Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Capitolo Nono

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Capitolo Ottavo Chiose

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CAPITOLO IX

Nel quale madonna Fiammetta parla al libro suo, imponendogli in che abito, e quando e a cui egli debba andare, e da cui guardarsi; e fa fine.

O picciolo mio libretto, tratto quasi della sepoltura della tua donna, ecco, sí come a me piace, la tua fine è venuta con piú sollecito piede che quella de’ nostri danni; adunque, tale quale tu se’ dalle mie mani scritto, e in piú parti dalle mie lagrime offeso, dinanzi dalle innamorate donne ti presenta, e se pietá guidandoti sí come io fermissimamente spero, ti vedranno volentieri, se Amore non ha mutate leggi poi che noi misera divenimmo. Né ti sia in questo abito cosí vile come io ti mando, vergogna d’andare a ciascheduna, quantunque ella sia grande, pure che essa te avere non ricusi. A te non si richiede abito altramente fatto, posto che io pure dare tel volessi. Tu déi essere contento di mostrarti simigliante al tempo mio, il quale, essendo infelicissimo, te di miseria veste, come fa me, e però non ti sia cura d’alcuno ornamento, sí come gli altri sogliono avere, cioè di nobili coverte di colori varii tinte e ornate, o di pulita tonditura, o di leggiadri minii, o di gran titoli; queste cose non si convengono a’ gravi pianti, li quali tu porti; lascia e queste e li larghi spazii e li lieti inchiostri e l’impomiciate carte a’ libri felici; a te si conviene d’andare rabbuffato con isparte chiome, e macchiato e di squallore pieno, lá dove io ti mando, e co’ miei infortuni negli animi di quelle che ti leggeranno destare la santa [p. 167 modifica] pietá. La quale se avviene che per te di sé ne’ bellissimi visi mostri segnali, incontanente di ciò rendi merito qual tu puoi. Io e tu non siamo sí dalla fortuna avvallati, che essi non siano grandissimi in noi da poter dare; né questi sono però altri, se non quelli li quali essa a niuno misero può tôrre, cioè esemplo di sé donare a quelli che sono felici, acciò che essi pongano modo a’ loro beni, e fuggano di divenire simili a noi; il quale, sí come tu puoi, sí fatto dimostra di me, che, se savie sono, ne’ loro amori savissime ad ovviare agli occulti inganni de’ giovani diventino per paura de’ nostri mali.

Va’ adunque: io non so qual passo si convenga a te piuttosto, o sollecito o quieto, né so quali parti prima da te siano da essere cercate, né so come tu sarai né da cui ricevuto. Cosí come la fortuna ti pigne, cosí procedi: il tuo corso non può essere guari ordinato. A te occulta il nuvoloso tempo ogni stella, le quali se pure tutte paressono, niuno argomento t’ha l’impetuosa fortuna lasciato a tua salute; e perciò in qua e in lá ributtato, come nave senza temone e senza vela dall’onde gittata, cosí t’abbandona, e come li luoghi richieggiono, cosí usa varii li consigli. Se tu forse alle mani d’alcuna pervieni, la quale sí felici usi li suoi amori che le nostre angoscie schernisca, e per folle forse riprendane, umile sostieni li gabbi fatti, li quali menomissima parte sono de’ nostri mali, e a lei la fortuna essere mobile torna a mente, per la qual cosa noi lieta, e lei come noi potrebbe rendere in brieve, e risa e beffe per beffe le renderemmo. E se tu alcuna troverai che, leggendoti, li suoi occhi asciutti non tenga, ma dolente e pietosa de’ nostri mali con le sue lagrime multiplichi le tue macchie, quelle in te, sí come santissime, con le mie raccogli, e piú pietoso e afflitto mostrandoti, umile priega che per me prieghi colui il quale con le dorate piume in un momento visita tutto il mondo, sí che egli forse da piú degna bocca che la nostra pregato, e piú ad altrui pieghevole che a noi, allevii le nostre angoscie. E io, chiunque ella sia, priego da ora con quella voce che a’ miseri piú esaudevole è data, che ella mai a tali miserie non pervenga, e che sempre le siano gl’iddii [p. 168 modifica] placabili e benigni, e li suoi amori secondo li suoi disii felici produca per lunghi tempi.

Ma se per avventura tra l’amorosa turba delle vaghe donne, delle mani d’una in altra cambiandoti, pervieni a quelle dell’inimica donna usurpatrice de’ nostri beni, come di luogo iniquo fuggi incontanente, né parte di te non mostrare agli occhi ladri, acciò che ella la seconda volta, sentendo le nostre pene, non si rallegri d’averci nociuto. Ma se pure avviene che essa per forza ti tenga, e pure ti voglia vedere, per modo ti mostra, che non risa, ma lagrime le venga de’ nostri danni, e a conscienza tornando, ci renda il nostro amante. Oh, quanto felice pietá sarebbe questa, e come fruttuosa la tua fatica!

Gli occhi degli uomini fuggi, da’ quali se pure se’ veduto di’: «O generazione ingrata e detrattrice delle semplici donne, non si convengono a voi di vedere le cose pie». Ma se a colui che è de’ nostri mali radice pervieni, sgridalo dalla lunga e di’: «O tu, piú rigido che alcuna quercia, fuggi di qui, e noi con le tue mani non violare: la tua rotta fede è di tutto ciò che io porto cagione, ma se con umana mente leggere mi vuogli, forse riconoscendo il fallo commesso contro a colei, che, tornando tu ad essa, di perdonarti disidera, vedimi; ma se ciò fare non vuogli, non si conviene a te di vedere le lagrime che date hai, e spezialmente se d’accrescerle dimori nel volere primo». E se forse alcuna donna delle tue parole rozzamente composte si maraviglia, di’ che quelle ne mandi via, però che li parlari ornati richieggiono gli animi chiari e li tempi sereni e tranquilli. E però piuttosto dirai che prenda ammirazione come a quel poco che narri disordinato, bastò lo ’ntelletto e la mano, considerando che dall’una parte amore, e dall’altra gelosia con varie trafitte in continua battaglia tengono il dolente animo, e in nebuloso tempo favoreggiandogli la contraria fortuna.

Tu puoi da ogni aguato andar sicuro, sí come io credo, però che nulla invidia te morderá con aguto dente; ma se pure piú misero di te si trovasse, che no ’l credo, il quale [p. 169 modifica] quasi a te come a piú beato di sé la portasse, làsciati mordere. Io non so bene qual parte di te nuova offesa possa ricevere, sí per tutto dalle percosse della fortuna ti veggio essere lacerato. Egli non ti può guari offendere, né farti d’alto tornare in basso luogo, sí è infimo quello ove dimori. E posto ancora che non bastasse alla fortuna d’averci con la superficie della terra congiunti, e ancora sotto quella cercasse di sotterrarci, sí siamo nell’avversitá amicati, che con quelle spalle con le quali le maggiori cose abbiamo sostenute e sosteniamo, sosterremo le minori, e però entra dove ella vuole.

Vivi adunque: nullo ti può di questo privare; ed esemplo eterno a’ felici e a’ miseri dimora dell’angoscie della tua donna.