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Fisiologia vegetale (Cantoni)/Capitolo 15

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§ 15 - Le soluzioni non nutrono; anzi sono nocive. Il terreno si oppone all’azione nociva delle soluzioni. Fatti agricoli che le soluzioni nuocono. Sperienze del dottor Cossa

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§ 15 - Le soluzioni non nutrono; anzi sono nocive. Il terreno si oppone all’azione nociva delle soluzioni. Fatti agricoli che le soluzioni nuocono. Sperienze del dottor Cossa
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§ 15. — Le soluzioni non nutrono; anzi sono nocive. Il terreno si oppone all’azione nociva delle soluzioni. Fatti agricoli che le soluzioni nuocono. Sperienze del Dott. Cossa.

Liebig, oltre al negare la nutrizione per mezzo delle soluzioni, aggiunge essere probabile che le radici muojano quando il nutrimento giunge loro in istato di soluzione. Ed anche una tale asserzione verrebbe convalidata da alcune esperienze e da alcune osservazioni fatte da quello stesso Bouchardat, il quale nel suo trattato di botanica, parlando della nutrizione delle piante s’esprime in questi termini:

L’acqua è senza dubbio il principale agente che serve ad introdurre gli alimenti nelle piante.

E dopo d’aver indicato come nelle piante s’introducano il carbonio, l’idrogeno, l’ossigeno e l’azoto, dice: [p. 48 modifica]

Tutte le altre sostanze vi arrivano belle e formate, e vi sono trascinate dall’acqua allo stato di soluzione.

Le sperienze del Bouchardat1 non possono adunque essere sospette. Esse trovansi in due memorie presentate all’Accademia delle Scienze in Parigi il 6 febbrajo 1843, ed il 20 aprile 1846. Nella prima sonvi quelle dirette a provare l’azione dei sali ammoniacali siccome ingrasso; nella seconda quelle che servono a constatare l’azione dei veleni sulle piante.

La prima termina colla seguente conclusione:

Le soluzioni dei sali ammoniacali, cioè: sesquicarbonato, bicarbonato, cloridrato, azotato e solfato, alla diluizione di 1/1000 ed anche di 1/1500 nell’acqua distillata, avvelenano le piante le cui radici pescano in esse, laddove vivrebbero assai bene nell’acqua pura.

Le sperienze vennero eseguite con piante che possono prosperare anche nell’acqua, quali la menta acquatica e silvestre ed il poligono orientale.

Ma più importanti sono le conclusioni della seconda memoria, le quali Bouchardat afferma derivare nettamente dalle esperienze da esso fatte, soprattutto in via comparativa con piante di menta acquatica la quale vive egualmente bene nell’acqua e nella terra. Di queste ne pose nell’acqua distillata, nella sabbia umida, nella terra cattiva, ed in un miscuglio a parti eguali di terriccio e buona terra da giardino. Le sostanze sperimentate allo stato di soluzione furono il carbonato d’ammoniaca, l’azotato di potassa, il cloridrato d’ammoniaca e di morfina, l’essenza di cedro. — Preparò una soluzione d’un centesimo d’ogni sostanza, che sostituì in un caso all’acqua distillata, e fece imbevere, per ripetuto [p. 49 modifica]lisciviamento, un centesimo della stessa sostanza alla sabbia, alla terra cattiva, ed al buon terreno. — Altre quattro piante di menta erano poste in eguali condizioni, per rispetto alla qualità del mezzo in cui dovevano vegetare, ma erano bagnate con acqua distillata. — Piante di sensitiva erano egualmente sperimentate con 1/200 di sostanza disciolta. — Il risultato costante di queste sperienze fu che, dopo pochi giorni (da tre a sei), periva per la prima quella pianta che vegetava nella soluzione, poi quella nella sabbia bagnata colla soluzione, poi quella della terra cattiva, per ultima quella della buona. Le piante che per confronto vegetavano nell’acqua distillata, od in terra bagnata con essa, si conservarono meglio delle altre.

Sperimentò eziandio il Bouchardat piante usuali (frumento, maiz, fagiuoli), solo confrontando il risultato dell’acqua contenente le soluzioni, con quelle della buona terra bagnata con esse. Le sostanze disciolte furono il carbonato, il cloridrato ed azotato d’ammoniaca, il bicarbonato di soda, il cloruro di sodio, l’azotato di potassa, i solfati ferrosi.

La conclusione dei succitati sperimenti, la quale chiude la suesposta memoria, è la seguente:

La natura del terreno ha un’influenza considerevole sull’azione delle sostanze (tossiche ed altre) nelle piante, e la resistenza all’azione deleteria è tanto più grande quanto migliore è la qualità della terra. Alcuni vegetali i quali compiono tutte le fasi della loro vegetazione quando, crescendo in buon terreno, sono bagnati con una soluzione salina od altra, non decomposta dalla terra, muojono spesso dopo qualche giorno quando le loro radici vi s’immergano liberamente.

Le sperienze del Bouchardat, citate nella di lui prima Memoria del 6 febbrajo 1843, mostrano che le piante vivono più a lungo nell’acqua pura che nell’acqua [p. 50 modifica]contenente soluzioni allungatissime di sali anche ritenuti siccome utili, ossia che deperiscono più lentamente in un mezzo che somministra loro soltanto l’umidità e nessun nutrimento in soluzione, che non quando siano obbligate ad assorbire, coll’acqua, altri materiali da esse non elaborati. — Ma le sperienze citate nella memoria del 20 aprile 1846 con maggior evidenza provano non solo che le piante muojono più presto nelle soluzioni che nell’acqua pura, ma eziandio che le stesse soluzioni, aggiunte al terreno, riescono tanto più nocive quanto più possono agire liberamente. Perciò le prime a risentirne il danno furono le piante che vegetavano nella sabbia, poi quelle che erano nella terra magra, indi quelle che si trovavano nella terra migliore. Soggiunge quindi il Bouchardat.

La buona terra non solamente fornisce alle piante i materiali utili, ma si oppone anche all’assorbimento di principj nocivi.

Infatti la buona terra fu l’ultima a lasciar sentire l’influenza dannosa delle soluzioni, sebbene essa pure abbia favorito assai meno la vegetazione che non l’identica terra bagnata con acqua scevra d’ogni sostanza disciolta.

Il Bouchardat su questo proposito ci fornisce nuove prove nelle sue sperienze sullo sviluppo delle piante le cui radici pescano nell’acqua. Queste furono fatte sopra semi di polygonum orientale. — I semi disseccati si fecero germogliare nella flanella inumidita, indi furono sostenuti sopra l’acqua distillata. Dopo 61 giorni di vegetazione languida, le pianticelle deperirono; furono ripesate, e riscontrate complessivamente pesanti come i semi, notando soltanto un aumento d’ossigeno, ed una diminuzione di ceneri. — Nel terriccio bollito con bicarbonato di potassa, ed abbastanza allungato perchè non [p. 51 modifica]riuscisse deleterio alla vegetazione, i semi di polygonum diedero i medesimi risultati.

Ho variato, egli dice, le sperienze col fornire soluzioni fatte con materiali che possono convenire, e che sono contenuti nelle acque fertilizzanti, sali calcari, magnesiaci, bicarbonato di potassa, d’ammoniaca, fosfati diversi, silicato di potassa, e sempre arrivai allo stesso risultato. Queste piante vi prosperano meno bene che nell’acqua pura. E quando un seme germogliato pesca colle radici in queste soluzioni, la pianta rimane estremamente stentata, e mai non compie tutte le fasi della propria vegetazione.

Condotto pertanto il Bouchardat dalle ripetute proprie sperienze al convincimento che le sostanze minerali, servienti di alimento ai vegetali, allo stato di soluzione non sono utili, ma eziandio dannose; vedendo che la pianta, quando non soffre, assorbe ma non assimila, dubita della generale opinione, da esso pure accolta, e che già ho riportato. — Ed a questo proposito non mi stanco di citare le di lui medesime parole2.

I fatti contenuti in questa nota sono destinati, se non erro, a rischiarare la storia ancor tanto oscura della funzione delle radici. La più evidente di tutte è, senza dubbio, l’assorbimento dell’acqua del terreno umido, la quale serve a formare l’elemento essenziale del succhio ascendente; ma io credo che ingannerebbesi molto asserendo che le radici sono unicamente destinate ad assorbire dal terreno l’acqua più o meno carica di sali o di sostanze organiche per trasmetterle alla pianta; esse hanno anche altre funzioni, sulla natura delle quali l’esperienza non ci ha sufficientemente rischiarato, ma che sembrano avere una grande importanza nell’economia vegetale. Queste funzioni sembrano annullate o grandemente alterate dall’immersione delle radici nell’acqua..... Al pari delle foglie, le spugnette devono avere delle relazioni importanti coll’atmosfera. Quest’azione che si credeva limitata alle parti verdi esposte alla luce, agisce eziandio [p. 52 modifica]nell’oscurità pel mezzo delle spugnette. L’azoto, la cui assimilazione è ancor tanto oscura, mi sembra entrare nella vita organica per mezzo delle spugnette delle radici.

Per verità, è a maravigliarsi come queste sperienze e queste conclusioni non siano state abbastanza apprezzate e dallo stesso sperimentatore e dagli altri fisiologi. E se tali conclusioni potevansi considerare quali fatti di laboratorio, non rappresentanti le condizioni normali in cui vivono le piante, esistevano numerosi fatti in natura i quali chiaramente le convalidavano. Già ho fatto cenno del prodotto diminuito nelle annate soverchiamente umide, in confronto di quelle che appena forniscono l’umidità necessaria al terreno. Ora chiamo l’attenzione su quanto avviene in una porzione di prato depresso, ove l’acqua di pioggia o d’irrigazione vi si fermi più del bisogno. Ivi la produzione riesce di molto inferiore alle altre parti del prato; alle piante graminacee o leguminose, presto vi si sostituiscono le ranuncolacee, indi le ciperacee e le equisetacee, di natura sempre più palustre od acquatica. Osservate un campo di cereali che avvicini un prato irrigato di frequente, e vedrete che quella porzione che lo fiancheggia, sebbene non inondata, ma solo perchè di frequente imbevuta dall’acqua proveniente dall’irrigazione, si mostra meno vegeta, e compie più stentatamente le fasi della speciale vegetazione, in confronto all’altra parte del campo non soggetto a simile influenza. Si faccia attenzione a quanto avviene in ciascuna coltivazione, sia di cereali, sia di foraggi, allorquando vi si spande al di sopra concime liquido: tutte immediatamente sembrano a bella prima deperire, e l’azione benefica di quelle sostanze liquide si appalesa soltanto dopo alcuni giorni. E questo fenomeno è tanto più evidente quanto più le soluzioni abbondano di materiali disciolti, e quanto meno sono [p. 53 modifica]scomposte o fermentate. In molte parti della Lombardia, nello scorso anno vennero rifiutati, siccome nocivi, i residui liquidi del gas, tanto sparsi sui cereali, quanto sul prato. I cereali, e specialmente il frumento ed il melgone, ne soffrirono immensamente e non si riebbero in parte se non dopo molte settimane. I prati e cotiche di foraggi leguminosi, presentarono qua e là spazj intieramente sprovvisti di vegetazione, o, come si dice, abbruciati, specialmente dove maggior quantità di detta sostanza erasi somministrata. Persino i gelsi e le viti, le cui radici avevano risentita l’influenza di quei residui, fermarono la propria vegetazione, e perdettero le foglie dopo un pronto ingiallimento. Insomma, dovunque le radici siano, anche temporariamente, obbligate ad essere in contatto di materie disciolte, vi ha sempre un temporario deperimento di vegetazione, come se pescassero nelle soluzioni, finchè altre circostanze, che verrò in seguito enumerando, non vi portino un efficace rimedio.

Le recenti sperienze del dottor Cossa3, sull’assorbimento del ferro cianuro potassico, e del solfato di magnesia, conducono alla medesima conclusione: eppertanto le riproduco testualmente, solo per quanto riguarda i fenomeni presentati dalle sperienze suddette:

Seminai in un vaso empito di terra del granone. Quando il cereale arrivò col suo fusto all’altezza di quasi 7 centimetri, innaffiai il vaso per otto giorni con una soluzione di un grammo di ferrocianuro potassico cristalizzato in 800 grammi di acqua distillata. Nei primi cinque giorni le goccioline raccolte, chimicamente e fisicamente esaminate non diedero segno della presenza del cianuro metallico. Nel sesto giorno ve lo rinvenni e così nel settimo e nell’ottavo. A quest’epoca estirpate alcune pianticelle si trovarono le loro radici perfettamente sane. Dopo l’ottavo giorno continuandosi l’innaffiamento, le pianticelle di granone [p. 54 modifica]rimaste nel vaso cominciarono ad appassire, a perdere nell’intensità del color verde; in alcuni punti presentavano macchie bruno-cineree.

Nell’undecimo giorno levai dal vaso altre pianticelle, le radici esaminate si trovarono ingiallite, e quasi essicate; i succiatori erano ridotti ad esili filamenti senza nulla conservare della loro forma caratteristica. La spiegazione di questo fatto è chiara; continuando oltre il quinto giorno l’innaffiamento colla soluzione del cianuro si era esaurita nella terra la facoltà di decomporre, ritenere il sale ferroso-potassico per cui parte della soluzione potè indecomposta venire a contatto dei succiatori delle radici ed essere assorbita. L’assorbimento poi continuato per tre giorni (dal 5° all’8°) di una sostanza nociva alla vegetazione produsse uno stato morboso nell’organismo vegetale, stato morboso che si manifestò coll’appassimento del fusto, colle macchie bruno-cineree sulle foglie e coll’avvizzimento delle radici. Le radici alterate nella loro struttura davano agio al veleno di penetrare in copia allora non più per l’atto vitale dell’assorbimento, ma semplicemente per un fenomeno tutto fisico.

Seminai del granone nella sabbia calcinata, trattata coll’acido solforico e lavata accuratamente con acqua distillata. Appena le pianticelle cominciarono a sbucciare, innaffiai il vaso con una soluzione di un grammo di prussiato potassico (ferrocianuro potassico) in un litro d’acqua distillata. Esaminato le goccioline ottenute dopo il secondo innaffiamento diedero segno della presenza del cianuro; levate alcune di quelle pianticelle dalle quali aveva ottenute le gocciole che aveva prima esaminato, vi trovai sane le radici. Volendo conoscere se il cianuro veniva depositato anche nel tessuto delle piante, oppure venisse tutto espulso colle goccioline, raccolsi alcune piante dopo avere per cinque giorni desistito dall’uso della soluzione di ferrocianuro potassico e coi soliti metodi praticati nelle esperienze prima e seconda trovai solamente pochissime traccie di cianuro.

Innaffiai con soluzione di 10 gramme di ferrocianuro potassico in 400 gramme di acqua distillata un vaso in cui nella terra crescevano delle piante di zea mays. Dopo due giorni di innaffiamento (essendo questo praticato due volte nel corso di una [p. 55 modifica]giornata) le pianticelle erano morte; ed esaminate le radici vennero riconosciute alterate. Non si formarono le solite goccioline ed il cianuro si scoprì esistere in dose rilevante nel tessuto della zea mays. Da questa esperienza puossi arguire che la soluzione troppo carica del veleno aveva leso le radici ed impedito così l’assorbimento fisiologico. Il veleno ritrovato nel tessuto della pianta proveniva da cause che avevano agito dopo la morte della pianta stessa.

Lo stesso fatto si osservò, ma entro un termine di tempo più breve, in pianticelle di granone seminate e cresciute nella sabbia lavata con acido solforico che furono irrorate con una soluzione acquosa di ferrocianuro potassico avente lo stesso grado di condensazione di quella adoperata nell’esperienza precedente. La ragione del tempo più breve decorso dall’innaffiamento alla morte delle piante cresciute nella sabbia in confronto di quelle seminate nella terra comune è riposta nella diversità del mezzo in cui nelle due esperienze (4 e 5) vegetò la zea mays, il che facilmente si ammetterà per vero riflettendo che nella terra per cagione di reciproche affinità chimiche dovette avvenire una parziale decomposizione del veleno somministrato; decomposizione che non poteva succedere nell’arena depurata.

Con una soluzione acquosa di ferrocianuro potassico dell’egual titolo di quella adoperata nella esperienza precedente si innaffiarono due giovani piante di zinnea rosea che erano cresciute nella sabbia. Dopo due innaffiamenti praticati in un giorno, il succo di una zinnia dava un debole indizio della presenza del cianuro doppio. Le radici erano sane. Dopo tre giorni, esaminato il succo dell’altra pianticella di zinnea che fu egualmente alla prima innaffiata due volte al giorno, vi si trovò il sale ferroso-potassico in dose maggiore. Le foglie non davano segno di deperimento; ma le radici erano già alterate.

Si innaffiò una pianticella di quercus robur dell’età di un anno, cresciuta nella terra e trasportata colla terra onde non ledere in nessuna maniera le radici in un ampio vaso con una soluzione di tre grammi di ferrocianuro potassico in tre litri d’acqua distillata. Dopo il decimo giorno dall’innaffiamento cominciarono a formarsi delle macchie nerastre sulle foglie e sulla corteccia. Levai [p. 56 modifica]da alcune foglie così macchiate l’epidermide ed osservandone il parenchima nei luoghi corrispondenti alle macchie sotto il microscopio, vidi colorato in nero il contenuto delle cellule ed in alcuni punti anche la parte interna dei vasi a trachee svolgibili. — Le radici erano ancora sane.

Un altra quercus robur dell’età di un anno egualmente cresciuta nella terra venne innaffiata colla medesima soluzione di ferrocianuro potassico adoperata nell’esperienza precedente. Dopo otto giorni dall’innaffiamento cominciarono a manifestarsi le macchie. Dopo il tredicesimo giorno (seguitando sempre l’innaffiamento) le foglie diedero segno di gran patimento; le macchie nerastre si erano estese a quasi tutta la lamina delle foglie; esaminate le radici, si videro alterate in alcuni punti e principalmente nelle parti giovani.

Alcune pianticelle di orzo (hordeum vulgare) seminate e cresciute entro un vaso ripieno di terra vegetabile comune furono irrorate con una soluzione di un grammo di solfato magnesiaco cristallizzato in 500 grammi di acqua distillata. Dopo aver praticato due innaffiamenti con questa soluzione, si osservò il residuo lasciato dall’evaporazione di alcune goccioline raccolte su una lamina di vetro. L’aspetto cristalliniforme di questo residuo fornì un indizio del passaggio del sale attraverso lo radici dell’orzo; tuttavia a maggior conferma si istituì anche il cimento chimico e questo convalidò la conclusione dedotta dal solo esame fisico. Le piante di orzo erano vigorose come le altre che vennero seminate nello stesso tempo e crebbero nella terra comune in un vaso irrorato con acqua comune. Anche le radici esaminate diligentemente, non diedero segno d’aver la benchè in minima parte sofferto.

Risultati perfettamente eguali ai precedenti si ottennero sperimentando nelle medesime circostanze di mezzo e di soluzione con il frumento (triticum sativum), con la segale (secale cereale) e con il granone (zea mays). Queste esperienze non si fecero su di un sol vaso per ciascuno dei surriferiti generi di graminacee ma su molti, osservati anche in differenti stagioni.

Si continuò ad irrorare per 15 giorni con la medesima soluzione di solfato magnesiaco (1 grammo di sale cristallizzato in [p. 57 modifica]500 gramme di acqua distillata) pianticelle di hordeum vulgare seminate e cresciute nella terra. In tutto questo spazio di tempo le goccioline che si presentavano alla sommità delle foglie contenevano il sale di magnesia indecomposto; le piante non diedero indizio di patimento. Anche le radici si conservarono illese con succiatori abbondantissimi e ripieni della materia mucoso-granellosa loro propria.

Pianticelle di orzo seminate da sei giorni nella sabbia granitica previamente trattata coll’acido solforico e lavata, vennero innaffiate con una soluzione di una parte di solfato magnesiaco in 500 gramme di acqua distillata. Dopo il secondo innaffiamento le goccioline contenevano il sale. Le radici erano sane.

Piante d’orzo cresciute nella sabbia trattata come quella che servì nella esperienza precedente, vennero per 15 giorni continui bagnate colla solita soluzione di solfato di magnesia (1 grammo in 500 grammi d’acqua). Dopo il quindicesimo giorno le pianticelle si trovarono meno vigorose di altre piante di orzo cresciute egualmente nella sabbia granitica lavata, ma irrorate con semplice acqua comune; erano però più rigogliose di quelle che contemporaneamente erano cresciute nella sabbia ma innaffiata con acqua distillata purissima.

Ben considerate queste esperienze, istituite sotto un principio diverso, provano quanto già venne provato da quelle del Bouchardat, cioè che le soluzioni, quantunque allungatissime, danneggiano e non nutrono le piante; che il loro guasto è tanto più facile e pronto, quanto più agiscono a lungo e da sole, vale a dire senza il concorso del terreno; il quale pure esercita una tanto minore azione preservativa quanto più la sua chimica composizione sia meno atta a scomporre o trattenere i materiali dreciolti. In pari tempo provano che, sospendendo l’innaffiamento a tempo opportuno, cioè dopo poche volte, la pianta non soffre o può riaversi, perchè abbandona quanto forzatamente ha assorbito, ma non assimilato.

Note

  1. Recherches sur la végétation appliquées à l’agriculture. Par M. Bouchardat, Paris, 1846.
  2. Recherches sur la végétation. Paris, 1846, pag. 152.
  3. Opera succitata.