Elettra (Sofocle)/Secondo episodio

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Secondo episodio

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Sofocle - Elettra (V secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1926)
Secondo episodio
Primo stasimo Lamentazione

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Esce dalla reggia Clitemnestra, seguita da una schiava
che porta una guantiera piena di frutta.


clitemnestra
Ecco, di nuovo libera t’aggiri,
quando Egisto non c’è, che t’impediva
sempre d’uscire a svergognar gli amici.
Ora ch’egli è lontano, alcun pensiero
di me tu non ti prendi. E quante volte
detto, a quanti, non hai che tracotante
sono, e comando in onta alla giustizia,
a te facendo vïolenza, e a quanto
t’è caro. E vïolenza io non ti faccio:
se male io di te parlo, assai frequente
tu vituperi me. Sempre un pretesto
tu adduci: il padre; e che da me fu spento.
Da me: bene io lo so; né pur lo nego:
ché Giustizia l’uccise, e non io sola.
E aiuto, ove tu senno avessi avuto,
prestar dovevi a me: ché questo padre
tuo, che tu piangi ancor, solo ei fra gli Elleni,
sacrificò la tua sorella1 ai Numi:
ebbe tal cuore: ché tormento simile,

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quando la generò, non ebbe al mio,
quando la partorii. Spiegami questo:
perché mai l’immolò? Chi ve l’indusse?
Forse gli Argivi? Non avean diritto
d’uccidere mia figlia: ei la sgozzò
per suo fratello Menelao. Né renderne
conto doveva a me? Non avea quegli
forse due figli2, a cui piú che alla mia
la morte s’addicea, che di tal padre
eran, di tale madre, ond’ebbe origine
la gesta d’Ilio? O dei miei figli aveva
Ade piú che dei suoi vorace brama?
Oppur, pei figli miei spento l’amore
nel padre sciagurato era, e per quelli
di Menelao durava? E non son questi
sensi di padre iniquo e stolto? Io giudico
cosí, sebbene a te sembri il contrario;
e se l’estinta avesse voce, anch’essa
m’approverebbe; ed io non son pentita
di ciò che feci. Mal giudizio il mio
ti sembrerà; ma tu prima considera
il giusto, e dopo i tuoi congiunti biasima.
elettra
Adesso, dir tu non potrai che oltraggi
debba udire da te, perché rivolti
prima io te n’abbia. Or, se consenti, in pro’
del morto io parlerò, di mia sorella.
clitemnestra
Ben lo consento; e, se cosí parlato

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sempre m’avessi, a me tanto molesti
i tuoi discorsi stati non sarebbero.
elettra
E dunque, parlo. Che uccidesti il padre,
tu lo confessi. E qual confessïone
potrebbe esser piú turpe, o giusto o ingiusto
che lo scempio pur fosse? Ed io soggiungo
che non Giustizia t’ispirò, ma brama
dell’uomo tristo ch’ora con te vive.
Chiedi alla Dea vaga di caccie, Artèmide
chi punir volle, allor che i venti in Aulide
ella rattenne. Ed io te lo dirò,
poi che da lei saperlo non è lecito.
Un giorno il padre mio, narra la fama,
pel sacro bosco della Dea cacciando,
dinanzi a sé balzar vide un cornigero
variopinto cervo, e l’abbatté,
e un fatuo vanto pronunciò. Crucciata
di ciò, la figlia di Latona, i venti
rattenne; e, in cambio della fiera, volle
che sua figlia dovesse il padre uccidere.
Fu per questo immolata Ifigenía:
ché per le schiere scampo altro non v’era,
né di ritorno, né verso Ilio. Ed egli,
costretto a lungo, reluttante, infine,
non per piacere a Menelao, l’uccise.
Ma pur l’avesse — il tuo pensiero accolgo —
per compiacerlo uccisa, a te spettava
forse uccidere lui? Per qual mai legge?
Se questa legge tu sancissi agli uomini,
vedi che doglia e pentimento a te

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stessa tu non procuri: se dovessimo
prender vita per vita, prima tu
morir dovresti, ad esser giusti. Ma
vedi se il tuo non sia pretesto vano.
Se non ti spiace, infatti, perché, dimmelo,
un atto adesso più d’ogni altro turpe,
compi, che tu dell’assassino a fianco
giaci, con cui morte già deste al padre,
e, a lui figliuoli generi, ed i figli
tuoi di prima, legittimi, fioriti
da legittime nozze, hai discacciati?
Dovrei dartene lode? Ed anche questo
dirai compenso della figlia uccisa?
Cosa turpe dirai, ché non è bello
sposar nemici, a vendicar la figlia.
Ma già, che serve a te volgere mòniti,
che tutta impieghi la tua voce a dire
che noi sparliamo della madre? Ora io,
padrona più che madre a noi ti reputo:
ché una vita d’angosce, in mezzo a tanti
mali trascorro, tua mercè, dell’uomo
che teco vive; e, dalla patria lungi,
l’altro, che appena ti sfuggi di mano,
vive una trista vita, Oreste misero.
Ché tu sovente mi rampogni ch’io
l’abbia cresciuto alla vendetta; e se
potuto avessi, l’avrei fatto, sappilo.
Dunque, bandisci a tutti ch’io maledica
sono, che trista son, tutta impudenza:
ché se sperta sono io di virtù simili,
forse all’indole tua non fo disdoro.

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corifea
Furïar la vedo io; ma se il buon dritto
s’accoppi al furor suo, non vede bene.
clitemnestra
Qual cura avere di costei, che, giovine
com’ella è ancora, tali oltraggi scaglia
contro sua madre? E non ti par che, senza
vergogna, ad ogni audacia ella trascorra?
elettra
Sappilo bene, anche se a te non sembra,
mi vergogno di ciò: quello ch’io faccio,
è, lo so bene, impronto e disdicevole.
Ma l’opre tue, la tua malevolenza,
a mal mio grado, a favellar m’astringono:
di turpi atti maestra è turpitudine.
clitemnestra
O svergognata, o mostro, io coi miei detti,
con gli atti miei, parlar troppo ti faccio.
elettra
Tu lo dici, non io: tu gli atti compi:
gli atti compiuti le parole ispirano.

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clitemnestra
Scontar dovrai, lo giuro per Artèmide,
tanta insolenza, come Egisto giunga.
elettra
Lo vedi? L’ira ti trascina. M’hai
concesso di parlare, e udir non sai.
clitemnestra
Concessi. E tu non lascerai che in sacro
silenzio i sacrifici adesso io compia?
elettra
Ti lascio, al sacrificio anzi t’esorto.
Né biasimo potrai lanciare piú
al labbro mio: ché nulla io piú dirò.
clitemnestra
alla schiava.
Tu che mi assisti, pomi d’ogni specie
porgimi, via, ché li offra, e preci levi
a questo Iddio, che ogni terrore sperdano.
E tu la voce mia segreta ascolta,
o Febo tutelar: ché non in mezzo
agli amici, favello; e non conviene
che alla luce del sol tutto s’esponga,
quando è costei vicina a me: ché poi,

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spinta dall’odio, con malvagia lingua,
per tutta quanta la città non semini
stolide ciance. Ascoltami cosí
come io parlo, di furto. Le fantasime
ch’io questa notte, o Licio Sire, vidi,
d’ambigui sogni, se fortune annunciano,
avverale per me: se infeste sono,
sui miei nemici tòrcile; e se c’è
chi con la frode rovesciar mi vuole,
dalla dovizia d’ora, non concederlo,
ma fa’ che sempre viva e sempre immune,
io degli Atrídi e reggia m’abbia e scettro,
con gli amici fra cui vivo or, felice
vivendo, e con quei figli onde mai cruccio
né doglia io m’ebbi ancora. O Licio Apollo,
ascoltami benigno, e quanto imploro
a noi tutti concedi. Ogni altro voto
mio, sebbene io l’abbia taciuto, giudico
che tu, Nume qual sei, bene lo intenda:
di Giove i figli io so che tutto veggono.
Durante le ultime parole di Clitemnestra, rientra l’aio, travestito da messaggero.
aio
Donne, potrei saper di certo se
questa è la reggia del tiranno Egisto?
corifea
Ben t’apponesti, o stranïero: è questa.

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aio
Anche indovino, se sua sposa giudico
che sia costei? L’aspetto è di regina.
corifea
Precisamente: innanzi a te la vedi.
aio
Salve, o Signora: a te discorsi blandi
da parte d’un amico, e a Egisto reco.
corifea
L’augurio accetto; ma sapere innanzi
tutto voglio da te chi t’inviò.
aio
Fanòteo Focese; e con gran nuove.
clitemnestra
E quali, ospite, di’? Cari saranno
i detti tuoi che da un amico giungono.
aio
È morto Oreste: il tutto in poco stringo.

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elettra
Ahimè, questo è della mia morte il giorno!
clitemnestra
Non ascoltar costei: che dici, che?
aio
È morto Oreste: l’ho detto, e lo replico.
elettra
Son morta, trista me, non son piú viva!
clitemnestra
Ai casi tuoi tu pensa. — E il vero tu,
ospite, dimmi: in che maniera è morto?
aio
Tutto dirò: per questo m’inviarono.
Alla celebre prova ei dunque d’Ellade
venne, ov’è gara per i premii delfici.
E quando l’uomo udí che ad alte grida
bandía la corsa, dei cimenti il primo,
entrò fulgente; e tutti ne stupirono.
Egli, adeguando della corsa l’esito
al suo valore, uscí, della vittoria
recando il premio piú d’ogni altro ambíto.

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Ma delle prove, delle molte gesta
che quest’uomo compiea, dirne anche poche
non ti saprei. Ti basti ciò: fra quante
gare bandiron gli arbitri, di tutte
i premi riportò, n’ebbe l’onore;
e, proclamato insieme Argivo, e Oreste,
d’Agamènnone re figlio, che un giorno
le celebri adunò schiere de l’Ellade,
quel giorno andò cosí. Ma, se vuol nuocere
un Dio, nessuno, e forte sia, gli sfugge.
Il dí seguente, al sorgere del sole,
c’era dei carri il pie’ veloce agone;
ed ei con molti guidatori entrò.
Uno era Acheo, di Sparta un altro, due
Libii, maestri di quadrighe, Oreste
quinto venia, con due cavalle tessale,
con fulvide puledre sesto un Etolo,
settimo un uomo di Magnesia, ottavo
un d’Enia, e avea cavalli bianchi, il nono
un uom della divina Atene: il decimo
carro guidava un di Beozia. E stettero,
e disposero i cocchi ove la sorte
volle che tratta avean gli arbitri; e come
suonò la bronzea tromba, si slanciarono,
e, i cavalli eccitando, a un punto scossero
le briglie; e pieno fu tutto lo stadio
della romba dei carri e dello strepito.
E volava la polvere alta, ed erano
tutti commisti, né riposo ai pungoli
alcuno dava, ché voleano correre
oltre le ruote, oltre gli equini sbuffi:
ché, spumeggiando, dei cavalli gli aliti
colpiano i dorsi, e delle ruote i cerchi.

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Oreste, il carro a rasentar la mèta
spingea sempre, e tenea lente le briglie
al cavallo di destra, e strette a quello
che la sfiorava. E in prima, a dritto corso
tutti stavano i carri; indi i puledri
all’uomo d’Enia rubano la mano,
senza piú freno, e nella volta, al termine
del sesto giro, e al cominciar del settimo,
contro il carro Barcèo la fronte battono.
E da quel punto, per quell’urto, i carri
l’uno su l’altro piombano, e si spezzano;
e d’equestri naufragi è pieno tutto
il pian di Crisa. Ben vide l’auriga
valoroso d’Atene, e fuor si trasse,
e rattenne le briglie, e il flutto equestre
schivar poté, che ribollia nel mezzo:
veniva ultimo Oreste, e le puledre
dietro agli altri spingea, ché confidava
nel giro estremo. E, come l’altro vide
solo rimasto, un suono acuto fece
vibrar presso le orecchie alle puledre
rapide; e, a pari omai spingendo i gioghi,
or l’uno or l’altro degli equestri carri
superava la fronte. E già compiuti
sicuramente gli altri giri tutti,
avea, diritto sul diritto carro,
quando, allo svolto, rallentò le briglie
al cavallo di manca, e, senza addarsene,
batté nell’orlo della stele, e franse
i mozzi a mezzo l’asse, e scivolò
giú dalla conca, e rimase impigliato
nelle briglie di cuoio. E, come cadde,
sbandarono i puledri in mezzo al circo.

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Tutta la folla, come vide il giovine
piombar dal cocchio, un grido alto levò;
ché compiè tali gesta, ebbe tal sorte,
or trascinato al suolo, ora mostrando
volte al cielo le gambe, insin che a stento
a frenare i corsier’ valser gli aurighi,
e lui sciolser, cosí brutto di sangue,
che nessun degli amici il corpo misero
potuto avrebbe ravvisare; e súbito
sopra una pira l’arsero. E in un piccolo
bronzo, converso il suo gran corpo in cenere,
genti Focesi a ciò preposte recano,
perché nel patrio suolo abbia sepolcro.
Questi gli eventi, anche a narrarli acerbi;
ma per chi vide come noi vedemmo,
non v’ha sciagura ch’io piú trista reputi.
corifea
Ahimè, ahimè, dalle radici spenta
tutta è la stirpe dei signori antichi!
clitemnestra
Oh Giove, e che? Dovrò chiamare prosperi
questi eventi, o dogliosi, e a me pur utili?
Tristo, col mal dei miei serbar la vita!
aio
Donna, pei detti miei, ché ti disanimi?

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clitemnestra
Che gran cosa esser madre! Anche oltraggiata,
mai non avrà pei figli odio, una madre.
aio
Dunque, fu vano ch’io venissi, pare.
clitemnestra
Vano? Ma no, come sarebbe vano,
se a me giungesti della morte certa
recando i segni di colui, che, nato
dallo spirito mio, s’allontanò
dal seno mio, dalle mie cure, ed esule
se ne andò ramingando; e poi che uscí
da questa terra, mai piú non mi vide,
e, la strage del padre rampognandomi,
vendette minacciava orride: sí
che, né di notte, né di giorno, il dolce
sonno sopía le mie pupille, e il tempo
mi trascinava, come ognor sul punto
fossi di morte. Ma, poiché quest’oggi
dal terrore di lui libera sono,
dal terror di costei — ch’era per me
maggior pèste costei, ch’entro la casa
mia, dell’anima mia suggeva sempre
il puro sangue — quanto alle minacce
di costei, rimarrò forse tranquilla.
elettra
Ahimè, tapina! Or sí, bisogna piangere

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la tua sciagura, ché sei spento, Oreste,
e tua madre t’oltraggia. È mai giustizia?
clitemnestra
Certo, per lui: per te non giunse ancora.
elettra
Di chi moriva or or. Nèmesi, ascolta.
clitemnestra
Ascoltò chi dovea, l’esaudì.
elettra
Poiché ti ride la fortuna, oltraggia.
clitemnestra
Né tu, né Oreste abbattermi potrete.
elettra
Abbattuti noi siamo; e come abbatterti?
clitemnestra
Degne di molte grazie, ospite, sei,
che le gran ciance di costei troncasti.
aio
Dunque, se tutto è ben, posso tornarmene.

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clitemnestra
Non lo farai: questo, di me, dell’ospite
che t’inviava a me, sarebbe indegno.
Entra pure, e costei lascia che i mali
suoi, degli amici suoi, qui fuori gridi.
Esce con l’ospite.
elettra
Con che doglia, vedete, con che spasimo
dirottamente lagrima e singhiozza
pel figlio suo miseramente spento,
la sciagurata! È andata via ghignando!
Dilettissimo Oreste, oh come uccisa
m’ha la tua morte! Ché dal cuor, partendo,
tu m’hai strappata la speranza estrema,
che vivo un giorno tu giunto saresti,
vendicator del padre, e di me misera.
Ed ora, dove andrò? Sola sono io,
priva di te, del padre mio. Servire
ancor dovrò fra questi, inimicissimi
per me fra quanti uccisero mio padre.
È fortuna la mia? Ma d’ora innanzi,
io piú con essi non vivrò; ma presso
a questa porta m’abbandonerò,
e senza amici struggerò la vita.
E alcuno, allor, di quelli che son dentro,
morte mi dia, se ciò l’offende: grazia
per me sarà, quando m’uccida; e il vivere
cruccio: nessuna brama ho della vita.

Note

  1. [p. 248 modifica]La tua sorella, Ifigenia.
  2. [p. 248 modifica]I due figli di Menelao erano Ermione e Nicostrato.