Disjecta - Canti del cuore/I. U. Tarchetti
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I. U. TARCHETTI
Ebbe anima grande e sdegnosa, cuore splendidamente largo e generoso e attraversò la terra come un mendico.... Questa esistenza non durò che quattro anni.
S. Farina. |
Aleardo Aleardi ammiccavano di dietro alle stecche verdi delle persiane le placide Marie e le Elise sentimentali; o, secure del fatto loro, gli venivano a’ fianchi riboccando o scollando pudicamente le sottane a mostrare così, senza timor di peccato, il languido piede o le nevi intatte del seno. Egli superbamente altero e severamente sdegnoso, torcendo il guardo da tanta vergogna e, bevendo alle limpide e fresche fonti della vita ed, incalorandosi all'eterno sole del vero, dava al mondo le geniali creature del pensier suo, belle della bellezza serena, onde, immortalmente divine, vivono ancora, spiratrici de’ poeti le Grazie.
E l’arte, che per lui non fu mai vanità, egli non seppe nè volle mutar giammai in facile mezzo di lucro o di guadagno. L’arte per Tarchetti fu necessità, fu bisogno. — Chi, se pur egli lo avesse voluto, chi gli avrebbe tolto di condurre una vita, se non agiata, almeno tranquilla? Ma dentro al petto gli ruggiva insistente il suo terribile dimonio ed ei non seppe, nè potè resistere a’ balzi ed a gli urti continui del suo core d’artista. In milizia fino a’ ventisei anni, corse da un capo all’altro l’Italia e si doleva come uno schiavo che ha incatenati i polsi e imbavagliata la bocca. «A ventidue anni, con tante belle idee nel capo, con tanti affetti nel cuore doversi seppellire tra le mura di un uffizio e contemplare il sole di maggio attraverso le gretole di una persiana! L’infimo degl’insetti, che ronza nella mia camera, l’infimo uccello che canta in un piccolo giardino del cortile sono infinitamente di me più felici; essi vengono, vanno, vedono il sole, contemplano la natura; io darei tutta la mia vita per una sola delle loro giornate!» — E questo non è il solito retorismo degli elegiaci, che fanno il mestiere, non è il solito piagnisteo dei giovanetti addolorati a diciotto anni; questo è grido di anima che si rompe, queste sono fibre di cuore, che mette sangue.
Il povero Tarchetti era destinato a sentire la vita, a comprenderla tutta; ad amarla nelle sue ebbrezze, a sfidarla nelle sue lotte, a ricercarla nelle sue pieghe più difficili, ne’ suoi meandri più intricati: soldato, l’ingegno e l’anima elettissimi gli morivano dentro, gli si atrofizzavano.
All’aperto! all’aperto! — e quando ei potè vedere il sole e contemplare la natura, quando in se stesso potè studiare gli uomini e la vita e quando questa sentì fluire larga, calda, abbondevole per tutte le vene non fu miracolo se il primo passo, ch’ei fece su la via, che poi dovè correre con tanta lena, non fu miracolo ripeto se quel primo passo lasciò orma secura, incancellabile, profonda. — Tarchetti non lo aveva appreso da nessuna rettorica, non lo aveva letto in nissun trattato; ma sapeva che l’arte più che espressione è rivelazione piena e splendida di tuttaquanta la vita.
E cominciò.
E la prima volta il suo nome io lo lessi fra i collaboratori alla Rivista Minima del Ghislanzoni. Scriveva articoli di critica letteraria ed erano riviste di libri nuovi, nelle quali faceva mostra d’ingegno arguto e di animo gentilissimo. Molti, dopo ciò, gli predissero una vita letteraria assai corta, dove altri — per i continui accenni, che, capitandogli il destro, egli faceva di alcune sue idee intorno al romanzo — divinarono che quello fra tutti sarebbe stato il genere di letteratura, che lo avrebbe dippiù appassionato. — Ned egli volle tardare molto a dimostrare che veramente erano ben fondate le speranze di questi ultimi e subito incominciò e condusse a termine il suo primo racconto: Paolina.
Era la storia di una fanciulla povera, una crestaia del portico de’ Figini, che sedotta e tradita moriva consumata di dolore, dopo essere vissuta tristamente, per qualche tempo... Era la delicata canzone, anzi la elegia malinconica di un cuore triste ed innamorato. Ma, letto da pochi, quel libro incontrò per via la mala fortuna ed, in breve, quanti ne aveano avuto contezza tanti lo dimenticarono.1 Egli restò come colpito nel cuore da così fredda indifferenza, e mostrando a questo modo di tenere il broncio col pubblico, volle tacere per più di un giorno e tacque.
Noi non possiamo ora fermarci ad analizzare un lavoro, che, in progresso di tempo l’autore medesimo riteneva per abortito; ma non vogliamo tenerci dal dire che ebbe torto il Tarchetti nel chiamarsi offeso dal ricevimento fatto all’opera sua forse quanto non ebbe ragione il pubblico accogliendola come l’accolse. È verissimo: ci era in quel romanzo un brutto errore nel modo di presentare un soggetto che non aveva nemmanco il pregio della novità; ma si vedeva pur chiaro che lo scrittore di quelle pagine avea da natura sortito cuore nobile e generoso, che la mente di lui era fatta per lavori di maggior lena e che questi sarebbero riusciti a destare interesse molto più vivo di quello che non avea potuto la storia di Paolina.
Ma infiacchirsi fallita appena la prima volta la strada è segno di animo pusillo e di mediocre ingegno, e Tarchetti, che non aveva nè l’uno nè l’altro, decise di tentare novellamente la prova, e ci si pose con salda volontà di riuscire e di superarla. Guardò sè stesso, interrogò il proprio cuore, tornò con la memoria al passato della propria vita, studiò gli uomini in mezzo ai quali vivea; volle conoscere che cosa essi fossero, quali i loro bisogni; e dal suo cuore e da quegli uomini e dalla immensa natura apprese quella parola che, a lui artista, dovea poi servire di mezzo per cercare la via di consolare l’umanità, sottraendola al peso dell’infortunio e ponendola in cammino per l’acquisto della libertà e del diritto. Egli camminava così per la via delle lacrime e dell’amore.
E seppe: che gli uomini sono nati per questo: che l’amore è la sola legge che li governa, e che il più fiero assassinio è lo interrompere questa stupenda ed universale armonia. Che barbari veramente sono coloro i quali cercano di destare o tener desti gli odii, i rancori e le inimicizie tra popolo e popolo, tra nazione e nazione. Che le guerre sono infami e selvaggie brutalità, le quali non riescono mai a beneficio di tutto il genere umano, sì bene sempre ad utile e guadagno di pochi e molte molte volte di un solo.
Che il tener gente sempre in arme e guardinga è pruova di corruzione, di vizio, di paura; perchè non è già potente e temuto un popolo, che si appoggia alle baionette; ma un popolo che sappia che cosa valgano decoro e virtù con coscienza del proprio onore e del proprio diritto.
Che la permanenza degli eserciti è un errore, un male, una colpa, un cancro che divora gli averi, la vita e, quello che è più prezioso, la libertà.
E Tarchetti non ebbe a fare altro che ricordare e, rannodando le proprie memorie, scrisse i Drammi della vita militare, i quali non sono che la storia degli anni da lui vissuti respirando l’aria malsana di una caserma. Quel libro improntato di una peregrina originalità, quel libro nel quale la feconda abbondanza delle idee s’intreccia maravigliosamente ad un profondo studio del cuore umano, quelle pagine nelle quali sono stupende e vive le dipinture della natura: quelle pagine destarono l’attenzione di quasi tutta quanta la stampa in Italia, ed il Tarchetti, l’autore della Paolina, prese una gloriosa rivincita su tutti quelli che lo avevano dimenticato.
Ma chi erano coloro che rettamente potevano giudicare cotesti Drammi della vita militare?
Erano i soldati, i partigiani o difensori delle milizie stanziali, i così detti maestri dell’arte, gli artisti, il popolo.
I soldati comprarono il libro, lo lessero, se ne innamorarono lo mandarono a mente. Quando loro fu tolto di mano e proibito di leggerlo, se lo procurarono di nascosto, in ogni modo, dovunque. E fu un continuo benedire a la generosità del Tarchetti, il quale aveva saputo dire al mondo quali erano i veri dolori del soldato. Era questa una maniera di giudizio assai lusinghiera per lui, la quale voleva dire: lo scrittore di questo libro ha detto arditamente e schiettamente la verità.
I partigiani delle milizie stanziali cercarono di soffocarlo sotto la cospirazione del silenzio, credendo così di giungere a farlo dimenticare; ma eglino arrivarono troppo tardi e dovettero accontentarsi di discuterlo, e non potendo fare altro, anco di confutarlo, rimenando le cose al punto, da dove il Tarchetti era di già partito. Lusinghiero giudizio anche questo, perchè, discutendo le teorie, si lasciava il libro andare felicemente per la sua strada.
I così detti maestri nell’arte dello scrivere cercando nell’opera del Tarchetti la forma liscia, lo stile piano, ed il periodo armonioso, si scandolezzarono non trovandovi quasi nulla di tutto questo e non seppero persuadersi nè comprendere perchè si elogiava tanto un libro, che certo non era scritto nè con la maniera del Boccaccio, nè con quella di Mons. della Casa. — Poveretti, quei buoni maestri! essi non sapevano che il discepolo, sgusciato di scuola, li aveva dimenticati, e non scriveva nè punto nè poco per essi!
Restavano gli artisti, questi malati d’amore, ed il popolo, questo indocile di scuole, i quali, più che ammirarlo, amarono il Tarchetti, perchè lo compresero e benedissero all’opera di lui, perchè sgorgata dal cuore, netta, pura, sincera come acqua di sorgente.
Aveva in animo di pubblicare una intera serie di romanzi tendenti tutti allo scopo di combattere la teoria degli eserciti permanenti; ma le esigente di quella che About chiama con una frase tristamente felice, letteratura alimentare, lo posero nella dura impossibilità di continuare.
A questa seconda epoca della vita di lui, epoca fortunosissima, noi dobbiamo i cinque racconti fantastici: I Fatali, Le leggende del castello nero, La lettera U, Un osso di morto, Uno spirito in un lampone, e quei tre altri ch’egli raccolse ed intitolò: Amore nell’arte, cioè Lorenzo Alviati, Riccardo Waitzen e Bouvard.
Quelle pagine affrettate, scritte la notte per pubblicarle poi a la mattina, quei racconti sollecitamente pensati e più sollecitamente dettati, mentre rivelano quale inesauribile sorgente di bellezze fosse il cuore del Tarchetti, sono un argomento dippiù per persuaderci che si deve andar molto cauti nel giudicare, di qualunque specie esse sieno, le opere d’arte, e che non si debbono queste così facilmente sottoporre a certe leggi inappellabili, le quali poi non hanno riscontro alcuno con le realità della vita. Se Tarchetti avesse avuto il tempo di pensare un poco dippiù a quello che scriveva, se il bisogno di vivere non lo avesse così biecamente incalzato, se nello stesso tempo avesse potuto contenere il proprio cuore e vincere la febbre di espandersi che lo divorava, certo che quei racconti o egli non li avrebbe per nulla mandati in giro, o, se questo avesse fatto, non li avrebbe lasciati lì come sono.
Con qual diritto dopo tutto gli rimprovereremmo ora noi di essere in quei racconti caduto così spesso nel vacuo, nel leggiero, nel contradditorio?
Fosca, che fu l’ultima elegìa cantata da quell’anima addolorata, c’impone di tacere e di non avventare così sprovvedutamente un giudizio. Le pagine di quel racconto non hanno avuto, nè, mi penso, avranno riscontro in alcuna letteratura mai: sono desse così terribilmente vere! La fantasia e la immaginazione non entrano per nulla nella dipintura di quelle scene. L’uomo che è stato cotanta parte di quei miserrimi eventi, il cuore che ha sentito quei dolori, quelle angoscie, quegli strazi, soltanto quel cuore poteva farne il racconto; sicchè il pregio massimo di quel libro, sarei quasi per dire, sta nell’essere molto sentito ed assai poco pensato.
Ma anco egli il melanconico e disdegnoso Ugo alcuna volta sorrise, e in quei momenti rapidi come baleno, dettò delle pagine, per le quali nutriva desiderio di rallegrare coloro che le avrebbero lette. Ma credetemi non fu che un leggiero mutamento di forme. In diversa cadenza ei modulò la elegia del dolore che gli cantava così frequentemente nell’anima.
Il cuore di Tarchetti rimase sempre lo stesso anche quando egli pose sul viso la maschera e vestì l’abito del gioviale. Sotto a quella maschera composta a sorriso era la faccia pallida di un mortificato della fortuna, sotto a quelle vesti batteva il cuore del martoriato che si spense sì presto.
Ci fu taluno, il quale disse che al Tarchetti piaceva di soverchio il dipingere il brutto ed il deforme; che per ciò quella sua non era arte; ma era artefizio per matta voglia di farsi vedere e distinguere. No; Tarchetti non seppe mai in che consistessero queste turpi brutture. L’arte, lo abbiamo già detto, era insistente bisogno dell’anima sua e, disdegnoso di ogni legge, ei non si accontentava che di mostrarsi quale era.
Ed ei fu davvero quale noi lo leggiamo.
Per lui non pastoie di norme, di regole, di cancelli. La natura tutta in lui ed egli tutto nella natura. Mi par questa la norma più secura, da cui debbe essere guidato chi vuole giudicarlo nelle opere e nella vita. E nella natura egli trovò il migliore di tutti gli esempi e, a seconda di quella, ei spirò e diè vita alle opere sue. — Perciò I fatali e Lorenzo Alviati, perciò Paolina e le Leggende del castello nero, perciò Fosca e i Drammi della vita militare perciò il bellissimo sonetto
Ella era così fragile e piccina
ed il Memento ed i versi ad una rondine. Sono nebbie e raggi di sole, cieli azzurri ed orizzonti grigiastri, praterie verdi, vivide riscintillanti e distese di arene vacue, calve, deserte; son ruggiti di lioni e gorgheggi di rosignuoli, salti di scoiattolo e voli di mosca, occhio che piange e labbro che sorride, un ricercarsi, un assimilarsi, un fondersi di contradittori, di opposti, di contrarï. Bello e brutto, grottesco e simmetria, forza e materia, l’ala del genio ed il cervello del cretino, tutta la vita, tutta la natura, come desse sono nella invitta e potente manifestazione delle proprie forme senza mende, senza raccorciature, senza sottintesi, senza menzogne. E questo assiduo muoversi, questo continuo agitarsi, questa eterna e baliosa giovinezza di tutto l’essere à le sue frasi varie, à le sue parole diverse non uniformi, non gelide, non fossili ma vive sempre e dalle cento facce, dalle mille pose, dalle infinite parvenze. — Ci fu chi osservò al Tarchetti che egli non sapeva scrivere e lo scempio non era che un miserabil grammatico, che scrivendo mezza pagina di un giornalucciaccio semiserio riusciva mirabilmente a lardellarla di spropositi lordi e di sudiciume da trivio, scrivendo pur co ’l Fanfanni sottocchi e la gramatica alle mani; ma col core di sughero e col cervello di stoppa. — La frase del Tarchetti rude; ma efficace vi s’incide nel cervello, la sua parola rapida, svelta, sollecita, vi piglia tutta l’anima e ve la commove. Quando lo avrete compreso lo amate, non potete comprenderlo senza amarlo.
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In quella del Tarchetti direbbesi quasi che si sieno fuse due grandi anime; quella di Heine e quella di Leopardi. La musa che al core del poeta di Düsseldorf spirò le più ingenue liriche del Büch der Lieder ed al Leopardi le strofe a Silvia ed il Consalvo, quella stessa spirò a Tarchetti le più belle pagine de’ suoi racconti e le rime più soavi di questa piccola raccolta.
Egli fu poeta come fu addolorato. I triboli e gli stenti della vita andavano di pari passo con i sogni e le creazioni della sua mente; ad un palpito violento del cuore rispondeva la strofa alata, vigile, balzante; alle belle visioni dell’anima sua rispondevano le malinconiche pagine de’ suoi romanzi. L’arte e la vita formavano in lui una totalità così salda da sfatare ogni baldanza critica, che si attentasse di spezzarla appena o di scinderla. E la storia ed il quadro di questa vita non ànno che due lunghi capitoli: amore e dolore: non ànno che due tinte il roseo ed il nero: da una parte Clara dall’altra Fosca.
Molti vennero dopo di lui; ma nissuno, che io mi sappia, ebbe la generosità di confessare che ne derivava. Il Tarchetti cominciò da solo, in tempi difficilissimi, dando mano ad una grande reazione riuscita poi così feconda di opere nuove ed audaci — e prima di compiere i suoi ventinove anni ei non fu più. —
La sua esistenza ne durò soli quattro, quanto durò quella del suo cuore e del suo ingegno! —
Povero Ugo!
- Milano, Febbraio 1879.
D. Milelli.
Note
- ↑ Pur giova qui ricordarlo; circa quel tempo noi gittavamo il meglio del nostro sangue e delle nostre vite tra Custoza e Lissa.
- Testi in cui è citato Alessandro Manzoni
- Testi in cui è citato Victor Hugo
- Testi in cui è citato Terenzio Mamiani
- Testi in cui è citato Ruggiero Bonghi
- Testi in cui è citato Paolo Ferrari
- Testi in cui è citato Giovanni Prati
- Testi in cui è citato Aleardo Aleardi
- Testi in cui è citato Giovanni Boccaccio
- Testi in cui è citato Giovanni Della Casa
- Testi in cui è citato il testo Racconti fantastici (Tarchetti)
- Testi in cui è citato il testo Amore nell'arte
- Testi in cui è citato il testo Fosca
- Testi in cui è citato Heinrich Heine
- Testi in cui è citato Giacomo Leopardi
- Testi in cui è citato il testo Venti canti di H. Heine tradotti
- Testi in cui è citato il testo Canti (Leopardi - Donati)/XXI. A Silvia
- Testi in cui è citato il testo Canti (Leopardi - Donati)/XVII. Consalvo
- Testi SAL 100%
- Testi di Domenico Milelli