Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze/Del violento, o vero de i proietti. Giornata quarta

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Del violento, o vero de i proietti. Giornata quarta

../Scienzia nuova altra, de i movimenti locali, cioè dell'equabile, del naturalmente accelerato. Giornata terza ../Appendice di alcune proposizioni e dimostrazioni attenenti al centro di gravità de i solidi IncludiIntestazione 11 novembre 2023 25% testi scientifici

Scienzia nuova altra, de i movimenti locali, cioè dell'equabile, del naturalmente accelerato. Giornata terza Appendice di alcune proposizioni e dimostrazioni attenenti al centro di gravità de i solidi

[p. 237 modifica] SAGR. È forza, Sig. Salviati, in grazia di me, ed anco, credo io, del Sig. Simplicio, far qui un poco di pausa; avvenga che io non mi son tanto inoltrato nella geometria, che io abbia fatto studio in Apollonio, se non in quanto so ch’ei tratta di queste parabole e dell’altre sezzioni coniche, senza la cognizione delle quali e delle lor passioni non credo che intendersi possano le dimostrazioni di altre proposizioni a quelle aderenti. E perché già nella bella prima proposizione ci vien proposto dall’Autore, doversi dimostrare, la linea descritta dal proietto esser parabolica, mi vo imaginando che, non dovendosi trattar d’altro che di tali linee, sia assolutamente necessario avere una perfetta intelligenza, se non di tutte le passioni di tali figure dimostrate da Apollonio, almeno di quelle che per la presente scienza son necessarie.

SALV. V. S. si umilia molto, volendosi far nuovo di quelle cognizioni le quali non è gran tempo che ammesse come ben sapute, allora, dico, che nel trattato delle resistenze avemmo bisogno della notizia di certa proposizione d’Apollonio, sopra la quale ella non mosse difficoltà.

SAGR. Può essere o che io la sapessi per ventura o che io la supponessi per una volta tanto che ella mi bisognò in tutto quel trattato: ma qui, dove mi imagino d’avere a sentir tutte le dimostrazioni circa tali linee, non bisogna, come si dice, bever grosso, buttando via il tempo e la fatica. [p. 238 modifica]

SIMP. E poi, rispetto a me, quando bene, come credo, il Sig. Sagredo fusse ben corredato di tutti i suoi bisogni, a me cominciano già a giugner come nuovi gli stessi primi termini; perché, se bene i nostri filosofi hanno trattata questa materia del moto de’ proietti, non mi sovvien che si siano ristretti a definire quali siano le linee da quelli descritte, salvo che assai generalmente sian sempre linee curve, eccetto che nelle proiezzioni perpendicolari sursum. Però, quando quel poco di geometria che io ho appreso da Euclide, da quel tempo in qua che noi avemmo altri discorsi, non sia bastante per rendermi capace delle cognizioni necessarie per l’intelligenza delle seguenti dimostrazioni, mi converrà contentarmi delle sole proposizioni credute, ma non sapute.

SALV. Anzi voglio io che le sappiate mercé dell’istesso Autor dell’opera, il quale, quando già mi concesse di veder questa sua fatica, perché io ancora in quella volta non aveva in pronto i libri di Apollonio, s’ingegnò di dimostrarmi due passioni principalissime di essa parabola, senza veruna altra precognizione, delle quali sole siamo bisognosi nel presente trattato: le quali son ben anco provate da Apollonio, ma dopo molte altre, che lungo sarebbe a vederle; ed io voglio che abbreviamo assai il viaggio, cavando la prima immediatamente dalla pura e semplice generazione di essa parabola, e da questa poi pure immediatamente la dimostrazione della seconda. Venendo dunque alla prima:

Intendasi il cono retto, la cui base sia il cerchio ibkc, e vertice il punto l, nel quale, segato con un piano parallelo al lato lk, nasca la sezzione bac, detta parabola; la cui base bc seghi ad angoli retti il diametro ik del cerchio ibkc, e sia l’asse della parabola ad parallelo al lato lk; e preso qualsivoglia punto f nella linea bfa, tirisi la retta fe parallela alla bd: dico che il quadrato della bd al quadrato della fe ha la medesima proporzione che l’asse da alla parte ae. Per il punto e intendasi passare un piano parallelo al cerchio ibkc, il quale farà nel cono una sezzione circolare, il cui diametro sia la linea geh: e perché sopra il diametro [p. 239 modifica]ik del cerchio ibk la bd è perpendicolare, sarà il quadrato della bd eguale al rettangolo fatto dalle parti id, dk; e parimente nel cerchio superiore, che s’intende passare per i punti g, f, h, il quadrato della linea fe è eguale al rettangolo delle parti geh; adunque il quadrato della bd al quadrato della fe ha la medesima proporzione che il rettangolo idk al rettangolo geh. E perché la linea ed è parallela alla hk, sarà la eh eguale alla dk, che pur son parallele: e però il rettangolo idk al rettangolo geh arà la medesima proporzione che la id alla ge, cioè che la da alla ae: adunque il rettangolo idk al rettangolo geh, cioè il quadrato bd al quadrato fe, ha la medesima proporzione che l’asse da alla parte ae: che bisognava dimostrare.

L’altra proposizione, pur necessaria al presente trattato, così faremo manifesta.
Segniamo la parabola, della quale sia prolungato fuori l’asse ca in d, e preso qualsivoglia punto b, per esso intendasi prodotta la linea bc, parallela alla base di essa parabola; e posta la da eguale alla parte dell’asse ca, dico che la retta tirata per i punti d, b non cade dentro alla parabola, ma fuori, sì che solamente la tocca nell’istesso punto b. Imperò che, se è possibile, caschi dentro, segandola sopra, o, prolungata, segandola sotto, ed [p. 240 modifica]in essa sia preso qualsivoglia punto g, per il quale passi la retta fge. E perché il quadrato fe è maggiore del quadrato ge, maggior proporzione avrà esso quadrato fe al quadrato bc che ’l quadrato ge al medesimo bc; e perché, per la precedente, il quadrato fe al quadrato bc sta come la ea alla ac, adunque maggior proporzione ha la ea alla ac che ’l quadrato ge al quadrato bc, cioè che ’l quadrato ed al quadrato dc (essendo che nel triangolo dge come la ge alla parallela bc, così sta ed a dc): ma la linea ea alla ac, cioè alla ad, ha la medesima proporzione che 4 rettangoli ead a 4 quadrati di ad, cioè al quadrato cd (che è eguale a 4 quadrati di ad): adunque 4 rettangoli ead al quadrato cd aranno maggior proporzione che il quadrato ed al quadrato dc: adunque 4 rettangoli ead saranno maggiori del quadrato ed: il che è falso, perché son minori; imperò che le parti ea, ad della linea ed non sono eguali. Adunque la linea db tocca la parabola in b, e non la sega: il che si doveva dimostrare.

SIMP. Voi procedete nelle vostre dimostrazioni troppo alla grande, ed andate sempre, per quanto mi pare, supponendo che tutte le proposizioni di [p. 241 modifica]Euclide mi siano così familiari e pronte, come gli stessi primi assiomi, il che non è. E pur ora l’uscirmi addosso, che 4 rettangoli ead son minori del quadrato de, perché le parti ea, ad della linea ed non sono equali, non mi quieta, ma mi lascia sospeso.

SALV. Veramente tutti i matematici non vulgari suppongono che il lettore abbia prontissimi al meno gli Elementi di Euclide: e qui, per supplire al vostro bisogno, basterà ricordarvi una proposizione del secondo, nella quale si dimostra, che quando una linea è segata in parti eguali ed in diseguali, il rettangolo delle parti diseguali è minore del rettangolo delle parti eguali (cioè del quadrato della metà) quanto è il quadrato della linea compresa tra i segamenti; onde è manifesto che il quadrato di tutta, il quale contiene 4 quadrati della metà, è maggiore di 4 rettangoli delle parti diseguali. Ora, di queste due proposizioni dimostrate, prese da gli elementi conici, conviene che tenghiamo memoria per l’intelligenza delle cose seguenti nel presente trattato: ché di queste sole, e non di più, si serve l’Autore. Ora possiamo ripigliare il testo, per vedere in qual maniera ei vien dimostrando la sua prima proposizione, dove egli intende di provarci la linea descritta dal mobile grave, che mentre ci descende con moto composto dell’equabile orizontale e del naturale descendente, sia una semiparabola. [p. 242 modifica]cb, db, eb, o vogliam dire in duplicata proporzione delle medesime. Se poi intendiamo che al mobile, il quale si muove oltre b verso c con moto equabile, si aggiunga un movimento di discesa perpendicolare secondo la quantità ci, nel tempo bc [esso mobile] si troverà situato nell’estremo i. Ma continuando a muoversi, nel tempo db, cioè [in un tempo] doppio di bc, sarà disceso per uno spazio quattro volte maggiore del primo spazio ci; abbiamo infatti dimostrato nel primo trattato, che gli spazi percorsi da un grave, con moto naturalmente accelerato, sono in duplicata proporzione dei tempi: e parimenti, il successivo spazio eh, percorso nel tempo be, sarà nove [volte maggiore del primo spazio]: sì che risulterà manifesto che gli spazi eh, df, ci stanno tra di loro come i quadrati delle linee eb, db, cb. Si conducano ora dai punti i, f, h le rette io, fg, hl, equidistanti dalla medesima eb: le linee hl, fg, io saranno eguali, ad una ad una, alle linee eb, db, cb; e così pure le linee bo, bg, bl saranno eguali alle linee ci, df, eh; inoltre il quadrato di hl starà al quadrato di fg come la linea lb sta alla bg, e il quadrato di fg starà al quadrato di io come gb sta a bo; dunque, i punti i, f, h si trovano su un unica e medesima linea parabolica. Similmente si dimostrerà che, preso un numero qualsiasi di particole di tempo eguali di qualunque grandezza, i punti, che il mobile mosso di un simile moto composto occuperà in quei tempi, si troveranno su una medesima linea parabolica. È dunque manifesto quello che ci eravamo proposti. [p. 243 modifica]

SALV. Questa conclusione si raccoglie dal converso della prima delle due proposizioni poste di sopra. Imperò che, descritta, per esempio, la parabola per li punti b, h, se alcuno delli 2 f, i non fusse nella descritta linea parabolica, sarebbe dentro o fuori, e, per conseguenza, la linea fg sarebbe o minore o maggiore di quella che andasse a terminare nella linea parabolica; onde il quadrato della hl non al quadrato della fg, ma ad altro maggiore o minore, arebbe la medesima proporzione che ha la linea lb alla bg: ma la ha al quadrato della fg: adunque il punto f è nella parabolica: e così tutti gli altri, etc.

SAGR. Non si può negare che il discorso sia nuovo, ingegnoso e concludente, argomentando ex suppositione, supponendo cioè che il moto traversale si mantenga sempre equabile, e che il naturale deorsum parimente mantenga il suo tenore, d’andarsi sempre accelerando secondo la proporzion duplicata de i tempi, e che tali moti e loro velocità, nel mescolarsi, non si alterino perturbino ed impedischino, sì che finalmente la linea del proietto non vadia, nella continuazion del moto, a degenerare in un’altra spezie: cosa che mi si rappresenta come impossibile. Imperò che, stante che l’asse della parabola nostra, secondo ’l quale noi supponghiamo farsi il moto naturale de i gravi, essendo perpendicolare all’orizonte, va a terminar nel centro della terra; ed essendo che la linea parabolica si va sempre slargando dal suo asse; niun proietto andrebbe già mai a terminar nel centro, o, se vi andrebbe, come par necessario, la linea del proietto tralignerebbe in altra, diversissima dalla parabolica.

SIMP. Io a queste difficoltà ne aggiungo dell’altre: una delle quali è, che noi supponghiamo che il piano orizontale, il quale non sia né acclive né declive, sia una linea retta, quasi che una simil linea sia in tutte le sue parti egualmente distante dal centro, il che non è vero; perché, partendosi dal suo mezo, va verso le estremità sempre più e più allontanandosi dal centro, e però ascendendo sempre; il che si tira in conseguenza, essere impossibile che il moto si perpetui, anzi che né pur per qualche spazio si mantenga equabile, ma ben sempre [p. 244 modifica]vadia languendo. In oltre, è, per mio credere, impossibile lo schivar l’impedimento del mezo, sì che non levi l’equabilità del moto trasversale e la regola dell’accelerazione ne i gravi cadenti. Dalle quali tutte difficoltà si rende molto improbabile che le cose dimostrate con tali supposizioni incostanti possano poi nelle praticate esperienze verificarsi.

SALV. Tutte le promosse difficoltà e instanze son tanto ben fondate, che stimo essere impossibile il rimuoverle, ed io, per me, le ammetto tutte, come anco credo che il nostro Autore esso ancora le ammetterebbe; e concedo che le conclusioni così in astratto dimostrate si alterino in concreto, e si falsifichino a segno tale, che né il moto trasversale sia equabile, né l’accelerazione del naturale sia con la proporzion supposta, né la linea del proietto sia parabolica, etc.: ma ben, all’incontro, domando che elle non contendano al nostro Autor medesimo quello che altri grandissimi uomini hanno supposto, ancor che falso. E la sola autorità d’Archimede può quietare ogn’uno, il quale, nelle sue Mecaniche e nella prima Quadratura della parabola, piglia come principio vero, l’ago della bilancia o stadera essere una linea retta in ogni suo punto equalmente distante dal centro commune de i gravi, e le corde alle quali sono appesi i gravi esser tra di loro parallele: la qual licenza viene da alcuni scusata, perché nelle nostre pratiche gli strumenti nostri e le distanze le quali vengono da noi adoperate, son così piccole in comparazione della nostra gran lontananza dal centro del globo terrestre, che ben possiamo prendere un minuto di un grado del cerchio massimo come se fusse una linea retta, e due perpendicoli che da i suoi estremi pendessero, come se fussero paralleli. Che quando nelle opere praticali si avesse a tener conto di simili minuzie, bisognerebbe cominciare a riprendere gli architetti, li quali col perpendicolo suppongono d’alzar le altissime torri tra linee equidistanti. Aggiungo qui, che noi possiamo dire che Archimede e gli altri supposero nelle loro contemplazioni, esser costituiti per infinita lontananza remoti dal centro, nel qual caso i loro assunti non erano falsi, e che però concludevano con assoluta [p. 245 modifica]dimostrazione. Quando poi noi vogliamo praticar in distanza terminata le conclusioni dimostrate col suppor lontananza immensa, doviamo diffalcar dal vero dimostrato quello che importa il non esser la nostra lontananza dal centro realmente infinita, ma ben tale che domandar si può immensa in comparazione della piccolezza de gli artificii praticati da noi: il maggior de i quali sarà il tiro de i proietti, e di questi quello solamente dell’artiglierie, il quale, per grande che sia, non passerà 4 miglia di quelle delle quali noi siamo lontani dal centro quasi altrettante migliara; ed andando questi a terminar nella superficie del globo terrestre, ben potranno solo insensibilmente alterar quella figura parabolica, la quale si concede che sommamente si trasformerebbe nell’andare a terminar nel centro.

Quanto poi al perturbamento procedente dall’impedimento del mezo, questo è più considerabile, e, per la sua tanto moltiplice varietà, incapace di poter sotto regole ferme esser compreso e datone scienza; atteso che, se noi metteremo in considerazione il solo impedimento che arreca l’aria a i moti considerati da noi, questo si troverà perturbargli tutti, e perturbargli in modi infiniti, secondo che in infiniti modi si variano le figure, le gravità e le velocità de i mobili. Imperò che, quanto alla velocità, secondo che questa sarà maggiore, maggiore sarà il contrasto fattogli dall’aria; la quale anco impedirà più i mobili secondo che saranno men gravi: talché, se bene il grave descendente dovrebbe andare accelerandosi in duplicata proporzione della durazion del suo moto, tuttavia, per gravissimo che fusse il mobile, nel venir da grandissime altezze sarà tale l’impedimento dell’aria, che gli torrà il poter crescere più la sua velocità, e lo ridurrà ad un moto uniforme ed equabile; e questa adequazione tanto più presto ed in minori altezze si otterrà, quanto il mobile sarà men grave. Quel moto anco che nel piano orizontale, rimossi tutti gli altri ostacoli, devrebbe essere equabile e perpetuo, verrà dall’impedimento dell’aria alterato, e finalmente fermato: e qui ancora tanto più presto, quanto il mobile sarà più leggiero. De i quali accidenti di gravità, [p. 246 modifica]di velocità, ed anco di figura, come variabili in modi infiniti, non si può dar ferma scienza: e però, per poter scientificamente trattar cotal materia, bisogna astrar da essi, e ritrovate e dimostrate le conclusioni astratte da gl’impedimenti, servircene, nel praticarle, con quelle limitazioni che l’esperienza ci verrà insegnando. E non però piccolo sarà l’utile, perché le materie e lor figure saranno elette le men soggette a gl’impedimenti del mezo, quali sono le gravissime e le rotonde, e gli spazii e le velocità per lo più non saranno sì grandi, che le loro esorbitanze non possano con facil tara esser ridotte a segno; anzi pure ne i proietti praticabili da noi, che siano di materie gravi e di figura rotonda, ed anco di materie men gravi e di figura cilindrica, come frecce, lanciati con frombe o archi, insensibile sarà del tutto lo svario del lor moto dall’esatta figura parabolica. Anzi (e voglio pigliarmi alquanto più di licenza) che ne gli artifizii da noi praticabili la piccolezza loro renda pochissimo notabili gli esterni ed accidentarii impedimenti, tra i quali quello del mezo è il più considerabile, vi posso io con due esperienze far manifesto. Io farò considerazione sopra i movimenti fatti per l’aria, ché tali son principalmente quelli de i quali noi parliamo; contro i quali essa aria in due maniere esercita la sua forza: l’una è coll’impedir più i mobili men gravi che i gravissimi; l’altra è nel contrastar più alla velocità maggiore che alla minore dell’istesso mobile. Quanto al primo, il mostrarci l’esperienza che due palle di grandezza eguali, ma di peso l’una 10 o 12 volte più grave dell’altra, quali sarebbero, per esempio, una di piombo e l’altra di rovere, scendendo dall’altezza di 150 o 200 braccia, con pochissimo differente velocità arrivano in terra, ci rende sicuri che l’impedimento e ritardamento dell’aria in amendue è poco: che se la palla di piombo, partendosi nell’istesso momento da alto con l’altra di legno, poco fusse ritardata, e questa molto, per assai notabile spazio devrebbe il piombo, nell’arrivare in terra, lasciarsi a dietro il legno, mentre è 10 volte più grave; il che tutta via non accade, anzi la sua anticipazione non sarà né anco la centesima parte di tutta l’ [p. 247 modifica]altezza; e tra una palla di piombo ed una di pietra, che di quella pesasse la terza parte o la metà, appena sarebbe osservabile la differenza del tempo delle lor giunte in terra. Ora, perché l’impeto che acquista una palla di piombo nel cadere da un’altezza di 200 braccia (il quale è tanto, che continuandolo in moto equabile scorrerebbe braccia 400 in tanto tempo quanto fu quello della sua scesa) è assai considerabile rispetto alle velocità che noi con archi o altre machine conferiamo a i nostri proietti (trattone gl’impeti dependenti dal fuoco), possiamo senza errore notabile concludere e reputar come assolutamente vere le proposizioni che si dimostreranno senza il riguardo dell’alterazion del mezo. Circa poi all’altra parte, che è di mostrare, l’impedimento che l’istesso mobile riceve dall’aria, mentre egli con gran velocità si muove, non esser grandemente maggiore di quello che gli contrasta nel muoversi lentamente, ferma certezza ce ne porge la seguente esperienza. Sospendansi da due fili egualmente lunghi, e di lunghezza di 4 o 5 braccia, due palle di piombo eguali, e attaccati i detti fili in alto, si rimuovano amendue le palle dallo stato perpendicolare; ma l’una si allontani per 80 o più gradi, e l’altra non più che 4 o 5: sì che, lasciate in libertà, l’una scenda e, trapassando il perpendicolo, descrive archi grandissimi di 160, 150, 140 gradi, etc., diminuendogli a poco a poco; ma l’altra, scorrendo liberamente, passi archi piccoli di 10, 8, 6 etc., diminuendogli essa ancora a poco a poco: qui primieramente dico, che in tanto tempo passerà la prima li suoi gradi 180, 160 etc., in quanto l’altra li suoi 10, 8 etc. Dal che si fa manifesto, che la velocità della prima palla sarà 16 e 18 volte maggiore della velocità della seconda; sì che, quando la velocità maggiore più dovesse essere impedita dall’aria che la minore, più rade devriano esser le vibrazioni ne gli archi grandissimi di 180 e 160 gradi etc., che ne i piccolissimi di 10, 8, 4, ed anco di 2 e di 1: ma a questo repugna l’esperienza; imperò che se due compagni si metteranno a numerare le vibrazioni, l’uno le grandissime e l’altro le piccolissime, vedranno che ne numereranno non pur le decine, ma le centinaia ancora, senza discordar [p. 248 modifica]d’una sola, anzi d’un sol punto. E questa osservazione ci assicura congiuntamente delle 2 proposizioni, cioè che le massime e le minime vibrazioni si fanno tutte a una a una sotto tempi eguali, e che l’impedimento e ritardamento dell’aria non opera più ne i moti velocissimi che ne i tardissimi; contro a quello che pur dianzi pareva che noi ancora comunemente giudicassimo.

SAGR. Anzi, perché non si può negare che l’aria impedisca questi e quelli, poi che e questi e quelli vanno languendo e finalmente finiscono, convien dire che tali ritardamenti si facciano con la medesima proporzione nell’una e nell’altra operazione. Ma che? l’avere a far maggior resistenza una volta che un’altra, da che altro proced’egli fuor che dall’esser assalito una volta con impeto e velocità maggiore, ed un’altra con minore? E se questo è, la quantità medesima della velocità del mobile è cagione ed insieme misura della quantità della resistenza. Adunque tutti i moti, siano tardi o veloci, son ritardati e impediti con l’istessa proporzione: notizia, par a me, non disprezzabile.

SALV. Possiam per tanto anco in questo secondo caso concludere, che le fallacie nelle conclusioni le quali astraendo da gli accidenti esterni si dimostreranno, siano ne gli artifizii nostri di piccola considerazione, rispetto a i moti di gran velocità, de i quali per lo più si tratta, ed alle distanze, che non sono se non piccolissime in relazione alla grandezza del semidiametro e de i cerchi massimi del globo terrestre.

SIMP. Io volentieri sentirei la cagione per la quale V. S. sequestra i proietti dall’impeto del fuoco, cioè, come credo, dalla forza della polvere, da gli altri proietti con frombe archi o balestre, circa ’l non essere nell’istesso modo soggetti all’alterazione ed impedimento dell’aria.

SALV. Muovemi l’eccessiva e, per via di dire, furia soprannaturale con la quale tali proietti vengono cacciati; ché bene anco fuora d’iperbole mi par che la velocità con la quale vien cacciata la palla fuori d’un moschetto o d’una artiglieria, si possa chiamar sopranaturale. Imperò che, scendendo [p. 249 modifica]naturalmente per l’aria da qualche altezza immensa una tal palla, la velocità sua, mercé del contrasto dell’aria, non si andrà accrescendo perpetuamente: ma quello che ne i cadenti poco gravi si vede in non molto spazio accadere, dico di ridursi finalmente a un moto equabile, accaderà ancora, dopo la scesa di qualche migliara di braccia, in una palla di ferro o di piombo; e questa terminata ed ultima velocità si può dire esser la massima che naturalmente può ottener tal grave per aria: la qual velocità io reputo assai minor di quella che alla medesima palla viene impressa dalla polvere accesa. Del che una assai acconcia esperienza ci può render cauti. Sparisi da un’altezza di cento o più braccia un archibuso con palla di piombo all’in giù perpendicolarmente sopra un pavimento di pietra, e col medesimo si tiri contro una simil pietra in distanza d’un braccio o 2, e veggasi poi qual delle 2 palle si trovi esser più ammaccata: imperò che, se la venuta da alto si troverà meno schiacciata dell’altra, sarà segno che l’aria gli avrà impedita e diminuita la velocità conferitagli dal fuoco nel principio del moto, e che, per conseguenza, una tanta velocità non gli permetterebbe l’aria che ella guadagnasse già mai venendo da quanto si voglia subblime altezza; ché quando la velocità impressagli dal fuoco non eccedesse quella che per se stessa, naturalmente scendendo, potesse acquistare, la botta all’ingiù devrebbe più tosto esser più valida che meno. Io non ho fatto tale esperienza, ma inclino a credere che una palla d’archibuso o d’artiglieria, cadendo da un’altezza quanto si voglia grande, non farà quella percossa che ella fa in una muraglia in lontananza di poche braccia, cioè di così poche, che ’l breve sdrucito, o vogliam dire scissura, da farsi nell’aria non basti a levar l’eccesso della furia sopranaturale impressagli dal fuoco. Questo soverchio impeto di simili tiri sforzati può cagionar qualche deformità nella linea del proietto, facendo ’l principio della parabola meno inclinato e curvo del fine; ma questo, poco o niente può esser di progiudizio al nostro Autore nelle praticali operazioni: tra le quali principale è la composizione d’una tavola per i tiri che dicono [p. 250 modifica]di volata, la quale contenga le lontananze delle cadute delle palle tirate secondo tutte le diverse elevazioni; e perché tali proiezzioni si fanno con mortari, e con non molta carica, in questi non essendo sopranaturale l’impeto, i tiri segnano le lor linee assai esattamente.

Ma in tanto procediamo avanti nel trattato, dove l’Autore ci vuole introdurre alla contemplazione ed investigazione dell’impeto del mobile, mentre si muove con moto composto di due; e prima, del composto di due equabili, l’uno orizontale e l’altro perpendicolare. SIMP. È necessario levarmi un poco di scrupolo che qui mi nasce, parendomi che questo, che ora si conclude, repugni ad un’altra proposizione del trattato passato, nella quale si affermava, l’impeto del mobile venente dall’a in b essere eguale al venente dell’a in c; ed ora si conclude, l’impeto in c esser maggiore che in b. [p. 251 modifica]amendue vere, ma molto diverse tra di loro. Qui si parla d’un sol mobile, mosso d’un sol moto, ma composto di due, amendue equabili; e là si parla di 2 mobili, mossi di moti naturalmente accelerati, uno per la perpendicolare ab, e l’altro per l’inclinata ac. In oltre, i tempi quivi non si suppongono eguali, ma il tempo per l’inclinata ac è maggiore del tempo per la perpendicolare ab; ma nel moto del quale si parla al presente, i moti per le ab, bc, ac s’intendono equabili e fatti nell’istesso tempo.

SIMP. Mi scusino, e seguano avanti, ché resto acquietato.

SALV. Séguita l’Autore per incaminarci a intender quel che accaggia intorno all’impeto d’un mobile mosso pur d’un moto composto di 2, uno cioè orizontale ed equabile, e l’altro perpendicolare ma naturalmente accelerato, de i quali finalmente è composto il moto del proietto e si descrive la linea parabolica, in ciaschedun punto della quale si cerca di determinare quanto sia l’impeto del proietto. Per la cui intelligenza ci dimostra l’Autore il modo, o vogliàn dir metodo, di regolare e misurar cotale impeto sopra l’istessa linea nella quale si fa il moto del grave descendente con moto naturalmente accelerato, partendosi dalla quiete, dicendo:

[p. 254 modifica] SAGR. Fermate, in grazia, perché qui mi par che convenga adornar questo pensiero dell’Autore con la conformità del concetto di Platone intorno al determinare le diverse velocità de i moti equabili delle conversioni de i moti celesti. Il quale, avendo per avventura auto concetto, non potere alcun mobile passare dalla quiete ad alcun determinato grado di velocità, nel quale ei debba poi equabilmente perpetuarsi, se non col passare per tutti gli altri gradi di velocità minori, o vogliam dire di tardità maggiori, che tra l’assegnato grado e l’altissimo di tardità, cioè della quiete, intercedono, disse che Iddio, dopo aver creati i corpi mobili celesti, per assegnar loro quelle velocità con le quali poi dovessero con moto circolare equabile perpetuamente muoversi, gli fece, partendosi loro dalla quiete, muover per determinati spazii di quel moto naturale e per linea retta secondo ’l quale noi sensatamente veggiamo i nostri mobili muoversi dallo stato di quiete accelerandosi successivamente; e soggiugne che, avendogli fatto guadagnar quel grado nel quale gli piacque che poi dovessero mantenersi perpetuamente, convertì il moto loro retto in circolare, il quale solo è atto a conservarsi equabile, rigirandosi sempre senza allontanarsi o avvicinarsi a qualche prefisso termine da essi desiderato. Il concetto è veramente degno di Platone; ed è tanto più da stimarsi, quanto i fondamenti taciuti da quello e scoperti dal nostro Autore, con levargli la maschera o sembianza poetica, lo scuoprono in aspetto di verace istoria. E mi pare assai credibile, che avendo noi per le dottrine astronomiche assai competente notizia delle grandezze de gli orbi de i pianeti e delle distanze loro dal centro intorno al quale si raggirano, come ancora delle loro velocità, possa il nostro Autore (al quale il concetto Platonico non era ascosto) aver tal volta per sua curiosità auto pensiero [p. 255 modifica]d’andare investigando se si potesse assegnare una determinata sublimità, dalla quale partendosi, come da stato di quiete, i corpi de i pianeti, e mossisi per certi spazii di moto retto e naturalmente accelerato, convertendo poi la velocità acquistata in moti equabili, si trovassero corrispondere alle grandezze de gli orbi loro e a i tempi delle loro revoluzioni.

SALV. Mi par sovvenire che egli già mi dicesse, aver una volta fatto il computo, ed anco trovatolo assai acconciamente rispondere alle osservazioni, ma non averne voluto parlare, giudicando che le troppe novità da lui scoperte, che lo sdegno di molti gli hanno provocato, non accendessero nuove scintille. Ma se alcuno avrà simil desiderio, potrà per se stesso, con la dottrina del presente trattato, sodisfare al suo gusto. Ma seguitiamo la nostra materia, che è di dimostrare: [p. 256 modifica] SAGR. La contemplazione del componimento di questi impeti diversi, e della quantità di quell’impeto che da tal mistione ne risulta, mi giugne tanto nuova, che mi lascia la mente in non piccola confusione: non dico della mistione di due movimenti equabili, benché tra di loro diseguali, fatti uno per la linea orizontale e l’altro per la perpendicolare, ché di questi resto capacissimo farsi un moto in potenza eguale ad amendue i componenti; ma mi nasce confusione nel mescolamento dell’orizontale equabile, e perpendicolare naturalmente [p. 257 modifica]accelerato. Però vorrei che insieme digerissimo meglio questa materia.

SIMP. Ed io tanto più ne son bisognoso, quanto che non sono ancor totalmente quietato di mente, come bisogna, nelle proposizioni che sono come primi fondamenti dell’altre che gli seguono appresso. Voglio inferire che anco nella mistione de i due moti equabili, orizontale e perpendicolare, vorrei meglio intendere quella potenza del lor composto. Ora, Sig. Salviati, V. S. intende il nostro bisogno e desiderio.

SALV. Il desiderio è molto ragionevole, e tenterò se l’aver io più lungo tempo potuto pensarvi sopra, può agevolare la vostra intelligenza. Ma converrà comportarmi e scusarmi, se nel discorrere andrò replicando buona parte delle cose sin qui poste dall’Autore.

Discorrer determinatamente circa i movimenti e lor velocità o impeti, siano quelli o equabili o naturalmente accelerati, non possiamo noi senza prima determinar della misura che usar vogliamo per misurar tali velocità, come anco della misura del tempo. Quanto alla misura del tempo, già abbiamo la comunemente ricevuta per tutto, delle ore, minuti primi e secondi etc.; e come per misura del tempo ci è la detta comune, ricevuta da tutti, così bisogna assegnarne una per le velocità, che appresso tutti sia comunemente intesa e ricevuta, cioè che appresso tutti sia l’istessa. Atta per tale uso ha stimato l’Autore, come si è dichiarato, esser la velocità de i gravi naturalmente descendenti, de i quali le crescenti velocità in tutte le parti del mondo serbano l’istesso tenore; sì che quel grado di velocità che (per esempio) acquista una palla di piombo d’una libra nell’esser, partendosi dalla quiete, scesa perpendicolarmente quanto è l’altezza di una picca, è sempre e in tutti i luoghi il medesimo, e per ciò accomodatissimo per esplicar la quantità dell’impeto derivante dalla scesa naturale. Resta poi il trovar modo di determinare anco la quantità dell’impeto in un moto equabile in guisa tale, che tutti coloro che circa di quello discorrino, si formino l’istesso concetto della grandezza e velocità sua, sì che uno non se lo figuri più veloce [p. 258 modifica]e un altro meno, onde poi nel congiugnere e mescolar questo da sé concepito equabile con lo statuito moto accelerato, da diversi uomini ne vengano formati diversi concetti di diverse grandezze d’impeti. Per determinare e rappresentare cotal impeto e velocità particolare, non ha trovato il nostro Autore altro mezo più accomodato, che ’l servirsi dell’impeto che va acquistando il mobile nel moto naturalmente accelerato del quale qualsivoglia momento acquistato, convertito in moto equabile, ritien la sua velocità limitata precisamente, e tanta, che in altrettanto tempo quanto fu quello della scesa passa doppio spazio dell’altezza dalla quale è caduto. Ma perché questo è punto principale nella materia che si tratta, è bene con qualche esempio particolare farsi perfettamente intendere.

Ripigliando dunque la velocità e l’impeto acquistato dal grave cadente, come dicemmo, dall’altezza d’una picca, della quale velocità vogliamo servirci per misura di altre velocità ed impeti in altre occasioni; e posto, per esempio, che il tempo di tal caduta sia 4 minuti secondi d’ora; per ritrovar da questa tal misura quanto fusse l’impeto del cadente da qualsivoglia altra altezza maggiore o minore, non doviamo dalla proporzione la quale quest’altra altezza avesse con l’altezza d’una picca, argomentare e concludere la quantità dell’impeto acquistato in questa seconda altezza, stimando, per esempio, che il cadente da quadrupla altezza avesse acquistato quadrupla velocità, perché ciò è falso: imperò che non cresce o cala la velocità nel moto naturalmente accelerato secondo la proporzione degli spazii, ma ben secondo quella de i tempi, della quale quella degli spazii è maggiore in duplicata proporzione, come già fu dimostrato. Però, quando noi avessimo in una linea retta assegnatane una parte per misura della velocità, ed anco del tempo e dello spazio in tal tempo passato (ché per brevità tutte tre queste grandezze con un’istessa linea spesse volte vengono rappresentate), per trovar la quantità del tempo e ’l grado di velocità che il mobile medesimo in altra distanza arebbe acquistato, ciò otterremo noi non immediatamente da questa seconda distanza, ma dalla [p. 259 modifica]linea che tra le due distanze sarà media proporzionale. Ma con un esempio meglio mi dichiaro.
Nella linea ac, perpendicolare all’orizonte, intendasi la parte ab essere uno spazio passato da un grave naturalmente descendente di moto accelerato; il tempo del qual passaggio, potendo io rappresentarlo con qualsivoglia linea, voglio per brevità figurarlo esser quanto la medesima linea ab; e parimente per misura dell’impeto e velocità acquistata per tal moto pongo pur l’istessa linea ab: sì che di tutti gli spazii che nel progresso del discorso si hanno a considerare, la misura sia la parte ab. Stabilite ad arbitrio nostro sotto una sola grandezza ab queste 3 misure di generi di quantità diversissimi, cioè di spazii, di tempi e di impeti, siaci proposto di dover determinare, nell’assegnato spazio e altezza ac, quanto sia per essere il tempo della scesa del cadente da l’a in c, e quanto l’impeto che in esso termine c si troverà avere acquistato, in relazione al tempo ed all’impeto misurati per la ab. L’uno e l’altro quesito si determinerà pigliando delle due linee ac, ab la media proporzionale ad; affermando, il tempo della caduta per tutto lo spazio ac esser quanto il tempo ad in relazione al tempo ab, posto da principio per la quantità del tempo nella scesa ab. Diremo parimente, l’impeto o grado di velocità che otterrà ’l cadente nel termine c, in relazione all’impeto che ebbe in b, esser quale è la medesima linea ad in relazione alla ab, essendo che la velocità cresce con la medesima proporzione che cresce il tempo: la qual conclusione se ben fu presa come postulato, pur tuttavia volse l’Autore esplicarne l’applicazione di sopra, alla Proposizion terza. Ben compreso e stabilito questo punto, venghiamo alla considerazione dell’impeto derivante da 2 moti composti; uno de i quali sia composto dell’orizontale e sempre equabile, e del perpendicolare all’orizonte e esso ancora equabile; ma l’altro sia composto dell’orizontale, pur sempre equabile, e del perpendicolare naturalmente accelerato. Se amendue saranno equabili, già s’è visto come l’impeto resultante [p. 260 modifica]dalla composizione di amendue è in potenza equale ad amendue, come per chiara intelligenza esemplificheremo così.
Intendasi, il mobile descendente per la perpendicolare ab aver, per esempio, 3 gradi d’impeto equabile, ma, trasportato per la ab verso c, esser tal velocità ed impeto di 4 gradi, sì che nel tempo medesimo che scendendo passerebbe nella perpendicolare, v. g., 3 braccia, nella orizontale ne passerebbe 4: ma nel composto di amendue le velocità viene, nel medesimo tempo, dal punto a nel termine c, caminando sempre per la diagonale ac, la quale non è lunga 7, quanto sarebbe la composta delle 2, ab 3 e bc 4, ma è 5; la qual 5 è in potenza equale alle due 3 e 4. Imperò che, fatti li quadrati del 3 e del 4, che sono 9 e 16, e questi congiunti insieme, fanno 25 per il quadrato di ac, il quale alli due quadrati di ab e di bc è eguale; onde la ac sarà quanto è il lato, o vogliam dir la radice, del quadrato 25, che è 5. Per regola dunque ferma e sicura, quando si debba assegnare la quantità dell’impeto resultante da 2 impeti dati, uno orizontale e l’altro perpendicolare ed amendue equabili, si deve di amendue fare i quadrati, e, componendogli insieme, estrar la radice del composto, la quale ci darà la quantità dell’impeto composto di amendue quelli. E così nell’esempio posto, quel mobile che in virtù del moto perpendicolare arebbe percosso sopra l’orizonte con 3 gradi di forza, e col moto solo orizontale arebbe percosso in c con gradi 4, percotendo con amendue gl’impeti congiunti, il colpo sarà come quello del percuziente mosso con gradi 5 di velocità e di forza; e questa tal percossa sarebbe del medesimo valore in tutti i punti della diagonale ac, per esser sempre gl’impeti composti i medesimi, non mai cresciuti o diminuiti. Veggiamo ora quello che accaschi nel comporre il moto orizontale equabile con un moto perpendicolare all’orizonte, il quale, cominciando dalla quiete, vadia naturalmente accelerandosi. Già è [p. 261 modifica]manifesto che la diagonale, che è la linea del moto composto di questi due, non è una linea retta, ma semiparabolica, come si è dimostrato; nella quale l’impeto va sempre crescendo, mercé del continuo crescimento della velocità del moto perpendicolare. Là onde, per determinar qual sia l’impeto in un assegnato punto di essa diagonale parabolica, prima bisogna assegnar la quantità dell’impeto uniforme orizontale, e poi investigar qual sia l’impeto del cadente nell’assegnato punto, il che non si può determinare senza la considerazione del tempo decorso dal principio della composizione de i 2 moti, la qual considerazione di tempo non si richiede nella composizione de i moti equabili, le velocità ed impeti de i quali son sempre i medesimi; ma qui, dove entra nella mistione un moto che, cominciando dalla somma tardità, va crescendo la velocità conforme alla continuazion del tempo, è necessario che la quantità del tempo ci manifesti la quantità del grado di velocità nell’assegnato punto: ché quanto al resto poi, l’impeto composto di questi 2 è (come nei moti uniformi) eguale in potenza ad amendue i componenti. Ma qui ancora meglio mi dichiaro con un esempio.
Sia nella perpendicolare all’orizonte ac presa qualsivoglia parte ab, la quale figuro che serva per misura dello spazio del moto naturale fatto in essa perpendicolare, e parimente sia misura del tempo ed anco del grado di velocità, o vogliam dire de gl’impeti: è primieramente manifesto, che se l’impeto del cadente in b dalla quiete in a si convertirà sopra la bd, parallela all’orizonte, in moto equabile, la quantità della sua velocità sarà tanta, che nel tempo ab passerà uno spazio doppio dello spazio ab; e tanta sia la linea bd. Posta poi la bc eguale alla ba, e tirata la parallela ce alla bd, e ad essa eguale, descriveremo per i punti b, e la linea parabolica bei. E perché nel tempo ab con l’impeto ab si passa l’orizontale bd o ce, doppia della ab, e passasi ancora in altrettanto tempo la perpendicolare bc con acquisto d’impeto in c eguale al medesimo orizontale; adunque il mobile, in tanto tempo quanto è ab, si troverà dal b giunto in e per la parabola be con un impeto composto di due, ciascheduno [p. 262 modifica]eguale all’impeto ab: e perché l’uno di essi è orizontale e l’altro perpendicolare, l’impeto composto di essi sarà in potenza eguale ad amendue, cioè doppio di uno; onde, posta la bf eguale alla ba e tirata la diagonale af, l’impeto e la percossa in e sarà maggiore della percossa in b del cadente dall’altezza a, o vero della percossa dell’impeto orizontale per la bd, secondo la proporzione di af ad ab. Ma quando, ritenendo pur sempre la ba per misura dello spazio della caduta dalla quiete in a sino in b e per misura del tempo e dell’impeto del cadente acquistato in b, l’altezza bo non fusse eguale, ma maggiore della ab, presa la bg media proporzionale tra esse ab, bo, sarebbe essa bg misura del tempo e dell’impeto in o, per la caduta nell’altezza bo acquistato in o; e lo spazio per l’orizontale, il quale passato con l’impeto ab nel tempo ab sarebbe doppio della ab, sarà in tutta la durazion del tempo bg tanto maggiore, quanto a proporzione la bg è maggiore della ba. Posta dunque la lb eguale alla bg, e tirata la diagonale al, avremo da essa la quantità composta delli 2 impeti orizontale e perpendicolare, da i quali si descrive la parabola; de i quali l’orizontale ed equabile è l’acquistato in b per la caduta ab, e l’altro è l’acquistato in o, o vogliam dire in i, per la caduta bo, il cui tempo fu bg, come anco la quantità del suo momento. E con simil discorso investigheremo l’impeto nel termine estremo della parabola, quando l’altezza sua fusse minore della sublimità ab, [p. 263 modifica]prendendo tra amendue la media; la quale posta nell’orizontale in luogo della bf, e congiunta la diagonale, come af, aremo da questa la quantità dell’impeto nell’estremo termine della parabola.

A quanto sin qui è considerato circa questi impeti, colpi o vogliam dir percosse, di tali proietti, convien aggiugnere un’altra molto necessaria considerazione: e questa è, che non basta por mente alla sola velocità del proietto per ben determinare della forza ed energia della percossa, ma convien chiamare a parte ancora lo stato e condizione di quello che riceve la percossa, nell’efficacia della quale esso per più rispetti ha gran participazione e interesse. E prima, non è chi non intenda che la cosa percossa intanto patisce violenza dalla velocità del percuziente, in quanto ella se gli oppone, e frena in tutto o in parte il moto di quello: ché se il colpo arriverà sopra tale che ceda alla velocità del percuziente senza resistenza alcuna, tal colpo sarà nullo; e colui che corre per ferir con lancia il suo nimico, se nel sopraggiugnerlo accaderà che quello si muova fuggendo con pari velocità, non farà colpo, e l’azzione sarà un semplice toccare senza offendere. Ma se la percossa verrà ricevuta in un oggetto che non in tutto ceda al percuziente, ma solamente in parte, la percossa danneggerà, ma non con tutto l’impeto, ma solo con l’eccesso della velocità di esso percuziente sopra la velocità della ritirata e cedenza del percosso: sì che, se, v. g., il percuziente arriverà con 10 gradi di velocità sopra ’l percosso, il quale, cedendo in parte, si ritiri con gradi 4, l’impeto e percossa sarà come di gradi 6. E finalmente, intera e massima sarà la percossa, per la parte del percuziente, quando il percosso nulla ceda, ma interamente si opponga, e fermi tutto ’l moto del percuziente; se però questo può accadere. Ed ho detto per la parte del percuziente, perché quando il percosso si movesse con moto contrario verso ’l percuziente, il colpo e l’incontro si farebbe tanto più gagliardo, quanto le 2 velocità contrarie unite son maggiori che la sola del percuziente. Di più, conviene anco avvertire che il ceder più o [p. 264 modifica]meno può derivare non solamente dalla qualità della materia più o meno dura, come se sia di ferro, di piombo o di lana etc., ma dalla positura del corpo che riceve la percossa: la qual positura se sarà tale che ’l moto del percuziente la vadia a investire ad angoli retti, l’impeto del colpo sarà il massimo; ma se ’l moto verrà obbliquamente e, come diciamo noi, a scancìo, il colpo sarà più debole, e più e più secondo la maggiore obbliquità; perché in oggetto in tal modo situato, ancor che di materia sodissima, non si spegne e ferma tutto l’impeto e moto del percuziente, il quale, sfuggendo, passa oltre, continuando almeno in qualche parte a muoversi sopra la superficie del resistente opposto. Quando dunque si è di sopra determinato della grandezza dell’impeto del proietto nell’estremità della linea parabolica, si deve intendere della percossa ricevuta sopra una linea ad angoli retti ad essa parabolica o vero alla tangente la parabola nel detto punto; perché, se ben quel moto è composto d’un orizontale e d’un perpendicolare, l’impeto né sopra l’orizontale né sopra ’l piano eretto all’orizonte è il massimo, venendo sopra amendue ricevuto obbliquamente.

SAGR. Il ricordar V. S. questi colpi e queste percosse mi ha risvegliato nella mente un problema o vogliam dire questione mecanica, della quale non ho trovato appresso autore alcuno la soluzione, né cosa che mi scemi la maraviglia o al meno in parte mi quieti l’intelletto. E ’l dubbio e lo stupor mio consiste nel non restar capace onde possa derivare, e da qual principio possa dependere, l’energia e la forza immensa che si vede consistere nella percossa, mentre col semplice colpo d’un martello, che non abbia peso maggiore di 8 o 10 libre, veggiamo superarsi resistenze tali, le quali non cederanno al peso d’un grave che, senza percossa, vi faccia impeto, solamente calcando e premendo, benché la gravità di quello passi molte centinaia di libre. Io vorrei pur trovar modo di misurar la forza di questa percossa; la quale non penso però che sia infinita, anzi stimo che ella abbia il suo termine da potersi pareggiare e finalmente regolare con altre forze di gravità prementi, o di leve o di viti o di altri strumenti [p. 265 modifica]mecanici, de i quali io a sodisfazione resto capace della multiplicazione della forza loro.

SALV. V. S. non è solo, nella maraviglia dell’effetto e nella oscurità della cagione di così stupendo accidente. Io vi pensai per alcun tempo in vano, accrescendo sempre la confusione, sin che finalmente, incontrandomi nel nostro Academico, da esso ricevei doppia consolazione: prima, nel sentire come egli ancora era stato lungo tempo nelle medesime tenebre; e poi nel dirmi che, dopo l’avervi in vita sua consumate molte migliara di ore specolando e filosofando, ne aveva conseguite alcune cognizioni lontane dai nostri primi concetti, e però nuove e per la novità ammirande. E perché ormai so che la curiosità di V. S. volentieri sentirebbe quei pensieri che si allontanano dall’opinabile, non aspetterò la sua richiesta, ma gli do parola che, spedita che avremo la lettura di questo trattato de i proietti, gli spiegherò tutte quelle fantasie, o vogliàn dire stravaganze, che de i discorsi dell’Accademico mi son rimaste nella memoria. In tanto seguitiamo le proposizioni dell’Autore.


[p. 280 modifica] SALV. Or qui si vede, primieramente, come è verissimo il concetto accennato di sopra, che nelle diverse elevazioni, quanto più si allontanano dalla media, o sia nelle più alte o nelle più basse, tanto si ricerca maggior impeto e violenza per cacciar il proietto nella medesima lontananza. Imperò che, consistendo l’impeto nella mistione de i due moti, orizontale equabile e perpendicolare naturalmente accelerato, del qual impeto vien ad esser misura l’aggregato dell’altezza e della sublimità, vedesi dalla proposta tavola, tale aggregato esser minimo nell’elevazione di gr. 45, dove l’altezza e la sublimità sono eguali, cioè 5000 ciascheduna, e l’aggregato loro 10000: che se noi cercheremo ad altra maggiore altezza, come, per esempio, di gr. 50, troveremo l’altezza esser 5959, e la sublimità [p. 281 modifica]4196, che giunti insieme sommano 10155; e tanto troveremo parimente esser l’impeto di gr. 40, essendo questa e quella elevazione egualmente lontane dalla media. Dove doviamo secondariamente notare, esser vero che eguali impeti si ricercano a due a due delle elevazioni distanti egualmente dalla media, con questa bella alternazione di più, che l’altezze e le sublimità delle superiori elevazioni contrariamente rispondono alle sublimità ed altezze delle inferiori; sì che dove, nell’esempio proposto, nell’elevazione di 50 gr. l’altezza è 5959 e la sublimità 4196, nell’elevazione di gr. 40 accade all’incontro l’altezza esser 4196 e la sublimità 5959: e l’istesso accade in tutte l’altre senza veruna differenza, se non in quanto, per fuggir il tedio del calcolare, non si è tenuto conto di alcune frazzioni, le quali in somme così grandi non sono di momento né di progiudizio alcuno.

SAGR. Io vo osservando, come delli due impeti orizontale e perpendicolare, nelle proiezzioni, quanto più sono sublimi, tanto meno vi si ricerca dell’orizontale, e molto del perpendicolare; all’incontro, nelle poco elevate grande bisogna che sia la forza dell’impeto orizontale, che a poca altezza deve cacciar il proietto. Ma se ben io capisco benissimo, che nella totale elevazione di gr. 90, per cacciar il proietto un sol dito lontano dal perpendicolo, non basta tutta la forza del mondo, ma necessariamente deve egli ricadere nell’istesso luogo onde fu cacciato; non però con simil sicurezza ardirei di affermare, che anco nella nulla elevazione, cioè nella linea orizontale, non potesse da qualche forza, ben che non infinita, esser in alcuna lontananza spinto il proietto, sì che, per esempio, né anco una colubrina sia potente a spignere una palla di ferro orizontalmente, come dicono, di punto bianco, cioè di punto niuno, che è dove non si dà elevazione. Io dico che in questo caso resto con qualche ambiguità: e che io non neghi resolutamente il fatto, mi ritiene un altro accidente, che par non meno strano, e pure ne ho la dimostrazione concludente necessariamente. E l’accidente è l’esser impossibile distendere una corda sì, che resti tesa dirittamente e parallela [p. 282 modifica]all’orizonte; ma sempre fa sacca e si piega, né vi è forza che basti a tenderla rettamente.

SALV. Adunque, Sig. Sagredo, in questo caso della corda cessa in voi la maraviglia circa la stravaganza dell’effetto, perché ne avete la dimostrazione; ma se noi ben considereremo, forse troveremo qualche corrispondenza tra l’accidente del proietto e questo della corda. La curvità della linea del proietto orizontale par che derivi dalle due forze, delle quali una (che è quella del proiciente) lo caccia orizontalmente, e l’altra (che è la propria gravità) lo tira in giù a piombo. Ma nel tender la corda vi sono le forze di coloro che orizontalmente la tirano, e vi è ancora il peso dell’istessa corda, che naturalmente inclina al basso. Son dunque queste due generazioni assai simili. E se voi date al peso della corda tanta possanza ed energia di poter contrastare e vincer qual si voglia immensa forza che la voglia distendere drittamente, perché vorrete negarla al peso della palla? Ma più voglio dirvi, recandovi insieme maraviglia e diletto, che la corda così tesa, e poco o molto tirata, si piega in linee, le quali assai si avvicinano alle paraboliche: e la similitudine è tanta, che se voi segnerete in una superficie piana ed eretta all’orizonte una linea parabolica, e tenendola inversa, cioè col vertice in giù e con la base parallela all’orizonte, facendo pendere una catenella sostenuta nelle estremità della base della segnata parabola, vedrete, allentando più o meno la detta catenuzza, incurvarsi e adattarsi alla medesima parabola, e tale adattamento tanto più esser preciso, quanto la segnata parabola sarà men curva, cioè più distesa; sì che nelle parabole descritte con elevazioni sotto a i gr. 45, la catenella camina quasi ad unguem sopra la parabola.

SAGR. Adunque con una tal catena sottilmente lavorata si potrebbero in un subito punteggiar molte linee paraboliche sopra una piana superficie.

SALV. Potrebbesi, ed ancora con qualche utilità non piccola, come appresso vi dirò.

SIMP. Ma prima che passar più avanti, [p. 283 modifica]vorrei pur io ancora restar assicurato almeno di quella proposizione della quale voi dite essercene dimostrazione necessariamente concludente; dico dell’esser impossibile, per qualunque immensa forza, fare star tesa una corda drittamente ed equidistante all’orizonte.

SAGR. Vedrò se mi sovviene della dimostrazione; per intelligenza della quale bisogna, Sig. Simplicio, che voi supponghiate per vero quello che in tutti gli strumenti mecanici, non solo con l’esperienza, ma con la dimostrazione ancora, si verifica: e questo è, che la velocità del movente, ben che di forza debole, può superare la resistenza, ben che grandissima, di un resistente che lentamente debba esser mosso, tutta volta che maggior proporzione abbia la velocità del movente alla tardità del resistente, che non ha la resistenza di quel che deve esser mosso alla forza del movente.

SIMP. Questo mi è notissimo, e dimostrato da Aristotele nelle sue Quistioni Mecaniche; e manifestamente si vede nella leva e nella stadera, dove il romano, che non pesi più di 4 libre, leverà un peso di 400, mentre che la lontananza di esso romano dal centro, sopra ’l quale si volge la stadera, sia più di cento volte maggiore della distanza dal medesimo centro di quel punto dal quale pende il gran peso: e questo avviene, perché, nel calar che fa il romano, passa spazio più di cento volte maggiore dello spazio per il quale nel medesimo tempo monta il gran peso; che è l’istesso che dire, che il piccolo romano si muove con velocità più che cento volte maggiore della velocità del gran peso.

SAGR. Voi ottimamente discorrete, e non mettete dubbio alcuno nel concedere, che per piccola che sia la forza del movente, supererà qualsivoglia gran resistenza, tutta volta che quello più avanzi di velocità, ch’ei non cede di vigore e gravità. Or venghiamo al caso della corda: e segnando un poco di figura
, intendete per ora, questa linea ab, passando sopra i due punti fissi e stabili a, b, aver nelle estremità sue pendenti, come vedete, due immensi pesi c, d, li quali, tirandola con grandissima forza, la facciano star veramente tesa [p. 284 modifica]dirittamente, essendo essa una semplice linea, senza veruna gravità. Or qui vi soggiungo e dico, che se dal mezzo di quella, che sia il punto e, voi sospenderete qualsivoglia piccolo peso, quale sia questo h, la linea ab cederà, ed inclinandosi verso il punto f, ed in consequenza allungandosi, costringerà i due gravissimi pesi c, d a salir in alto: il che in tal guisa vi dimostro. Intorno a i due punti a, b, come centri, descrivo 2 quadranti, eig, elm; ed essendo che li due semidiametri ai, bl sono eguali alli due ae, eb, gli avanzi fi, fl saranno le quantità de gli allungamenti delle parti af, fb sopra le ae, eb, ed in conseguenza determinano le salite de i pesi c, d, tutta volta però che il peso h avesse auto facoltà di calare in f: il che allora potrebbe seguire, quando la linea ef, che è la quantità della scesa di esso peso h, avesse maggior proporzione alla linea fi, che determina la salita de i due pesi c, d che non ha la gravità [p. 285 modifica]di amendue essi pesi alla gravità del peso h. Ma questo necessariamente avverrà, sia pur quanto si voglia massima la gravità de i pesi c, d, e minima quella dell’h: imperò che non è sì grande l’eccesso de i pesi c, d sopra ’l peso h, che maggiore non possa essere a proporzione l’eccesso della tangente ef sopra la parte della segante fi. Il che proveremo così. Sia il cerchio, il cui diametro gai: e qual proporzione ha la gravità de i pesi c, d alla gravità di h, tale la abbia la linea bo ad un’altra, che sia c, della quale sia minore la d, sì che maggior proporzione arà la bo alla d che alla c. Prendasi delle due ob, d la terza proporzionale be, e come oe ad eb, così si faccia il diametro gi (prolungandolo) all’if, e dal termine f tirisi la tangente fn; e perché si è fatto, come oe ad eb, così gi ad if, sarà, componendo, come ob a be, così gf ad fi: ma tra ob e be media la d, e tra gf, fi media la nf: adunque nf alla fi ha la medesima proporzione che la ob alla d, la qual proporzione è maggiore di quella de i pesi c, d al peso h. Avendo dunque maggior proporzione la scesa o velocità del peso h alla salita o velocità dei pesi c, d, che non ha la gravità di essi pesi c, d alla gravità del peso h; resta manifesto che il peso h descenderà, cioè la linea ab partirà dalla rettitudine orizontale. E quel che avviene alla retta ab priva di gravità, mentre si attacchi in e qualsivoglia minimo peso h, avviene all’istessa corda ab intesa di materia pesante, senza l’aggiunta di alcun altro grave; poiché vi si sospende il peso istesso della materia componente essa corda ab.

SIMP. Io resto satisfatto a pieno: però potrà il Sig. Salviati, conforme alla promessa, esplicarci qual sia l’utilità che da simile catenella si può ritrarre, e, dopo questo, arrecarci quelle specolazioni che dal nostro Accademico sono state fatte intorno alla forza della percossa.

SALV. Assai per questo giorno ci siamo occupati nelle contemplazioni passate: l’ora, che non poco è tarda, non ci basterebbe a gran segno per disbrigarci dalle nominate materie; però differiremo il congresso ad altro tempo più opportuno. [p. 286 modifica]

SAGR. Concorro col parere di V. S., perché da diversi ragionamenti auti con amici intrinseci del nostro Accademico ho ritratto, questa materia della forza della percossa essere oscurissima, né di quella sin ora esserne, da chiunque ne ha trattato, penetrato i suoi ricetti, pieni di tenebre ed alieni in tutto e per tutto dalle prime immaginazioni umane; e tra le conclusioni sentite profferire me ne resta in fantasia una stravagantissima, cioè che la forza della percossa è interminata, per non dir infinita. Aspetteremo dunque la commodità del Sig. Salviati. Ma intanto dicami che materie sono queste, che si veggono scritte dopo il trattato de i proietti.

SALV. Queste sono alcune proposizioni attenenti al centro di gravità de i solidi, le quali in sua gioventù andò ritrovando il nostro Accademico, parendogli che quello che in tal maniera aveva scritto Federigo Comandino non mancasse di qualche imperfezzione. Credette dunque con queste proposizioni, che qui vedete scritte, poter supplire a quello che si desiderava nel libro del Comandino; ed applicossi a questa contemplazione ad instanza dell’Illustrissimo Sig. Marchese Guid’Ubaldo Dal Monte, grandissimo matematico de’ suoi tempi, come le diverse sue opere publicate ne mostrano, ed a quel Signore ne dette copia, con pensiero di andar seguitando cotal materia anco ne gli altri solidi non tocchi dal Comandino; ma incontratosi, dopo alcun tempo, nel libro del Sig. Luca Valerio, massimo geometra, e veduto come egli risolve tutta questa materia senza niente lasciar in dietro, non seguitò più avanti, ben che le aggressioni sue siano per strade molto diverse da quelle del Sig. Valerio.

SAGR. Sarà bene dunque che in questo tempo che s’intermette tra i nostri passati ed i futuri congressi, V. S. mi lasci nelle mani il libro, che io tra tanto anderò vedendo e studiando le proposizioni conseguentemente scrittevi.

SALV. Molto volentieri eseguisco la vostra domanda, e spero che V. S. prenderà gusto di tali proposizioni.