vantate furono, o di conquiste mal assicurate e in breve lasciate, o di difese lunghe ma finite coll’abbandono; ondechè in somma elle dimostrano non altro che impotenza. La quale poi è confermata dalla sofferenza della repubblica in quella congiura, che più si spiega, più è brutta per Venezia; come la crescente e già incancherita corruzione di lei è confermata poi da tutti i particolari di quelle guerre, di quella congiura, e di tutta la storia di que’ tempi. Ora è un’altra moda, di esaltar Venezia, e dir immeritate le mi[p. 83 modifica]serie di lei, e chiamar insulto il palesarne le cause. Ma a me pare che il peggior insulto che si possa fare ad una generazione presente, sia il crederla incapace di sentir le colpe e le corruzioni degli avi. Venezia del Seicento fu corrotta un pò più, un pò meno, come l’altre province italiane. Tanto facilmente, io stava per dire tanto giustamente, s’attacca la corruzione dalle dipendenti alle indipendenti che soffrono tal vicina. — Non è dubbio: la men corrotta come la men dipendente fra le province italiane incominciò allora ad essere il Piemonte; grazie ai principi antichi e all’armi proprie che serbò. Io non temetti poc’anzi di sfogliare una corona, la quale si suole por fra l’altre sul capo de’ reali di Savoia; non fuggii dal dir principio o conferma della servitù italiana quel trattato di Cateau-Cambresis, che fu principio o conferma della potenza di quella casa. I fatti parlano, e la verità è sola utile, e sola rispettosa; ed a quali si vorrebbe servir più, a tali si debbe, non potendo altro, far omaggio almeno di essa qual si vede da ciascuno. Emmanuele Filiberto, spoglio del suo stato da Francia, è, per il primo e sommo diritto di propria conservazione, scusabile d’aver offerto, nobile e gran guerriero, i suoi servigi a Spagna; d’aver combattuta e vinta la giornata di S. Quintino, imposto il trattato di Cateau-Cambresis. Ma Emmanuel [p. 84 modifica]Filiberto è senza riserva ammirabile poi fin dal domani del trattato. Appoggiandosi da quel dì a Francia contro a Spagna, non puerilmente o poeticamente nemico, ma politicamente e secondo utilità or avversario or alleato d’ogni straniero, subito intese la nuova situazione di sua casa; subito ne fondò la politica; la naturale, la inevitabile, la giustissima politica di giovarsi, tra due vicini sovente prepotenti, di quello che fa meno prepotenze in ciascuna occasione; e per ciò, per poter offerire quinci un alleato quindi un avversario valutabile, tener sull’armi unito, tranquillo e quanto può felice, il popol suo. Del resto, il maggior esempio, Ohe lasciasse Emmanuel Filiberto a’ successori fu quello di far italiana la sua potenza. Fino a lui que principi s’eran tenuti come a cavallo dell’Alpi; egli posesi di qua, dimorò nella italianissima Torino, stanziovvi la corte e il governo, fortificolla e incamminolla a gran città, gran capitale; intendendo subito e molto bene (all’incontro di alcuni moderni) che negli Stati italiani più che negli altri, la capitale è quasi tutto. Così pure chiamò letterati e incamminò lettere italiane in quella terra sua, che fu creduta gran tempo Beozia, ed era piuttosto Macedonia nostra. Nel che e nel resto fu imitato poi da ciascuno de’ successori più o men bene, secondo le capacità. Ma non è vero che questi tenessero [p. 85 modifica]fin d’allora, come si suol dire, le chiavi d’Italia. Le quali se avesser eglino tenute, le avrebber tenute molto male, aprendo ad ogni vegnente; e il vero è che senza Saluzzo e Monferrato essi non avevan forze da ciò, ed atteser anzi a rafforzarsi con queste nuove provincie in Italia, a lasciar per esse parte delle francesi, a chiudere a poco a poco quelle porte. E così in somma, continuando l’opera di Emmanuel Filiberto, e quasi soli fra gl’italiani guerreggiando, e soli serbando le conquiste, soli si posson dire aver serbate armi e virtù italiane, mentre gli altri poltrivano; soli essere progrediti, mentre tutti gli altri retrocedevano. E così arrivarono essi soli degnamente alle nuove occasioni. — Ed anche del Seicento sarebbe utile una storia, severa. Se non che, quale storia farebbe dimenticare quella, difettosa sì ma inarrivabilmente splendida del Botta? quale poi principalmente arriverebbe alla piacevole ma terribile, immaginosa ma veritiera descrizione, che ce n’ha data il Manzoni?

13. Ma diciamo una seconda volta qui al secolo xviii, come il dicemmo all’xi: le nazioni cristiane possono ammalare ma non morire; e non possono dunque, quando sono inferme se non guarire. E così, dopo aver notata nel Seicento una gran dipendenza e corruzione italiana, noi abbiamo a notar nel secolo seguente un secondo ri[p. 86 modifica]sorgimento d’indipendenza e di virtù. Il risorgimento è indubitabile; e, noto già a’ più veggenti, fu fatto chiaro e volgare dai due nostri grandi storici moderni, Botta e Colletta. Ai quali rimandando per li fatti, basterà a noi fermarci alle cause principali. — E la prima fu la medesima che quella di sette secoli addietro: la incorruttibilità cristiana. Ma questa operando sempre, opera con mirabile ed inesauribile varietà, secondo i tempi. Nel secolo xi, corrotta la intiera Cristianità, non poteva essere se non la chiesa stessa, il fonte dell’incorruttibilità, che risanasse il resto; ed ella risanò prima la nazione circondante il centro suo, la italiana. Ma, progrediti i tempi, le corruzioni generali diventarono e rimangono impossibili quanto le barbarie; e ad ogni modo fino ad ora non se ne rividero più. Quando l’Italia che aveva tenuto il lungo primato, ma che non l’aveva stabilito sulla compiuta indipendenza, lo perdette poi colla corruzione, il primato passò di mano in mano all’altre nazioni cristiane. Ebbelo prima, dopo l’Italia la penisola iberica, operosa e virtuosa in navigazioni, conquiste, missioni, diffusioni, arti e lettere lungo tutto il secolo xvi e parte del xvii. E vuolsi egli vedere come fa a passare il primato? Italiano era stato Marco Polo scopritore e descrittore dell’ultimo oriente; italiano tutto quello studio di questo, [p. 87 modifica]italiano quel disegno di giugnervi da occidente, che furono così bene illustrati dall’Humboldt; italiano Colombo, che adempiè il disegno; italiano Amerigo, che gli diè nome. Ma memorie, studii, ed uomini proprii furon negletti dall’Italia non più operosa; e così tutto il frutto ne passò a Spagna operosa, e questo fruito trasse seco il primato. E corrottasi Spagna rapidamente fra i rapidi trionfi, il primato passò poi a Francia. Se non che questo passare i primati dall’una all’altra nazione cristiana, ci pare fatto così importante a ciascuna (ed alla nostra principalmente, dopo quello che chiameremmo il magnifico error del Gioberti) che trattandone espressamente altrove, noi il lasciamo qui non più che accennato. — Ad ogni modo, al finir del Seicento, al principio del secolo xviii l’Italia giaceva in condizioni inferiori a quelle di una o due, o quasi tutte le nazioni cristiane. Un caso, una fortuna (uno di que’ fatti che più indipendenti dalle cause umane, sono, anche dagli uomini men credenti, attribuiti alle superiori, e detti così provvidenziali), il finir della schiatta austriaca spagnuola, rimescolò le nazioni cristiane, e le ricondusse, siami lecito dire felicemente per questa volta, in Italia. Una sola provincia, un solo principe si trovò pronto all’occasione; e tanto bastò a determinare un risorgimento d’indipendenza. [p. 88 modifica]e quindi di operosità, di civiltà, di colture, di virtù italiane. Aprissi nel 1700 la successione di Spagna; un buon terzo d’Italia trovavasi, quasi podere, compreso in essa; gli abitatori del podere non si mossero, non s’aiutarono; fu naturale, eran sudditi stranieri da cencinquant’anni. Ma un principe italiano, Vittorio Amedeo II di Savoia, pretendeva parte pur egli a quel retaggio; e se la fece dare, tra per l’operosità e virtù propria, e quella del parente, il principe Eugenio, e quella serbata da’ suoi maggiori a’ suoi popoli (tanto quest’arte di serbar l’operosità de’ popoli, è arte utile ai principi); e così n’uscì col titolo e la realità di re, e con Sicilia aggiunta al suo Stato più che mai italiano; e così rimase scemata di tanto la parte straniera. — Ciò fin dalla pace di Utrecht nel 1714. E rimanevano provincie tedesche il resto del Regno e Milano, e spagnuola Sardegna. Ma in breve, surte due altre occasioni simili, le due successioni di Polonia e della casa d’Austria tedesca, e rimescolatasi similmente due volte la Cristianità primachè il secolo fosse a mezzo, si concentrò e s’accrebbe di nuovo lo Stato Italiano di Piemonte lasciando Sicilia per Sardegna, ed acquistando a brano a brano buona parte di Lombardia; e il Regno di Napoli e Sicilia finalmente restaurato passò a un ramo di casa di Francia, che diventò prontamente italiano; e passò [p. 89 modifica]Parma a un altro simile; e Toscana a un ramo della nuova casa austriaca, che pur diventò italianissimo. E così accresciuti, rinnovati quasi tutti i Principati italiani, non rimase straniera se non Milano con una striscia di Lombardia. E allori di nuovo si toccò in altro modo all’indipendenza compiutala seconda metà del secolo xviii somigliò alla seconda metà del xv; con questo vantaggio di più, che nel primo l’Italia era in sul retrocedere, in questo era tutta sul progredire. — Nè furon soli a venirci così di fuori i risorgimenti civili. Io scongiuro gli scandali; e noto subito che questo era in quasi tutta Europa il tempo di una perdutissima filosofia; ma era pur il tempo di progressi incontrastabili in molte arti, ne’ commerci, in tutte le scienze materiali, in molle civili. E l’Italia ebbe allora il gran senno di prendere molto di questi, e poco di quella; prese il buono e lasciò il cattivo degli stranieri; seguì quell’esempio de’ proprii maggiori, i Romani, che è più di niun altro degno di tramandarsi a’ nepoli. Ed io pur m’affretto a spiegare, per coloro che contro ai fatti generali più chiari hanno il vizio d’addurre le eccezioni particolari non mai mancanti, che qualche male fu preso, qualche bene lasciato senza dubbio. Ma in somma, questi furono i tempi in Napoli di Carlo Borbone, in Firenze di Leopoldo, in Milano del con[p. 90 modifica]te di Firmian; ed in Piemonte di Vittorio Amedeo II e Carlo Emmanuele III; i tempi che il Piemonte fatto entrare da Emmanuel Filiberto nella politica, entrò finalmente pure nella coltura d’Italia, e v’entrò coi due gran nomi di Lagrangia e d’Alfieri. I miei leggitori hanno già potuto vedere che io non dò importanza ai fatti letterarii sopra quelli di civiltà o di virtù nazionale) ma questo dell’essere entrata una gran parte d’Italia nella comunanza de’ pensieri italiani mi sembra fatto più che letterario, e che fu e può essere fecondo di civiltà e virtù. Quelle rinnovazioni che accennammo venir naturalmente dall’una all’altra nazione cristiana, sono forse anche più facili e più felici dall’una all’altra provincia d’una medesima nazione. E così (aggiugnendosi al Parini, il grande derisore dell’effeminatezze ereditate dal Seicento) il piemontese Alfieri fu il gran rinnovatore di virilità nelle lettere, e per le lettere nell’opinioni italiane. E così gli ozii e vizi! scemati, le operosità e virtù cresciute corrispondevano alla cresciuta, alla quasi compiuta indipendenza.

14. Ma qui si vede più che mai, che non è fatto nulla finché questa non è compiuta. Fu veduta da’ nostri padri, e udita da noi tutti in quegli anni di puerizia o gioventù le cui impressioni non si cancellano per prolungar di vita ne’ superstiti, e fu tramandata ai posteri dal Botta e [p. 91 modifica]dal Colletta, la trista ma utile storia degli errori, delle impotenze italiane in quella ultima e grande occasione. — Francia anch’essa aveva avuta dopo il suo primato la sua corruzione, il suo Seicento; dopo il secolo xvii e Ludovico XIV, il secolo xviii e Ludovico XV. La corruzione francese fu diversa dalla nostra, secondo la diversità dei tempi e delle nazioni; fu minore nelle condizioni politiche e civili, uguale forse ne’ vizii, molto minore in lettere, molto maggiore in teorie e filosofie; ma in somma fu pur grande corruzione. E scoppiata in sovvertimento della intiera nazione, minacciò sovvertire l’altre cristiane. Sollevaronsi quasi tutte queste con tra Francia, Francia contra esse; e ne seguirono invasioni di qua, invasioni di là, tentativi di repubbliche, tentativi di monarchia universale; ma all’ultimo (tal è la virtù intima, la vitalità della Cristianità) ne risultarono il fine di quell’impostura, durata 1005 anni, dell’Imperio romano, Francia tornata ne’ suoi limiti e riordinata sotto alla sua schiatta regia, Germania meglio ordinata, Spagna diminuita ma ridestata, le colonie spagnuole salite a indipendenza; salita Inghilterra a quella grandezza che reggiamo; la Cristianità, a malgrado i difetti di quell’ordinamento, più che mai costituita addentro, più che mai trionfante fuori a tutti i limiti suoi. — Ma l’Italia? Non facciamo su di essa ipotesi retro[p. 92 modifica]spettive, non perdiamoci in rincrescimenti troppo discosti dal fatto; non cerchiamo qual parte avrebbe potuta prendere alle pugne ed ai profitti, se ella si fosse trovata indipendente e confederata. Ma abbandoniamoci pure al rincrescimento che potrebbe esser utile un dì: ch’ella non siasi trovata pronta alla grande e nuova occasione di compiere quel poco che le mancava d’indipendenza; che quel risorgimento duralo già da quasi un secolo non fosse giunto a tanto da riunir tutte le opinioni, tutti gli animi in questo solo pensiero. Pur troppo quel risorgimento d’origine straniera aveva coi beni incontrastabili portati seco alcuni mali che divisero la nazione. E poi tutte quelle case di principi straniere, già allora italiane nuove, non erano ancora tanto progredite in nazionalità da sentire od ispirar fiducia, non erano italianizzate abbastanza. Ma sopratutto ed al solito, il gran danno fu lo straniero, dico lo straniero piccolo allora dentro Italia ma sproporzionatamente grande fuori; e che entrato quindi con tal superiorità a trattare e difendere gli interessi italiani, li fece diventar in breve tutto suoi. Così avvenne che quella pugna durata 25 anni in Italia non fu un momento mai pugna italiana, ma solamente tra lo straniero stanziato e l’invasore, tra Austria e Francia. Noi ricordiamo ancora quegli anni in che non era nulla così odiato [p. 93 modifica]da Austriaci o Francesi e talora (vergogna!) da Italiani, nulla così sospetto, o perseguitalo, a proibito, come l’interesse, come il nome stesso d’Italia. Non poteva venir bene ad una nazione così mal progredita per anco, così male apparecchiata. — E di fatti Piemonte assalito primo, gridò, chiamò confederazione, ma invano. Napoli mandò due reggimenti di cavalli, e credette aver mandato degno aiuto. Austria sì mandò; ma altro che aiuto! un esercito d’occupazione. E tra l’armi proprie e il mal aiuto, Piemonte si difese pur bene tre anni; ma poi tra l’une e l’altro passò Bonaparte battendo di qua battendo di là, che non avrebbe battuto forse (come disse pochi anni dopo un suo intrinseco a un ambasciadore Piemontese a Parigi) se avesse avuto dinnanzi solamente o gli uni o gli altri; o piuttosto, dirci io, se avesse avuti solamente Italiani, soli interessati vivamente a non lasciar passare. Ma aperta allora la penisola, fu corsa poi a vicenda da Francesi, Austriaci, Tedeschi d’ogni sorta, Ungheri, Slavi, Inglesi e fin Turchi per 18 anni; provate repubbliche, provato un regno d’Italia, provate divisioni nuove in lungo ed in largo, sollevate parti nuove, parte francese, parte austriaca, parte regia, parte popolare, parte di chiesa, parte filosofica, tutte le parti, salvo parte italiana; un Cinquecento novello, meno l’eleganza, le lettere e le [p. 94 modifica]arti. E i risultati ultimi e sommarii furono: cessato il grande incomodo dell’Impero romano, grandissima fortuna! cessate le decrepite aristocrazie di Genova e Venezia, pochissimo danno! Genova riunita a Piemonte in uno Stato, irrevocabilmente italiano, gran fortuna anche questa, che sarà ogni dì più sentita! Lucca ed altri territori minori riuniti a’ principati maggiori, fortune simili. Ma Venezia riunita a Lombardia in provincia straniera, più ampia, più compatta, più fortemente tenuta; innegabile ed incompensato peggioramento delle condizioni italiane.

15. E quindi, che fu d’allora in poi? Che è per noi quest’età allora incominciata? Qual nome avrà in Italia questo secolo xix in che inoltriamo? Forse nuovo e peggior Seicento? Secolo indietreggiato a quella o peggior dipendenza, a quella o peggior corruzione? Ovvero all’incontro continuazione del risorgimento del secolo precedente? — Certo, se s’attenda a quella parte tanto cresciuta dello straniero, si pub temere d’esser tornati ad una dipendenza poco minore di quella del Seicento, si posson temere simili conseguenze, di impedimenti, d’inoperosità, d’ozii e vizii servili. Nè mancherebbon pur troppo indizi di tali danni. — Ma forse, a chi attenda meglio, a chi si volga alla parte italiana d’Italia, i timori si volgeranno in isperanze. Quell’essere finalmente liberati i [p. 95 modifica]principati italiani dallo spauracchio del falso Imperio Romano, è pure un gran chè, un gran progresso. I principati italiani, non sono abbastanza, non intieramente indipendenti in fatto; ma egli è pure un gran chè l’essere diventati tali in diritto incontrastato. Il diritto può ricondurre al fatto; e tanto più nelle presenti condizioni di civiltà, di Cristianità. Non solamente non sarebbero più tollerate le usurpazioni materiali della potenza straniera sulle italiane; ma nemmeno le prepotenze morali, le intrusioni gravi, scandalose, patenti. Non solamente sono guarentite dall’intiera Cristianità e fanno parte del diritto pubblico europeo le indipendenze de’ principati Italiani; ma sono desiderate da quasi tutti, sono riconosciute di diritto quasi naturale le indipendenze d’ogni grande ed antica nazione cristiana. Si tende a fare entrar tutte queste nella gran repubblica, nel grande Stato degli Stati; s’intende ciò essere interesse, ciò forza, ciò felicità universale. — Ed aiutati o spinti così, dall’universale opinione, i Principi italiani han pure ricominciato a progredire da sè. Qual più, qual meno, ma quasi tutti. Hanno ordinati eserciti quali non furon mai in Italia. Han rinnovate leggi accostandole ai tempi; e le hanno ordinate in codici, progresso immenso per sè. E se s’accingono lenti a secondar i progressi della marineria, delle com[p. 96 modifica]municazioni, de’ commerci, ed in generale di tutti quegli interessi materiali che disprezzan forse troppo, ei vi si sono pur accinti, e qui forse più che in niuna cosa il principio importa seguito. Se non han data nè lasciata alle colture quella spinta, quella ispirazione nazionale, che sola fa di esse un fatto importante; essi non le hanno poi nemmeno fatte nè lasciale cadere in corruzione e viltà; vi hanno promossa quella sodezza che è vicina a virilità; e noi siam lungi dalle effeminatezze e dalle puerilità del Seicento, e da alcune stesse del Settecento3. — E si [p. 97 modifica]aiutano pur da sè i popoli italiani; non solamente secondando e chiamando tutti que’ progressi di [p. 98 modifica]lor governi, ma entrando spontanei in quelli che non posson venire se non dall’opinione, dalle virtù di ciascuno. Noi siamo lungi dal Seicento, e forse dal Settecento, ne’ costumi anche più che non nelle colture. E noi ritorneremo pur su questa che è una delle migliori Speranze italiane. Qui ci basta l’osservare che, incontrastabilmente, noi non siamo ricaduti per ora, in una terza corruzione italiana; che siamo nella continuazione dell’opera del secolo scorso, in quel risorgimento che parve ma non fu arrestato, dall’invasione straniera; che noi uscimmo di questa con vantaggi i quali supereranno, se Dio voglia, i danni; con innegabili progressi nell’operosità, nella virtù, nel sentimento di nazionalità, nel desiderio d’indipendenza. — La storia dell’impresa incompiuta in xiii secoli, è, intanto che diventi gloriosa, lunga e trista pur troppo; trista sopratutto per tante occasioni perdute. Ma la nazione italiana sembra educarsi a non perderle più. Ed è quindi, tempo molto opportuno di cercare quali sieno probabili, come possiamo giovarcene. Dal passato brevemente percorso, facciam dunque ritorno al futuro, oggetto solo ed importante del nostro studio.


Note

  1. Del primato, ec., t. II, p. 337.
  2. Vedasi la storia scritta dal Cardinal Pallavicini, e recentemente pubblicata, di papa Alessandro VII.
  3. Io mi sono udito e veduto criticar qui e altrove per non aver parlato degli errori particolari di questo o quello o di tutti i principi Italiani. Ed io mi sono pur udito generosamente difendere coll’osservazione sommaria: che ad ogni modo da trenta o quarant’anni in qua nessuno scrisse così liberamente ed apertamente in Italia. Ed io ringrazio di vero cuore questi generosi di tale osservazione, e me ne vanto. Ma non posso in coscienza usurparla qui in iscusa; perchè in coscienza sento o almeno spero che quand’anche avessi scritto fuori, e fuoruscito od esule o fatto straniero, io avrei scritto al medesimo modo, senza entrare più di quello che ho fatto in quegli errori o colpe: e
    1.° Perchè ciò non entrava nell’assunto, nel cerchio, nel litolo del libro mio, che è delle Speranze e non dei timori o dei malanni d’Italia, che non è storia o raccolta di fatti presenti, ma congetture di fatti avvenire.
    2.° Perchè quanto più liberamente io scrissi, tanto meno volli cedere a quel vizio o purilo d’uscir dal proposito, e ficcar critiche fuor del proposito, che mi par solamente perdonabile ai libri scritti a dispetto delle censure.
    3.° Perchè questi errori o colpe, quali che sieno, possono bensì mutare l’epoca d’adempimento, ma non le conchiusioni generali dalle speranze da me presentate; non fanno per esempio che questo nostro secolo xix somigli o tenda a un nuovo Seicento; non fanno che non siasi ripreso il progresso del secolo xviii; non fanno che non bisogni dunque spignere, pressar questo, ed aiutarvi i principi nostri.
    4.° Perchè, se avessi scelto fra quegli errori o colpe, e avessi rammentate quelle d’un principe tralasciando quelle d’un altro, ciò non sarebbemi partito nè bello nè giusto.
    5.° Perchè se le avessi messe tutte, ei mi si sarebbe potuto rispondere troppo facilmente coll’osservazione, che queste colpe de’ governanti procedono talora da altre de’ governati, e che questi vi ebbero sovente l’iniziativa.
    6.° E perchè dunque, ed insomma, e principalmente questo modo di scrivere o dentro o fuori, o dove che sia, m’avrebbe fatto servire a quelle recriminazioni, a quell’ire reciproche, a quelle divisioni le quali fu, è e sarà scopo mio tor di mezzo, o almeno scemare, a tutta possa mia, finch’io scriva o parli. — Io volli andar avanti, o almeno mutar modi; n’ebbi, n’ho la pretensione, il confesso; questi rifrugamenti di torti reciproci m’avrebbon ricacciato nel modo retrogrado, o almeno vecchio. Io non mi vi lasciai trarre; ne ringrazio Iddio. Non mi vi lascerò, ne lo prego. Ognuno a modo suo. Facciano altri ciò che non voglio far io.

    Nota della seconda edizione.