Fantasia (Serao)/Parte prima/V
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V.
Era l’ultima lezione. Moriva l’agosto, finivano le lezioni. Tutte le fanciulle, dopo le vacanze di settembre e ottobre, sarebbero rientrate pel san Carlo. Ma le tricolori, quasi tutte diciottenni, compiti gli studi, uscivano nel settembre per non rientrare più. Quel giorno, alle due del pomeriggio, assistevano all’ultima lezione di storia, l’ultima fra le ultime. Dopo di quella il corso degli studi era assolutamente finito.
Così vi erano in tutte quelle fanciulle e nella stanza e nell’ambiente tante cose insolite. Per questo i capelli biondi e ricci di Carolina Pentasuglia erano pettinati alla monella, come mai non erano stati: una testolina birichina tutta folta di riccioli. Giovanna Casacalenda, tolto il grembiule, era rimasta tutta bianca: un candore splendido, tagliato alla vita dalla cinta di lana tricolore. Artemisia Minichini portava al collo, attaccato a un nastro di velluto nero, un grosso medaglione d’oro. Ginevra Avigliana portava nel giro della cintura, proprio sotto il cuore, tre rose rosse. Ma tutte rimanevano serie e composte in quella classe che già pareva deserta: sui banchi non un libro, non un foglio di carta, non una penna. I calamai chiusi. Alcuni cassetti aperti, vuoti. In un angolo, per terra, dietro la lavagna, un mucchio di carte stracciate, spiegazzate, fatte in pallottole, fatte in pezzetti. Sopra una parete, fatto a saggio di calligrafia, stampatello, tondo e inglese, tutto svolazzi, un quadro che diceva così: — Nell’anno scolastico.... compivano gli studi del quinto corso ginnasiale le signorine.... — E la prima era Lucia Altimare. Era la chiusura, il volume serrato, la parola Fine. Le signorine non si voltavano mai dalla parte del quadro. Qualcuna aveva gli occhi lievemente arrossiti.
Quel giorno la lezione si svolgeva grave, severa. Tutte avevano studiato quel periodo del 1815 col quale termina il programma di Storia. Ogni tanto il professore faceva qualche osservazione critica, che le alunne ascoltavano attentamente. Caterina Spaccapietra, l’annotatrice diligente, segnava con una matita sopra un pezzo di carta. Il professore, quel giorno, era più brutto e più pallido che mai: sembrava più magro, più meschino nei panni che gli facevano addosso tante pieghe sgraziate. Sulla cravatta di raso rosso cupo, di pessimo gusto, un grosso cammeo, uno di quei vecchi gioielli senza valore delle famiglie provinciali, era la nota più ridicola della sua persona. Quel giorno egli fuggiva con più cura gli sguardi delle collegiali. Le stava a sentire con una grande attenzione, con gli occhi socchiusi, dicendo di sì col capo, mormorando qualche bene sottovoce. Ogni tanto dava il commento, come parlasse a se stesso, distratto.
Così suonò la mezz’ora. Come i minuti passavano, la voce di quella che diceva la lezione si faceva più bassa, più tremula: poi, in fondo, il professore aggiunse certe notizie storiche intorno a Napoleone. Parlava piano e scegliendo le parole. Quando ebbe finito, scoccarono i tre quarti. Maestro e alunne si guardarono, presi da una pena subitanea, da un imbarazzo doloroso.
L’insegnamento di storia era finito.
— La classe chiede il permesso di far leggere la sua lettera di congedo — disse Cherubina Friscia, senza che niuna emozione turbasse la sua voce indifferente.
Egli esitò: una indecisione angosciosa gli si dipinse sul volto.
— Io preferirei leggerla a casa.... con più raccoglimento.... — balbettò lui, non trovando nulla di meglio da dire.
— No, no, ascoltatela, professore! — supplicarono due o tre voci tremanti.
— È l’uso, professore — disse seccamente Friscia.
Ci fu un minuto di silenzio. D’improvviso le facce si erano fatte pallide, turbate tutte da una medesima commozione. Egli aveva chinato il capo e pensava; finalmente:
— Leggete — disse, e parve si raccogliesse, dietro la mano che gli nascondeva gli occhi.
Altimare si alzò, cavò da una busta le lettera e la lesse, fermandosi a ogni parola, staccando le sillabe, smorzando la voce.
«Stimato e amato professore. Invero la sorte è stata cieca e crudele, scegliendo me per dare a voi, egregio professore, l’ultimo addio di una classe che parte. Troppo colpita da questo comune dolore, pensando di quanta solitudine ci circonderà questo distacco, sentendo nel cuore uno spasimo senza nome, io sicuramente non saprò far passare, nelle parole tutta la passione che è nel nostro spirito esulcerato, per colui che fu il nostro maestro e la nostra guida. Oh! non giudicate da quello che io vi scrivo, quello che noi tutte sentiamo per voi. È così pallida, così debole, così inefficace la parola, e il sentimento così profondo. Professore, noi partiamo....»
Un singulto interruppe la lettura. Ginevra Avigliana, con la testa abbassata sul banco, la faccia tra le mani, piangeva.
«.... da questo collegio dove vivemmo i più dolci anni della vita, dove passammo l’infanzia e l’adolescenza in compagnia delle care amiche, nei severi studi che dovevano conformarci l’intelletto a un ideale di educazione. Noi lasciamo questa casa dove abbiamo tanto sorriso e tanto imparato: la casa testimone dei nostri giuochi, dei nostri combattimenti con la scienza, dei nostri sogni. Dio ci pare che tutto un passato scompaia....»
Silenziosamente, Carolina Pentasuglia piangeva, col cuore serrato, sentendosi affogare.
«.... che venga travolto in un vortice, che la nostra gaia gioventù sia sparita, e che c’incomba grave il peso di una vita piena di doveri. Noi non osiamo guardare l’avvenire senza paura, noi vorremmo prolungare quest’ultimo giorno di collegio, noi vorremmo gridare alla direttrice, ai professori: Perchè ci scacciate? eravamo così felici! O teneteci, teneteci con voi!...»
La leggitrice non ne poteva più: la voce era diventata rauca, i singhiozzi le spezzavano la parola, le lagrime l’accecavano. Si asciugava col fazzoletto gli occhi e le guance, proseguendo con pena.
«.... ma questa è la dura legge che impera sugli umani. Un conoscersi, un amarsi, un dividersi: sempre il distacco dalle persone con cui si sarebbe vissuti felici. Ebbene, noi raccogliamo le nostre rimembranze, ripensiamo in questo giorno la vita vissuta, e tutt’i benefizi ricevuti dalla scienza vostra, dai vostri ammaestramenti, dal vostro costante indulgente amore, ci si ripresentano. Per quanto faceste siate benedetto e ringraziato. Sarete il più affettuoso ricordo che porteremo nella battaglia della vita, sarete una luce amica nel tenebrore fitto che forse ne aspetta. Se v’increscemmo mai, perdonateci. Ve lo chiediamo per quest’ora d’angoscia a cui giungiamo preparate, ma che pertanto ci riempie di sgomento. Ricordatevi di noi senza rancore....»
La leggitrice si abbandonò sul banco, esausta, piangendo dirottamente. La lettera le era caduta di mano. Cherubina Friscia si alzò, traversò flemmaticamente la classe, raccolse la lettera, la rimise nella busta, e la posò sulla scrivania del professore. Quasi tutte piangevano, afferrate da una disperazione infantile, desolate da tutti quei saluti, desolate da quei particolari di partenza, desolate di andarsene, spaventate del mondo dove entravano con un dolore, avendo paura, paura di tutto.
Artemisia Minichini, per fare la donna forte, si mordeva le labbra, batteva le palpebre, affaticavasi invano a frenare le lagrime; ma al rossore del viso si vedeva lo sforzo che faceva. Giulia Pezzali, una piccola, col capo arrovesciato sulle braccia, appoggiata al banco come un bambino, si lamentava pian piano, come se le avessero fatto male. Quella bellezza carnosa e bianca di Giovanna Casacalenda era tutta sconvolta: gli occhioni neri e meravigliati si appannavano di lagrime. Aridi, secchi gli occhi di Caterina Spaccapietra, ma ogni tanto un sospiro le sollevava il petto.
Il professore aveva trasalito al primo singhiozzo che aveva interrotto la lettera, tendendo l’orecchio come a un noto suono. Egli non piangeva. Ma in quel soffio pesante che abbassava quelle teste giovinette, in quello scoppio clamoroso di lagrime, egli sembrava, lassù, ancora più infelice degli altri giorni.
— Ascoltate — disse. — Non piangete....
Qualche faccia si rialzò, tutta bagnata di lagrime.
— Non piangete. All’età vostra non si piange. Verrà il tempo: tardi, molto tardi, è il mio desiderio. Oggi, staccandovi da questo educandato, dove è tanta parte di voi, provate un dolore insopportabile. Domani una gioia verrà a cancellare questo dolore. Di questa alternativa è fatta la vita. Essa non sarà dura, se vi porterete la fede e il coraggio. Io v’insegnai quello che sapevo, cercando farvi ritrarre dai casi degli uomini la guida delle vostre azioni. Perchè mi ringraziate? Ho fatto poco. O se volete ringraziarmi, vi prego, fatelo in questa sola maniera: siate buone, siatelo umanamente, femminilmente. Ricordatevi di chi vi disse queste parole, ricordatevi....
Ora a lui la voce moriva nella gola e tremavano le mani. Le fanciulle si erano di nuovo buttate giù a piangere, riprese da una crisi. Egli stette un momento immobile, ritto sulla cattedra, a guardare quelle teste chine, quelle facce immerse nei fazzoletti, quei corpi convulsi, poi scese pian piano, scrisse sulla lavagna, col gesso, una sola parola, e se ne andò silenziosamente, chinando il capo innanzi a Friscia.
Sulla bruna lavagna, a grossi caratteri incerti, si leggeva: «Addio».
A capo del dormitorio, una sola vacillante fiammella di gas: si allineavano i bianchi lettini ove le tricolori passavano l’ultima notte di collegio. Sino a tardi erano durati i piccoli dialoghi, interrotti da sospiri, da riflessioni malinconiche, da rimpianti. Avrebbero voluto vegliare tutta la notte nella nervosità del loro dispiacere, ma una stanchezza aveva fatto dileguare questo progetto. La loro fibra non resisteva più e il sonno si prendeva quelle anime travagliate, stanche di piangere. Qualche languido buonanotte si era inteso: poco a poco i respiri affannosi si erano fatti più regolari, più lievi: i sussulti si erano calmati. Un riposo avvolgeva tutto il dormitorio delle tricolori. Suonarono le ore al grande orologio, ma i sogni giovanili nulla sanno delle ore.
Quando scoccarono le due dopo la mezzanotte, Lucia Altimare aprì gli occhi. Non aveva dormito, aveva aspettato, divorando l’impazienza. Lentamente, senza far rumore, senza scendere di letto, prese i suoi panni dalla seggiola vicina e si vestì; infilò i piedi nudi nelle pantofole e scese dal letto. Camminava con infinite precauzioni, come un’ombra, guardando obliquamente i letti dove dormivano le compagne. Ogni tanto si voltava verso il fondo della sala dove Cherubina Friscia abbandonava sul cuscino il suo scialbo e floscio viso di beghina: era là il pericolo. Così, nella penombra fitta, Lucia Altimare, un fantasma bianco e alto, dagli occhi ardenti, arrivò sino al letto di Caterina Spaccapietra.
L’amica dormiva, quieta, composta, col respiro di una bambina. Le si chinò all’orecchio, con un soffio di voce:
— Caterina, Caterina.
Quella sbarrò gli occhi, atterrita, col grido affogato nella strozza dal cenno di silenzio di Lucia Altimare. Con la espressione meravigliata del viso, la interrogò.
— Se mi vuoi bene, Caterina, vestiti e vieni.
— Dove andiamo? — osò domandare l’altra, esitando.
— Se mi vuoi bene....
Caterina non chiese altro. Senza far romore si vestì, guardando ogni tanto Lucia. Questa rimaneva lì, come una statua, aspettando. Quando Caterina fu pronta, la prese per mano per avviarsi.
— Non aver paura — le susurrò Lucia, sentendo quella mano gelata.
Traversarono la viottola che divideva i letti del dormitorio. Solo Artemisia Minichini si voltò nel suo letto e parve avesse aperto per un istante gli occhi. Si fermarono, sogguardando. Nessun altro segno di risveglio. Passando innanzi al letto di Friscia, che era l’ultimo, presso la porta, abbassarono il capo, si fecero piccine. Quel momento parve loro un secolo. Quando si trovarono nel corridoio, Caterina strinse la mano a Lucia come se uscissero da un grave pericolo.
— Vieni — mormorò ancora la voce seduttrice di Lucia. — Vieni.
E se la trasse dietro, nella oscurità del corridoio, camminando lenta, ma sicura, sfiorando la muraglia.
Fuori dei finestroni la notte era profonda. Le due ombre bianche andavano a traverso l’ombra nera. Lucia sentiva di nuovo agghiacciarsi nella sua la mano di Caterina.
— Vieni — le mormorava, voltandosi a soffiarle nel viso, come se volesse darle la vita che le mancava.
Erano giunte alla scala. Lucia passò la mano di Caterina sotto il proprio braccio. Caterina aveva chiusi gli occhi: si lasciava condurre, contando macchinalmente gli scalini: poi scordò la cifra e le pareva di scendere infinitamente, una scala interminabile. Non capì se voltavano a destra o a sinistra, avendo perduto il senso della topografia. Come un agnello ubbidiente, si lasciava condurre.
— Vieni, vieni, vieni — mormorava ancora la voce di Lucia, incoraggiante.
D’un tratto si arrestarono dinanzi a una porta. Lucia abbandonò la mano di Caterina e ficcò una chiave nel buco della serratura: con un lieve stridìo, la porta si aperse. Un buffo di aria fresca colpì le due fanciulle; un piccolo chiarore, una luce diffusa apparve loro. Dinanzi alla immagine della Vergine una lampada ardeva. Erano nella cappella.
Tranquillamente Lucia s’inchinò davanti all’altare e accese alla lampada due candelabri. Poi voltasi a Caterina che respirava, tutta stordita, nella luce, le disse ancora una volta:
— Vieni.
Si avanzarono verso l’altare. In quella chiesetta imbiancata di calce, con due alte finestre aperte verso la campagna, una umidità piacevole temperava la caldura della notte d’agosto. Rimaneva ancora nell’aria un lievissimo odore d’incenso. La chiesa era tutta placida, tutta raccolta, i candelabri al posto, i ceri smoccolati, il Sacramento chiuso nel ciborio, la tovaglia rialzata per non farla sciupare. Ma una frasca d’argento, a ovolo, tutta intagliata, dietro cui Lucia aveva acceso un candelabro, proiettava sul muro un profilo mostruoso di animale pensieroso. Caterina stava lì come trasognata, lasciando la sua mano in quella di Lucia: era calda, bruciante oramai la sua mano, a cui quella di Lucia aveva dato la febbre. Non chiedeva neppure più, a quella insolita ora, nella notte profonda, che strano rito fossero venute a compiere nella cappella, illuminata per loro solamente. Provava una inquietudine vaga, come un bisogno di sonno, un peso alla testa, per cui sarebbe stata felice di tornarsene al dormitorio, di riappoggiare il capo al cuscino per riaddormentarsi. Ma come quelli che sognano di voler fare una cosa e hanno una volontà sicura nel sogno, ma non la parola per esprimerla, ne la forza per attuarla, così ella sentiva, in quel dormiveglia, il torpore della propria volontà. Guardava attorno come stupefatta, non intendendo, non chiedendo di intendere. Ogni tanto un impercettibile sbadiglio le stirava la bocca.
Lucia congiunse le mani sul petto e fissò gli occhi sulla immagine della Madonna. Nessun suono usciva dalle sue labbra semiaperte. Caterina, che le era accanto, si chinava a osservarla: in quel morbido giro di pensiero che roteava, roteava come per addormentarsi, ella si chiedeva se questo che accadeva non fosse un sogno, se Lucia non fosse un fantasma. Caterina si passò una mano sulla fronte, quasi per ridestarsi, quasi per far scomparire quell’allucinazione.
— Ascolta, Caterina, e cerca di intendermi bene, meglio di quel che io sappia esprimere. Mi dai tutta la tua attenzione?
— Sì — disse l’altra, facendo uno sforzo.
— Tu lo sai, se qui dentro ci siamo volute bene. Dopo Dio, la Madonna Addolorata e mio padre, io ho amato te, Caterina. Tu mi hai salvato la vita, non lo dimenticherò mai. Senza te sarei andata ad ardere nell’inferno, dove bruciano eternamente i suicidi. Grazie, core mio. Credi tu alla mia gratitudine?
— Sì — disse Caterina, spalancando gli occhi per capir meglio.
— Ora noi che ci amiamo tanto, ci dobbiamo separare. Tu andrai a sinistra, io a destra. Tu ti mariterai, io non so quello che farò. Ci rivedremo presto? Non so. Vivremo di nuovo insieme, nell’avvenire? Non so. Ne sai tu nulla?
— No — rispose Caterina, scuotendosi.
— Ebbene, io ti propongo di vincere il tempo, la distanza, le cose, gli uomini, se si oppongono al nostro affetto. Di lontano, divise da tutto, se ciò accade, amiamoci come oggi, come ieri. Lo prometti tu?
— Lo prometto.
— La Madonna ci ascolta, Caterina. Lo prometti tu con un voto, con un giuramento?
— Con un voto, con un giuramento — ripetette Caterina, monotonamente, come un’eco.
— E anche io lo prometto. Che mai nessuno potrà spezzare, con le parole, con le opere, questa nostra salda amicizia. Lo prometti tu?
— Lo prometto.
— E anche io lo prometto. Che mai l’una cercherà di far male all’altra, che mai le cagionerà, volente, un dispiacere, che mai, mai, la tradirà. Promettilo. La Madonna ci ascolta.
— Lo prometto.
— Io lo giuro. Che sempre, in qualunque occasione, con qualunque mezzo, l’una cercherà di aiutare l’altra. Dimmi se lo prometti.
— Lo prometto.
— E io pure. Ancora: che l’una sarà sempre pronta a sacrificare la propria felicità per quella dell’altra. Giura.
— Lo giuro.
— Anch’io lo giuro. Ancora, ancora: che l’una sarà pronta a morire per l’altra. Giuralo, giuralo!
Caterina pensò un istante. Era un sogno questo, un singolare sogno, o lei s’impegnava per tutta la vita?
— Lo giuro — disse fermamente.
— Lo giuro — ripetette Lucia. — La Madonna ha inteso. Guai a colei che manca! Iddio la punirà.
Caterina assentì col capo. Lucia cavò di tasca il suo rosario. Era tutto a pallottoline azzurre, di lapislazzuli, legate fra loro da anelletti di argento. Vi pendeva un piccolo crocifisso di argento e una medaglina di oro, su cui era incisa la Madonna della Salette. Lo baciò.
— Noi spezzeremo questo rosario in due parti eguali, Caterina. Metà ne porterai via tu, metà ne serberò io. Sarà il ricordo dell’amicizia, sarà il ricordo del giuramento. Quando io pregherò la sera, mi ricorderò: tu ricorderai nell’ora della preghiera. Quella età metà mancante ti farà pensare all’amica lontana.
E prendendo il rosario, l’una da una parte, l’altra dall’altra, trassero fortemente. Gli anelli di argento, solidi, resistettero. Tre volte il tentativo fu rinnovato: gli anelli non volevano cedere. Dovettero torcerli per spezzarli. Lucia serbò una metà col crocifisso, Caterina una metà con la medaglina. Le due fanciulle si abbracciarono.
Poi udirono l’orologio sonare le tre. Quando di nuovo fu silenzio nel Collegio e nella cappella vuota, ambedue s’inginocchiarono sul gradino dell’altare, congiunsero le mani sul petto, chinarono gli occhi e dissero insieme:
— Padre nostro....