Discorsi politici (Guicciardini)/XV. - Giustificazione della politica di Clemente VII

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XV. - Giustificazione della politica di Clemente VII

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XV. - Giustificazione della politica di Clemente VII
XIV. - Sullo stesso argomento. In contrario XVI. - Ragioni che consigliano la signoria di Firenze ad accordarsi con Clemente VII

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XV

[Giustificazione della politica di Clemente vii.]


È sentenzia approvatissima appresso a tutti e’ savi che gli eventi delle cose non sono sicuro giudice delle deliberazione che fanno gli uomini, ma solamente le ragione che gli hanno mosso a deliberare; perché la esperienzia ha mostro spesso consigli prudenti avere sortito infelice fine, e pel contrario in molte azione avere avuto piú parte la felicitá che la prudenzia. E questa diversitá tra gli effetti e le cause accade piú nelle guerre che in qualunche altra cosa umana; perché le sono tanto sottoposte alla potestá della fortuna, che a ogni ora per ogni minimo accidente ricevono variazione grandissima, portando molte volte per caso estraordinario la vittoria a chi era ridotto in ultima desperazione.

Se adunche ne’ tempi nostri ed in questi prossimi anni è accaduto che la guerra la quale prese Clemente VII pontefice romano in compagnia del re di Francia e de’ viniziani contro a Cesare, ebbe infelicissimo fine, poi che in luogo della sperata vittoria e quiete di tutta Italia ne successe carcere nella persona sua propria, el sacco crudelissimo di Roma, ed infinite calamitá universale; non per questo solo s’ha a fare conclusione che la deliberazione di pigliare la guerra fussi imprudente e male considerata. Ma chi vuole condannare el papa di temeritá debbe, se non vuole essere temerario lui, esaminare diligentemente le ragione che lo mossono, perché da queste, non dallo evento, s’ha a fare giudicio della prudenzia o imprudenzia sua. [p. 199 modifica]

Io credo che ordinariamente sia officio di ciascuno principe essere alieno dal fare guerra se non concorrono dua fondamenti: el primo, quello della necessitá, cioè quando si pigliano l’arme per liberarsi da’ pericoli, o almanco per acquistare quello che giustamente se gli appartenessi; l’altro, della facilitá, cioè quando le cose sono disposte in modo che verisimilmente può sperare vittoria, o almanco non sia escluso totalmente della speranza; e che cessando qualunche di questi dua fondamenti, sia tutta ambizione o leggerezza. La quale debbe essere sommamente ripresa, perché nessuna cosa è piú perniziosa a’ popoli che la guerra del suo principe, nessuna partorisce piú e maggiori mali; e l’officio d’ogni principe è astenersi quanto può da tutto quello che offende Dio, da chi ha ricevuto tanto beneficio; curare quanto può la salute de’ suoi sudditi, per interesse de’ quali, non per utilitá propria, è stato messo in tanta altezza. E questa circunspezione si conviene molto piú a uno pontefice romano, di chi è principale la cura spirituale, né gli è stata data la potestá temporale se non per accessoria e sustentacolo di quella; in tanto che se bene gli è concesso pigliare l’armi per difendere da’ pericoli sé e la autoritá della Sedia apostolica, non so se sia sufficiente giustificazione quando lo facessi per recuperare stati temporali della Chiesa, eccetto dove non fussi lo interesse della religione o fede cristiana; perché è forse a lui piú conveniente tollerare qualche danno, che suscitare guerre; cosa tanto calamitosa alle persone ed anime de’ cristiani.

Ma lasciando ora da parte questa disputa come superflua nel caso nostro, io voglio presupporre che se la necessitá di liberarsi da’ pericoli non indusse Clemente alla guerra, che lui merita essere biasimato come pontefice poco consideratore dello officio suo. Dico ancora che se secondo le opportunitá che allora si mostravano, non poteva almanco avere qualche speranza della vittoria, che e’ debbe essere ripreso di imprudenzia; perché non solo chi si muove a acquistare quello che se gli appartiene è temerario a pigliare l’arme se non spera verisimilmente la vittoria, ma ancora chi è nella necessitá, [p. 200 modifica]non debbe entrare in guerra se è escluso di ogni speranza di vincere, massime quando el non difendersi non gli porta subito la ruina totale; perché el tentare di ovviare con le arme a’ pericoli, senza avere forze di farlo con effetto, sempre gli accelera e gli accresce, ed è stultizia grande per fuggire el pericolo minore entrare nel maggiore. Ed in questa vicinitá della ruina totale e presente non pareva fussi Clemente; perché se bene temeva che la grandezza dello imperadore fussi per diminuire la autoritá sua e della Sedia apostolica, non aveva forse da temere che la fussi per distruggere o annichilare el pontificato; e minore male era tollerare qualche indignitá o depressione, che sanza speranza di vittoria pigliare una guerra, donde e lui e la Chiesa fussi per cadere in quegli estremi mali e pericoli. Consideriamo adunche quale fussi allora lo stato delle cose, e se in Clemente fu necessitá e speranza sufficiente a fargli pigliare l'arme.

E’ non è dubio alcuno che la potenzia di Cesare, quando ebbe vinto e fatto prigione el re di Francia, diventò formidolosa a tutta Italia, non vi sendo restato ostacolo che potessi interrompere el corso delle sue vittorie; el quale pericolo apparí molto maggiore quando lui ebbe occupato lo stato di Milano, e ridotto in castello el duca Francesco Sforzia in tanta angustia che, non essendo soccorso, bisognava venissi presto alla dedizione. Ma si mostrò ancora piú spaventoso quando Cesare liberò el re di Francia, ricevuto, tra gli altri patti, cessione da lui delle ragione del ducato di Milano, e promessa di non si intromettere piú in alcuna cosa di Italia, e di dargli armata per favorire la venuta sua a Roma alla incoronazione; per el quale accordo restava certo esclusa ogni speranza di potere resistere a Cesare se el re stava fermo nella osservanzia delle promesse. Spaventava questo pericolo tutti e’ potentati di Italia ed el papa particularmente, che si trovava sanza arme, sanza danari, e con lo stato della Chiesa condizionato di sorte, per la debolezza delle terre e per le fazione de’ sudditi suoi, che essendo assaltato da Cesare, non arebbe avuto forma alcuna di difendersi; in modo che avendo lui da [p. 201 modifica]dubitare e della ambizione ordinaria degli uomini e della insolenzia naturale di chi è vincitore, non gli restava altra sicurtá, non volendo cercare nuovi compagni ed amicizie, che confidarsi nella maestá del pontificato e nella opinione, che insino allora era divulgata da molti, della bontá di Cesare. La quale sicurtá era molto dubia, poi che in tutto dependeva dalla potestá e disposizione di altri; e di chi? D’uno principe oltramontano, principe giovane, potentissimo, fortunatissimo, e che poteva numerare piú vittorie che anni di imperio, ed el quale aveva facultá di coprire le imprese ambiziose con titoli apparenti di ragione; e si sapeva che era ardentemente stimolato da molti suoi ministri di aprire el seno a tanto favore della fortuna, e dirizzare lo animo a fare una monarchia, della quale era el principale fondamento stabilire a vóto suo le cose d’Italia.

Ed ancora che per la bontá sua e per la esperienzia che si è veduta poi di lui, si fussi potuto credere el contrario, nondimeno molte ed efficacissime ragioni concorrevano a farne giustamente sospettare. Prima le antiche e generale: che la potenzia delli imperadori suole essere perniziosa a’ pontefici, essendosi per esperienzia di lunghissimi tempi veduto, che rare volte tra queste dua supreme potestá è stata vera unione e concordia; né è maraviglia, perché l’uno domina e risiede in Roma, l’altro ha el titolo dello imperio di quella e di tante terre che tengono e’ pontefici; e come el papa pretende che la cura spirituale sia tutta sua, cosí lo imperadore pretende essere lui amministratore di tutto el temporale, ed iuridico signore di tutto el mondo. Sono queste dua potestá, cioè la spirituale e la temporale, nomi ed effetti diversi, ma tanto bene corrispondono e quadrano l’una con l’altra, che sempre e’ príncipi hanno cercato di unirle quanto hanno potuto: però ed e’ pontefici pigliano spesso piú della autoritá temporale che non ricerca l’officio loro, ed e’ principi seculari, sempre quando n’hanno avuto occasione, si sono fatti padroni dello spirituale.

Appresso agli ebrei el piú delle volte uno medesimo era principe e pontefice massimo; e se non uno medesimo, era [p. 202 modifica]el pontefice massimo creato dal principe e da lui dependeva; e communemente era di quelle persone che sono reputate una cosa medesima, cioè figliuoli, fratelli o nipoti; nella religione gentile chi era Cesare appresso a’ romani era anche pontefice massimo. Non hanno permesso gli ordini della religione cristiana che sia facile questa coniunzione, ma gli antichi imperadori, benché cristiani, mentre potettono, vollono che ’l pontificato dependessi da loro, sí nella forma della elezione, la quale non aveva effetto sanza la confermazione de’ Cesari, come in volere essere giudici delle calunnie ed imputazioni che fussino loro date. Ed a noi è ancora fresca la memoria di Massimiano, Cesare avo di questo, che essendo restato vedovo, aveva tra le altre sue chimere, avuto disegno di farsi pontefice. Che sicurtá adunche, che certezza poteva avere Clemente, che Cesare, in chi non solo è el nome e titolo cesareo, ma le ragione, la autoritá, la potenzia simile a quella delli antichi Cesari, non aspirassi a restituire la corona imperiale in quella pristina sua maestá e dignitá? a abbassare la autoritá e potenzia de’ pontefici, non tanto per appropriarsi el dominio che loro tengono, quanto perché deprimendo loro o reducendogli dependenti da sé, si toglieva uno de’ piú potenti ostacoli a conseguire el dominio d’Italia, ed a ampliare mirabilmente la sua grandezza?

Aggiugnevansi a queste ragione altre piú particolari e piú fresche; perché se bene Clemente mentre era cardinale avessi favorito caldamente le cose di Cesare, anzi fussi stato uno de’ principali instrumenti a fondare in Italia la sua grandezza, nondimeno poi che fu assunto al pontificato, era cessata presto la confidenzia grande che era prima tra loro, ed in progresso di tempo diventata mala satisfazione, essendo parso a Cesare che nella venuta del re di Francia in Italia el papa non avessi voluto correre piú seco la medesima fortuna, ed a Clemente essere stato doppo la vittoria di Pavia trattato in molti modi male da’ capitani suoi; e non solo sprezzato le sue querele da Cesare, ma veduto che lui non ratificava la capitulazione fatta col viceré, per osservanzia della quale el papa aveva [p. 203 modifica]sborsato grossa somma di danari, e che contro alla forma de’ capitoli, le cose del duca di Ferrara erano intratenute da loro, e mantenute le guarnigione nelle terre della Chiesa, era entrato in suspizione che Cesare non fussi di animo sincero verso di lui, e che per questo e per molti altri segni che tuttodí si vedevano, Cesare non aspirassi al dominio d’Italia.

Le quali suspizioni multiplicando ogni dí in infinito, secondo che è la natura di queste cose come è aperto loro lo adito, spinsono el papa a prestare orecchi a certe pratiche che per mezzo di Ieronimo Morone si tenevano col marchese di Pescara, di dissolvere lo esercito, e dare al marchese el regno di Napoli; le quali essendo venute a luce, accrebbono da ogni banda el sospetto: in Cesare, perché gli parve avere compreso lo animo del pontefice alieno in tutto da sé; nel papa, perché pensò che la suspizione e l’odio fussi cresciuto in Cesare. E tanto piú che lui subito, o necessitato di assicurarsi, o pigliando el pericolo per occasione, occupò lo stato di Milano ed assediò el duca Francesco in castello, donde si augumentò el timore ed el sospetto di tutti, parendo che Cesare caminassi scopertamente al dominio d’Italia, e che gli altri tutti restassino a sua discrezione, se alla autoritá dello imperio ed a tanti regni, e spezialmente a quello di Napoli, parte tanto notabile d’Italia, si aggiugnessi el farsi padrone del ducato di Milano. E tanto piú che in tutte le pratiche che si tennono con Cesare di volere assicurare le cose d’Italia, non si potette mai spiccarlo dal proposito di volere disporre di quello ducato nella persona di monsignore di Borbone, persona che per essere inimicissimo del re di Francia era necessitato dependere totalmente da lui.

Partorirono questi princípi una fine molto suspiziosa per el pontefice; perché avendo lui strettissima pratica di collegarsi col governo di Francia e co’ viniziani in soccorso del duca Francesco, ed avendo a instanzia delli agenti di Cesare, che promettevano che lui accetterebbe certi capitoli proposti da Sua Santitá, consentito di aspettare dua mesi la risposta sua, Cesare, parendogli essere necessitato convenire o col re di [p. 204 modifica]Francia o col papa e con gli altri d’Italia, elesse piú presto lo accordo di Francia, mettendo in libertá lo antico inimico suo; che parve segno manifestissimo di pensare a farsi padrone d’Italia, poi che per poterla avere a sua discrezione aveva manco stimato tante ragione che erano in contrario. Potriansi riferire molte altre particularitá, ma tutte tendono a questo, che per la ambizione ordinaria degli uomini, per quelli fini che communemente hanno avuto gli imperadori, per le diffidenzie nate tra loro e per moltissimi segni, el papa aveva grandissima causa di temere la grandezza di Cesare, al quale lui per sé solo non poteva resistere.

In questo stato delle cose sopravenne la certezza che el re di Francia, giá ritornato nel regno suo, era parato collegarsi col papa e co’ viniziani, ed in compagnia loro soccorrere el duca di Milano; a che el re d’Inghilterra confortava molto el papa, promettendo ancora lui di accostarsi alla lega, e’ viniziani ardentemente lo stimolavano. Che aveva adunche a fare el papa, presupposto che le forze di tanti príncipi collegati fussino tali da potere sperare la vittoria? Aveva egli a volere piú presto che in potestá di Cesare fussi sottoporre Italia, deprimere la persona sua o la autoritá della Sedia apostolica, che mettersi a fare pruova di conservare la libertá della Chiesa e di tutti, e riducere le cose in termine che gli stati di ciascuno fussino sicuri? Certo non poteva dire questo, se non chi avessi portato sicurtá da Cesare, che lui, contento al suo, non fussi per turbare la quiete degli altri, o chi fussi di opinione che a uno pontefice romano, essendo vicario di Dio in terra ed avendo per principale obietto la salute delle anime, si appartenessi piú presto lasciare ogni cosa in preda che implicarsi in guerre.

Delle quali ragione nessuna è vera, perché la sicurtá che Cesare non avessi a travagliare gli stati di alcuno, si poteva piú presto sperare che affermare, non potendo alcuno prudente promettere quello che depende da altri. Ed ancora che la fama che insino allora era in bocca di molti, e la esperienzia di quello che si è veduto di poi, avendo lui nella venuta sua in [p. 205 modifica]Italia onorato santissimamente ed esaltato la persona del pontefice, restituito con somma bontá e generositá al duca Francesco Sforzia lo stato di Milano, e fatto ogni opera perché Italia, sicura della potenzia e delle arme sue, restassi tutta in pace, faccia fede che lui anche allora sarebbe stato inclinato alla sicurtá e quiete di tutti; nondimeno neanche queste ragione bastavano a fare deliberare el papa a rimettersi totalmente a sua discrezione. Perché se bene tutto quello che ora ha fatto Cesare, l’abbi fatto per sua natura e per desiderio di pace, e non perché per la lunga esperienzia e travagli seguíti poi, abbia cognosciuto piú difficultá d’appresso che non immaginava da lontano, o perché al presente le cose d’Italia si trovassino in altri termini che non erano allora, o perché sia stato necessitato pensare a’ pericoli imminenti da’ turchi e da’ luterani alla Ungheria ed alla Germania, essendo, dico, certissimo ciascuno che la sua bontá e non alcuna necessitá è stata causa di queste sante deliberazione, chi poteva allora prometterselo sí al sicuro, che avessi a lasciare riducere le cose totalmente in arbitrio suo?

Non si era ancora veduto di lui e della mente sua sí certa esperienzia che assicurassi questa opinione; anzi dava ombra in contrario le dimostrazioni e le opere de’ capitani suoi d’Italia, delle quali se bene venivano le querele agli orecchi suoi, non si vedeva farvi alcuna provisione; facevano dubio tante altre ragione discorse sopra, ed el considerare bene la natura de’ principi, e’ quali ancorché lungamente siano stati buoni ed alieni dalla ambizione, accade spesso che invitati dalle occasione, alterati dagli sdegni, spinti da’ sospetti, mutano natura ed operano el contrario di quello che prima hanno avuto in animo; ed è anche vizio naturale degli uomini, che dove hanno qualche apparenzia di ragione si persuadono facilmente le imprese sue essere giustissime e santissime. Ed in Cesare mancano forse colori di potere tirare a sé legittimamente tutta la autoritá temporale? poi che le legge dicono che lui è signore di tutto el mondo, ha gli esempli degli antichi Cesari, e quando bene non avessi voluto deprimere la autoritá [p. 206 modifica]della Sedia apostolica, gli mancava occasione di cercare di abbassare el papa, con chi forse aveva odio, per via di concili desiderati e ricercati da molti come necessari per la eresia di Luther che ogni dí ampliava, e per molti disordini che sono nella Chiesa? Di poi che cosa piú oscura, piú incerta, piú fallace che e’ cuori delli uomini pieni di infinite latebre e laberinti? Però è stata sempre opinione verissima de’ savi, che mai alcuno o principe o privato si può chiamare sicuro d’altri, se non quando le cose sono disposte in modo che lui non ti possa nuocere, perché della voluntá d’altri non si può avere alcuna certezza o sicurtá, poi che è nascosta e mutabile; e quando bene ne potessi restare sicurissimo, ciascuno principe che è veduto dependere in tutto dalla discrezione di altri, resta senza riputazione, senza degnitá, senza maestá, piú presto col nome, con l’abito, con gli ornamenti di principe che con la potestá, con la sustanzia ed effetti.

Le quali ragione, se io non mi inganno, ci sforzano a concludere che se bene, considerato quello che Cesare ha fatto di presente, el papa sarebbe potuto riposarsi in sulla opinione della sua bontá, che e’ non sarebbe stato prudente a farlo, né a volere correre pericolo di ingannarsi in caso tanto importante non solo alla persona sua, ma alla Sedia apostolica ed al beneficio commune di tutta Italia. Né si può, anche se si discorrono le cose per l’ordine loro, dire che el papa dovessi lasciare piú presto in preda lo stato e la autoritá della Chiesa che pigliare l’arme, perché io credo che sia officio d’ogni buono e prudente pontefice conservare el grado e la autoritá lasciatagli dagli antecessori suoi, massime che declinando di quella perderebbe non manco lo spirituale che el temporale.

Io confesso essere proprio ufficio del papa la cura spirituale, e dico piú, che molto maggiore e piú potente farebbe uno pontefice la autoritá spirituale, se non gli fussi turbata, che tutta la temporale che lui potessi avere; e che el dimettere le cure temporali lo farebbe piú sicuro, piú grande, piú reverendo nel conspetto di tutta cristianitá, se gli uomini fussino di quella [p. 207 modifica]bontá che doverebbono essere. Ma essendo el mondo pieno di malignitá, chi dubita che se uno pontefice non aiutassi le cose sue con ogni spezie d’arme e di potenzia, che sarebbe annichilato non manco nello spirituale che nel temporale? Perché ciascuno principe lo vorrebbe constringere a distribuire a modo suo e’ benefici, le dignitá, le dispense e gli altri tesori e facultá ecclesiastiche; a’ quali consentire sarebbe perniziosissimo, ed el recusare pericoloso alla persona sua ed alla Chiesa, e di gravissimo scandolo universale.

Le cose per lunghissimi tempi sono transcorse in luogo, e si è tanto smarrita la reverenzia, la devozione ed ogni forma di santo vivere, che solamente la vita esemplare e la santitá de’ pontefici non basta a riducerle al grado suo se non in processo di lunghissimo tempo; bisogna sia seguitata dal resto della corte, accompagnata dalla voluntá de’ principi e favorita dal consenso universale. Le quali cose se uno pontefice volessi conducere per violenzia, sarebbe prima oppresso che vi avessi fatto alcuno fondamento; ed el tirarle innanzi con persuasioni e con lo esemplo, ha bisogno di tempo sí lungo e di tanta fortuna, che prima sarebbe ridotto in ultimo disprezzo el pontificato e perito lo infermo, innanzi avessi potuto aspettare la operazione della medicina. Però è necessario che uno pontefice, essendo di costumi integri ed esemplari, e ritenendo sempre ottima mente, accompagni el governo universale del pontificato con la memoria di essere ancora principe, e che non si può lasciare cadere l’uno che non vadia in terra l’altro; sprezzate le opinioni false di chi si persuade altrimenti, non pigli le arme per cupiditá d’imperio, non per odio o per vendetta, ma si difenda piú presto con le arme che lasciarsi tôrre la potestá temporale; perché poi che quella gli è stata o data o tollerata sí lungamente, è sua; e statagli lasciata dagli antecessori è obligato restituirla a’ successori; e perché non può essere violata questa che non patisca la autoritá spirituale, ed aprasi la via a mettere l’ordine ed el governo ecclesiastico ne’ príncipi laici; che è quello che e’ sacri canoni hanno al continuo tanto proibito e detestato. [p. 208 modifica]

Era adunche Clemente, acciò che in potestá di Cesare non fussi violare la autoritá del pontificato e sottoporsi Italia, in necessitá manifesta di pigliare l’arme, pur che avessi speranza verisimile di potersi difendere. Circa a questo, che è l’ultimo articolo del discorso nostro, io parlerò brevemente, perché sarebbe troppo lungo discorrere tutti e’ particulari, e perché la cosa è sí fresca che gli uomini facilmente possono riducersi in memoria e’ fondamenti principali. Dico adunche, che pigliando Clemente le arme con la lega ed apparati che si feciono, non solo non doveva desperare la vittoria, ma n’aveva quella speranza che si può avere nelle guerre, del fine delle quali non si può avere certezza alcuna, essendo tutte dubie e sottoposte alla potestá della fortuna. Perché essendo da una banda apparato grandissimo d’arme e di danari; dall’altra uno piccolo esercito senza provisione alcuna necessaria alla guerra, e massime penurioso di danari; senza speranza di soccorso propinquo; co’ popoli dello stato di Milano inimicissimi e con molte altre difficultá; Cesare lontano, ed a chi secondo e’ capituli della lega aveva el re di Francia a rompere subito guerra di lá da’ monti; ed e’ collegati tutti correndo in questa impresa grandissimi interessi, non pareva restassi altro dubio di felice fine che o la fortuna di Cesare stata insino a quello di grandissima, o che el re di Francia, per essere e’ suoi figliuoli in mano di Cesare, procedessi freddamente.

El dubio della fortuna non era cagione sufficiente a fare ritirare e’ príncipi da una impresa che pareva quasi vinta; perché questo è proprio della fortuna, essere instabile ed incerto; e chi lungamente l’ha avuta favorevole tanto piu debbe temere la sua mutazione, e coloro massime che non la sapendo o ricevere o conservare, l’hanno provocata a partirsi da sé, come pareva che avessi fatto Cesare; poi che, con consiglio che da ciascuno fu giudicato imprudentissimo, aveva liberato el re di Francia e voluto piú presto fidarsi di uno inimico suo naturale che di quelli che, rimosso el timore, desideravano essergli amici. Né era ragionevole che el re di Francia non [p. 209 modifica]procedessi nella guerra con la debita caldezza; perché avendo mancato di osservare la capitulazione di Madril, né voluto recuperare e’ figliuoli per via della pace, anzi collegatosi a nuova guerra contro a Cesare, quanto piú la guerra si faceva gagliarda e potente, tanto piú poteva sperare la recuperazione de’ figliuoli, e che el rigore dello accordo fatto si riducessi a qualche condizione piú piacevole; e tanto piú che per la etá tenera de’ figliuoli, la dilazione del recuperargli non era di tale preiudicio che per questo avessi a mancare allo onore ed utilitá sua, e per dire meglio, a sé medesimo.

Che la speranza della vittoria fussi grande in favore della lega ne è sufficiente testimonio el progresso della guerra, che per sé medesima, per la grandezza delle forze e difficultá infinite degli inimici, senza favore alcuno estraordinario della fortuna, senza industria o virtú de’ capitani, andò insino all’ultimo punto della vittoria, né ebbe altro inciampo che gli errori manifesti di chi aveva el carico della impresa, nonostante che lo esercito de’ collegati si fussi condotto in sulle mura di Milano sanza svizzeri, che era el fondamento principale che si era disegnato ed ordinato. Ma che maggiore testimonio vogliamo noi che quello degli inimici medesimi, e’ quali innanzi che si rompessi la guerra e poi, mostrorono temere di non potere sostenere tanto impeto? Che indusse Cesare a liberare el re di Francia se non el diffidare di potere resistere alla Italia ed alla Francia insieme? E se temé di questo quando si trattava la lega col governo di Francia confuso ed attonito per la prigione del suo principe, quanto è da credere che piú ne temessi poi che el re di Francia libero e ridotto in Francia era diventato capo della lega? Nel quale tempo Cesare dubitò tanto dello esito delle cose che mandò al papa in poste don Ugo di Moncada con espressa commessione di rilasciare lo stato di Milano, che era la causa per la quale sola el papa e viniziani entravano nella nuova guerra; la quale offerta si sarebbe accettata, se el papa, essendo giá fatta la lega nuova, avessi voluto mancare della sua fede al re di Francia. [p. 210 modifica]

Sentiva adunche Cesare in quanto pericolo erano le cose sue; sentivanlo e’ capitani e li agenti suoi, e’ quali, soliti sempre confortarlo alla guerra, persuadevano in questo tempo e desideravano la pace. Furono intercette lettere di don Ugo a Cesare date in Siena, quando partito da Milano andava a Roma per trattare la concordia col papa, nelle quali avendo el dí medesimo avuto certezza in Firenze della lega fatta, lo conforta caldissimamente alla pace, mostrando la grandezza del pericolo ed uno consenso ardentissimo di tutta Italia contro a’ soldati spagnuoli. Furono intercette lettere del marchese del Guasto e di Antonio di Leva, capitani allora dello esercito, scritte al duca di Sessa, oratore cesareo in Roma, ed al medesimo don Ugo, nelle quali largamente concludono le cose loro non avere rimedio, riscaldando e sollecitando quanto potevano la concordia col papa. Adunche non senza cagione el papa sperò la vittoria; adunche con buoni fondamenti cominciò una guerra desiderata estremamente da tutta Italia, come giudicata necessaria alla salute universale; e se allo effetto delle guerre importa cosa alcuna la giustizia della causa, che cagione se non onorevole, se non giusta, se non santa, indusse el papa a questa impresa? Nella quale non cercò altro che, restituito lo stato al duca di Milano, cosa di tanto momento alla sicurtá commune, Italia tutta si riducessi in una ferma e tranquilla pace; non capitulò di occupare quello d’altri; non acquistò alcuno particulare o per la Chiesa o per la famiglia sua; non di spogliare Cesare degli stati suoi, se non in quanto si trattò, che non bastando la guerra di Lombardia a indurlo alla pace, si assaltassi el regno di Napoli, con condizione però che eziandio acquistato che fussi, si restituissi a Cesare, se fra certo tempo accettassi e’ capitoli della pace, e che alla fine persistendo lui nella sentenzia sua, vi si eleggessi con consenso commune de’ collegati, uno re che fussi a proposito per beneficio di tutti.

Indusse adunche el papa a questa impresa e la necessitá e la speranza, l’una e l’altra grandissima e ragionevole, e però chi temerariamente e mosso solo dallo effetto, lo biasima di [p. 211 modifica]imprudenzia o di cupiditá, tacia in futuro; o se pure non vuole farlo, si può debitamente usargli contro la giustissima imprecazione di colui, che sdegnato della ignoranzia di quelli che giudicano le cose dagli effetti, pregò che tali persone in tutte le sue azioni mancassino sempre di prosperi successi, acciò che con la esperienzia in sé proprio imparassino, che la prudenzia ed e’ buoni consigli degli uomini non sono sufficienti a resistere né alla voluntá di Dio, né alla potestá della fortuna.