Enrico/Nota storica

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Nota storica

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Atto V
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NOTA STORICA

Conviene ormai notare come il Goldoni nei primi anni dei suoi tentativi sul teatro non osasse creare niente di suo, ma si accontentasse di correggere, di rifondere, di rinnovare antichi drammi e canovacci. La lettura delle opere sceniche di Giacinto Andrea Cicognini, fatta da fanciullo e ripetuta da giovine, era rimasta impressa nella sua mente, come ci dicono le sue Memorie (Mém.es, P. 1e, ch. I; e pref. dell’ed. Pasquali: vol. I della presente ed., p. 28) e ci conferma la scelta dei suoi primi saggi drammatici (il nome di Cicognini si legge anche nell’incisione del Novelli preposta al primo tomo delle Commedie goldoniane nella ricca edizione illustrata del Pasquali: (vol. I presente ed., pag. 1). Racconta l’autore di aver composto a Genova nel 1736 l’abbozzo e tre atti dell’Enrico re di Sicilia (v. Mém.es, P. 1e ch. XL), togliendone il soggetto da una novella inserita nel fortunato romanzo di Gil Blas, del Le Sage, e di aver compiuto l’anno dopo gli altri due atti. Ma dalle memorie italiane premesse ai singoli volumi dell’edizione Pasquali, e più fedeli al vero, parrebbe che prima il Goldoni fosse invogliato a comporre per il Sacchi (entrato allora a far parte della compagnia del teatro di S. Samuele) una “commedia a soggetto”, cioè uno scenario intitolato i Cento e quattro accidenti in una notte (1737). Certo l’Enrico fu recitato, come appare dalle memorie dell’edizione Pasquali (vol. I presente ed., p. 125), dentro l’anno comico 1737-38, poichè l’attore Antonio Vitalba lo nomina insieme col Belisario, col Convitato nuovo, con la Griselda e con le altre “Opere del signor dottor Goldoni” nelle quali si vanta di aver sostenuto “in San Samuele” la “prima parte” con applauso “universale” (v. art. di Aldo Ravà, in Marzocco, 20 luglio 1913); mentre nell’autunno del’38 eragli stato già sostituito Giuseppe Simonetti (vol. I cit., p. 126). - Il Goldoni poi fa soltanto il nome di Le Sage, ma è noto come la novella francese fosse attinta dalla vecchia comedia spagnola di don Francisco de Rojas y Zorillas, Casarse por vengarse, “una delle piezas più stravaganti ed affettate, dove si sfogano più pazzamente i deliri del poeta secentista”: di cui “una traduzione il più delle volte letterale è l’opera scenica Il maritarsi per vendetta” del Cicognini ricordato sopra (di quest’ultima cita il Grashey, G. A. Cicogninis Leben und Werke, Kirchhain N.-L., 1908, p. 33, ben cinque edizioni di Venezia - la prima è del 1662 - e una di Bologna). “I tagli che vi sono stati per la necessità di abbreviare scene e parlate troppo lunghe ed imaginose, e qualche altra variante nei personaggi secondarii, non tolgono questo carattere al lavoro italiano”. Così dice il nostro Guelfo Gobbi (Le fonti spagnuole del teatro drammatico di G. A. Cicognini, in Bib.ca delle scuole italiane, a. XI, n. 19, 15 dic. 1905, pp. 230 e 231); e quasi sospetta, per questa fedeltà insolita, che sia “tra quelle produzioni falsamente attribuite al Cicognini Tanto più [p. 554 modifica]che l’autor fiorentino “ha posto molte delle situazioni del Casarse por vengarse in un’altra sua opera scenica, e precisamente in quella intitolata La forza del fato o il matrimonio nella morte” dove pure si incontra “un matrimonio che una giovane accetta per vendetta in un momento di esaltazione”.

Dunque il Goldoni, oltre e meglio che la novella del Gil Blas, potè conoscere non dico l’autore spagnolo, ma la imitazione italiana, e forse il vecchio canovaccio ricavato dal Cicognini, che doveva servire per l’addietro alle recite dei comici veneziani. Ma anche qui, mentre il dottor Carlo si preoccupava sopra tutto di sgomberare il dialogo e l’azione da ogni buffoneria e da ogni gonfiezza del Seicento, riusciva a togliere o a smorzare ogni effetto teatrale; e non seppe valersi per niente di quegli elementi drammaticissimi che rendono bella ancora oggi la novella di Le Sage. Manca all’Enrico goldoniano la violenza delle passioni, manca l’efficacia e la naturalezza del dialogo, manca il colorito: tutto è raffreddato e stentato, tutto illanguidisce e incepisca in quel misero linguaggio della cosidetta poesia tragica dei nostri buoni eruditi del secolo decimottavo. Non un personaggio, non una scena, non un verso che siano degni d’essere ricordati o additati, se non fosse qualche ardito accento, familiare all’indole stessa della tragedia, ma sempre più comune e minaccioso nel periodo che precorse la Rivoluzione (“Il regal fregio, - Ch’è dono di natura, anco talvolta - Cade sovra gli abbietti”; a. I, sc. 10. “Rammentate che i re soggetti sono ecc. ecc. - Non lice al re ciò che la legge offende”: a. IV, sc. 5). Si noti poi che fra le virtù di Leonzio che sacrifica la propria figlia e l’amore di Enrico l’autore rimane dubbioso; ma il pubblico non vuole incertezze, il pubblico parteggia per l’infelice e giovane re, a dispetto della morale che arresta la mano del poeta. Qui appariscono veramente i limiti dell’arte goldoniana: quando il Goldoni vuol penetrare con la fantasia in un mondo che non ha mai veduto coi propri occhi, la rappresentazione della vita gli sfugge interamente: egli si smarrisce, diviene falso, ripete a memoria le frasi imparate sui libri, come un fanciullo sorpreso a calzare il coturno. Questo dramma di passione e di sangue non ha potuto scuotere l’anima placida e sorridente del commediografo veneziano, davanti al quale già sorge la lieta figura di Momolo cortesan.

L’esame particolare dell’Enrico re di Sicilia non offre pertanto alcuna utilità; e fu già compiuto dal dottor tedesco Arturo Peter, il quale studiò la varia fortuna e le molte imitazioni in Europa del Casarse di Rojas (Des Don Francisco de Rojas Tragödie “Casarse por vengarse” und ihre Bearbeitungen in den anderen Litteraturen, Dresden, 1898). Tuttavia Rosario Bonfanti, poco dopo, risalì di nuovo alla fonte principale dell’Enrico goldoniano e osservò che “la bella novella del Le Sage, ridotta in cattivi versi italiani, perde tutta la sua leggiadria. Stretto anche dall’unità di tempo, non ha potuto l’A. dare il dovuto svolgimento alle passioni e a’ caratteri, e però quello che è naturale e verisimile nella novella, qui cade perfino nel grottesco”. Aggiunge qualche raffronto: “Si badi che la Matilde del Goldoni corrisponde alla Dona Bianca del Le Sage. Gli altri personaggi hanno anche i nomi identici. Alle volte traduce presso a poco l’originale... Vi ha inserito qua e là di suo qualche scena: così la grottesca baruffa tra Costanza e Matilde (I, 10), in cui queste due regine diventano poco meno che due delle tante pettegole [p. 555 modifica]goldoniane, non c’è naturalmente nel Gil Blas. Diversa è poi la fine” (La Donna di garbo di C. G., Noto, 1899, p. 38 n. 1).

Più diffusamente Antonio Belloni, senza conoscere l’opera del Peter, pose a confronto la comedia del Rojas con la “pessima riduzione” del Cicognini e l’Enrico del Goldoni con la novella di Le Sage. Crede il Belloni che l’autore veneziano sia stato “magari inconsciamente” indotto a “sceneggiare la novella francese” dal ricordo dell’opera scenica del Cicognini: sebbene fra l’Enrico e il Maritarsi per vendetta non esista somiglianza diretta: “se qualche corrispondenza v’ha, è, più che altrove, in sul principio”. “Per ciò che riguarda la condotta e la sceneggiatura” afferma il Belloni “convien riconoscere che l’Enrico del Goldoni non manca di pregi: l’azione vi si svolge rapida e senza troppe inverisimiglianze e il dialogo è, in genere, vivo e naturale. Non altrettanto bene si può dire della versificazione, che troppo spesso è fiacca e inelegante”. Ma nemmeno Thomson e Saurin si elevarono, dopo di lui, svolgendo un soggetto consimile, “molto al di sopra della mediocrità... Il G., che pur cede ad essi nell’eleganza e nel vigor della forma, li supera, sotto un certo riguardo, per il maggior profitto che seppe trarre da certe situazioni” (Intorno a una tragedia del Goldoni, in Raccolta di Studii critici dedicata ad Al. D’Ancona, Firenze, Barbera, 1901, PP. 77-84).

Più di recente R. Guastalla, senza sapere nè del Peter, nè del Bonfanti, nè del Belloni, ci riparlò di Renato Le Sage e Carlo Goldoni, cioè della nota novella, che gli parve “nell’insieme e nei particolari” di “assai scarso interesse”, e dell’infelice Enrico (v. Marzocco, 27 Aprile 1924). Ultimo Mario Penna, dimenticandosi di tutti quelli che lo avevano preceduto, sottopose di nuovo la povera tragedia goldoniana a minuzioso confronto con la novella di Le Sage (Il noviziato di C. Goldoni, Torino, 1925, pp. 40-44). La signora O. Marchini-Capasso credette poi di “ravvisare” nell’Enrico “un impasto vario di elementi tragici e comici, con rilievo sempre più notevole di questi ultimi” e trovò affinità fra i personaggi della presente tragedia e quelli sia del futuro teatro comico goldoniano, sia dell’antica commedia dell’arte. Così il re Enrico somiglia all’“Antiquario” che dimentica il governo della sua casa per correr dietro “alle sue antichità”; Costanza “è la femmina delle seduzioni maliarde della vecchia Commedia”; Leonzio “è un remoto precursore dei Brighella onesti, maniaci”; Ormondo “è il solito rivale, spadaccino consumato, che fa prodigi da Capitan Spaventa”; e l’intreccio stesso, “già apparso nella Griselda, è vicinissimo a quello di certe Commedie d’Arte ecc. ecc. (Gold. e la Comm. dell’arte, 2.a ed., Napoli, 1912, pp. 183 sgg.). Ma non è lecito al critico sereno di sbizzarrirsi fino a tal punto: chè se i personaggi di Enrico e di Ormondo possono apparire ridicoli a un moderno lettore, ciò avviene contro ogni intenzione dell’autore stesso, per il troppo debole soffio dell’arte. Noi ridiamo, in tal caso, del poeta, ma non in grazia del suo spirito comico.

Dell’accoglienza poco calorosa del pubblico di S. Samuele non parla il Goldoni nelle memorie italiane: anzi, accennando in certo luogo al Simonetti che “si presentò al pubblico la prima volta interpretando il personaggio di Enrico, afferma che il nuovo attore “piacque universalmente” (vol. I presente [p. 556 modifica]ed., p. 12); ma in quelle francesi conferma lo scarso successo (P. 1e, ch. XL). Tuttavia poco tempo dopo, nel carnevale del 1740, trovandosi a Venezia il Principe di Polonia e Sassonia Federico Cristiano, il Goldoni fece rappresentare di nuovo la tragedia, “animato” dall’autorevole voce dell’abate Antonio Conti, e Sua Altezza si compiacque di chiederne la replica (vedasi la lett. di C. Gold, al Principe Elettore edita dal Maddalena nel vol. VII di questa ed., pp. 96-97; inoltre le citate memorie italiane, vol. I, p. 135 e il vol. XII, p. 423. Questa recita fu creduta la prima dai compilatori dell’ed. Zatta e trasse in errore anche Johannes Merz, C. Goldoni in seiner Stellung zum französischen Lustpiel, Leipzig, 1903, p. 66). In tale occasione il dottore veneziano osò sottoporre per la prima volta al giudizio dei lettori l’opera sua tragica (non avendo riconosciuto la stampa clandestina del Belisario fatta a Bologna nel 1738).


Enrico re || di || sicilia || Tragedia || del Dottor || Carlo Goldoni || Veneto. Appresso Giuseppe Betinelli (sic). Con Licenza de’ Superiori. MDCCXL. In-8°, pp. 64.

Narra il Goldoni stesso che la stampa fu eseguita in quattro giorni e che il libretto fu distribuito gratis a tutti quelli che concorsero alla prima recita (vol. I della presente edizione, pag. 135). L’autore non avendo potuto dedicare la tragedia al Principe stesso che viaggiava incognito, fece precedere al testo tale avvertenza:

Lettor Benigno. Se per avventura ti capitasse questa mia Tragedia alle mani, o per dono, ch’io o altri te ne facesse, o per ristampa di qualche Librajo, che senza mio ordine se ne approfittasse, pregoti non criticarla, riflettendo ch’io non la stampo per vanità, e molto meno per trarne utile; ma solo per l’onore, ch’ella sia letta da uno de’ maggiori principi dell’europa, e vivi felice”.

Segue a pagina 4 l’Argomento. “Ruggiero Re di Sicilia non ebbe che una sola Figlia per nome Costanza. Aveva egli un Fratello, chiamato Manfredi, maltrattato da Lui per gelosia di Regno, il qual Manfredi morendo lasciò due Figli Maschi in età pupillare: Enrico il primo: Pietro il secondo. Ruggiero non avendo prole maschile, fece conto delli Nipoti, dando il primo ad allevare a Leonzio gran Cancelliere del Regno; l’altro ad Ormondo Cavaliere de’ primi fra i Vassalli della Corona. Enrico, di genio facile e gentile, fu allevato pel Regno; Pietro, torbido ed altero, fu allevato per l’Armi. Leonzio avea una Figlia per nome Matilde, della quale s’invaghì Enrico. Onde su tali fondamenti, parte storici, parte favolosi, è tessuta la presente Tragedia”.

Dopo i nomi dei personaggi, trovasi la seguente didascalia:

“La Scena rappresenta un Salone Reale con cinque porte corrispondenti:

“La prima alli Appartamenti Reali.

“La seconda a quelli d’Enrico prima che fosse Re.

“La terza a quelli di Leonzio e Matilde.

“La quarta a quelli di Costanza.

“La quinta serve d’ingresso e regresso commune alla Sala per via de’ Scaloni. [p. 557 modifica]

Questa Scena è ordinata sul dissegno del Teatro Olimpico di Vicenza, ch’è la vera antichissima Scena, la quale, là colla varietà delle strade, e quà colla varietà delle Porte, leva la confusione, e rimedia a moltissime improprietà”.

Dello stesso argomento invaghivasi qualche anno dopo in Inghilterra Giacomo Thomson, il mite poeta delle Stagioni; e la sua tragedia, intitolata Sigismondo e Tancredi “dal 1745 sino agli ultimi giorni” dice il nostro storico dei teatri, Napoli Signorelli (Storia critica dei teatri, 1.a ed., Napoli, 1777, p. 389), si rappresentò a Londra “con sommo applauso Nel ’63 il Saurin la trasportò liberamente in versi francesi (Bianche et Guiscard: vedi sul Saurin il volume XVIII della presente edizione, pag. 112), ma non incontrò il favore del pubblico parigino (v. specialmente Grimm, Correspondance littéraire etc., 1 Ott. 1763; Mad.e Du Deffand, Correspondance, Paris, 1865, t. I, p. 279; Lettres de Geneviève de Malboissière à Adélaide Méliand par le comte De Luppé, Paris, Champion, 1925, p. 47; e l’allusione di Goldoni, Mém.es P. 1e 8, ch. XL cit.): tuttavia fu recitata a Modena nel 1769 nel collegio S. Carlo (A. Gandini, Cronistoria dei teatri di Modena, Modena, 1873, P.e II, 251) e tradotta in versi sciolti a Venezia nel 1778 (L. Ferrari, Le traduz.i ital. del teatro tragico francese ecc., Paris, Champion, 1825, p. 56). Potè invogliare inoltre una lunga schiera di imitatori, specie in Italia, fra cui ricorderemo soltanto il conte Vincenzo Manzoli (Bianca ed Enrico, 1771: v. A. Parducci, La tragedia classica it.a del s. XVIII, Rocca S. Casciano, 1902, pp. 202-3) e il conte Orazio Calini (rimandiamo per tutti al cit. lavoro di À. Peter). La Zelinda del Calini, dove l’azione ci trasporta in Persia e i personaggi sono camuffati alla persiana, fu creduta opera originale e nel ’72 ottenne la prima corona nel primo concorso drammatico banditosi a Parma: ma a dispetto del verso classico e sonante, lasciò freddo il pubblico quando in quella primavera venne recitata dalla compagnia Medebach nel teatro pubblico (E. Bocchia, La drammatica a Parma, Parma, 1913, p. 173) e le Effemeridi letterarie di Roma gridarono al plagio (19 sett. 1772, art. dell’ab. Ceruti: v. pure il Carteggio di Pietro e Al. Verri, Milano, Cogliati, vol. V, 1926, pag. 162. - Cfr. E. Bertana, Il teatro tragico ital. del sec. XVIII, supplemento IV.° del Giorn. stor. della lett.a it.a, Torino, 1901, p. 162 e sgg.).

Alla fonte spagnola risalì direttamente il conte Carlo Gozzi, punto scoraggiato dal trattare un argomento “tre volte prodotto con una diversa maschera” e senza fortuna, dal Goldoni, dal Saurin e dal Calini, “nulla contando l’eloquenza pantomimica danzatrice, che l’aveva esposto ne’ Balli delle nostre Opere in musica”. All’autore delle Fiabe toccò la vittoria. “Questa mia azione tragica” raccontava più tardi, compiacendosene, “ch’io non ho intitolata Tragedia per modestia, donata da me alla Compagnia consueta del Sacchi, fu esposta in Venezia nel Teatro detto di S. Luca la prima volta nel Carnovale dell’anno 1779. Il suo avvenimento fu propizio: si è replicata parecchie sere, e rimase un buon capitale per quella Compagnia” (Opere edite ed ined., Venezia, t. X, 1803, pp. 141 e 142). E infatti la Bianca Contessa di Melfi ossia il Maritaggio per vendetta “dramma tragico [p. 558 modifica]in cinque atti” meritava di trionfare presso il pubblico. Infelicissimi i dialoghi, rozze le scene, pessimi i versi, romanzesca l’azione, ma le passioni si dipingono sul volto dei personaggi e la tragedia ha ancora qualche grido di vita (Peter avverte che l’“ossatura” è di Rojas: l. c.).

Quando nel 1793 lo Zatta di Venezia ristampava nella grande edizione del teatro goldoniano l’Enrico re di Sicilia, la vecchia tragedia non poteva più servire che di curiosità ai molti e devoti ammiratori del commediografo veneziano.

G. O.