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Ercole (Euripide)/Quarto episodio

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Euripide - Ercole (423 a.C./420 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Quarto episodio
Terzo stasimo Quarto stasimo
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In vetta alla reggia appaiono due forme soprannaturali: Iride e Furia. Quest’ultima ha l’orribile aspetto della Gòrgone, chiomata di serpi, e stringe in pugno una sferza.
coro
a
Nuovo terrore ci percòte, o vecchi!
Quale fantasma su la casa veggo?
b
A fuga, a fuga
lancia le tarde membra, di qui sàlvati!
c
O Dio Peana,
i cordogli da me sempre allontana!
iride
O vecchi fate cuor. Furia è costei,
della Notte figliuola, ed io sono Iri,
messaggera dei Numi; e danno alcuno

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a Tebe non rechiamo, e d’un sol uomo
sopra la casa ci avventiam, di quello
che d’Alcmèna e di Giove è detto figlio.
Pria che compiesse le sue gesta crude,
salvo egli esser dovea, né fargli danno
ad Era o a me consente Giove. Adesso
ch’à le fatiche ad Euristèo compiute,
Era vuol che di strage consanguinea
si macchi, e i figli uccida; e anch’io lo voglio.
Orsú, riscuoti, o della Notte negra
vergine figlia, il tuo cuore spietato,
e avventa la follia sopra quest’uomo,
e parricidi turbamenti d’animo,
spingi i suoi piedi a dissennato balzo,
molla tutte le gòmene di strage,
sí ch’ei, spingendo d’Acheronte al valico
dei suoi figliuoli la corona bella,
di sua mano distrutta, apprenda quale
è per lui d’Era l’odio, e quale il mio.
Piú nulla i Numi non saranno, e grande
l’uomo sarà, se questi il fio non paga.
furia
Nobili e padre e madre ebbi: dal sangue
del Cielo e della Notte ebbi la vita.
Ed è l’ufficio mio tal, che gli amici
s’allegrano di me poco, né gaudio
è per me frequentarli. Adesso, voglio
Era esortare e te, pria che cadiate
in qualche fallo: i miei discorsi udite.
L’uomo al cui tetto m’inviate, privo

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non è di fama, né sopra la terra
né fra i Celesti. Incivilendo impervie
terre, e selvaggi mari, egli da solo
rialzò l’are degli Dei, cadute
sotto le mani d’empie genti. Ora io
male sí grande non t’esorto a compiere.
iride
Alle mie trame, alle trame d’Era, apporre non ti piaccia.
furia
Io t’avvio sul buon sentiero: ché tu sei su mala traccia.
iride
Era qui non m’ha mandata per udir sagge parole.
furia
Devo far ciò ch’io non bramo: testimonio invoco il Sole.
Pur, se devo, come segue cacciatore il suo segugio,
l’orme tue premere a furia, l’orme d’Era, senza indugio
vado; e tanto impetuoso non vedrai di mare flutto,
né tremuoto, né di folgore scintillio, segno di lutto,
come io l’anima, correndo, presto avrò d’Ercole invasa.
Farò sí che il tetto crolli, che su lui piombi la casa.
Prima ai figli darò morte; e poi ch’egli uccisi li abbia,
non ne avrà sentore, prima che lo lasci la mia rabbia.
Vedi, ve’, già per entrare nella lizza, il capo scuote,

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e le orribili pupille volge muto, in pronte ruote,
né piú modera l’anelito, sembra toro inferocito,
e dal Tartaro le Parche, con orribile muggito
chiama. A danza piú selvaggia, d’un mio flauto coi deliri,
vo’ spronarti. Col pie’ rapido tu all’Olimpo affrettati, Iri.
Io d’Alcide inoltro il piede — nella casa, e non mi vede.
Entra nella reggia. Iri sparisce.
coro
Deh gemi, gemi! Reciso il tuo fiore,
o Tebe, cade, di Giove la prole,
Ellade, misera! Il tuo difensore
tu perdi, perdi: lo spinge la Furia
con i suoi flauti a dementi carole.

Balzò sopra il plaustro, il pungolo,
a scorno, dal cocchio
vibrando, la Gòrgone
attrice di lamenti,
della notte la figlia, dall’occhio
che impietra, la Furia
chiomata dal sibilo
di cento serpenti.
Ben presto è il bene mutato in affanno;
per man del padre i figliuoli morranno.