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Gemme d'arti italiane - Anno I/Episodio della strage degli innocenti

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Agostino Sagredo

Episodio della strage degli innocenti ../Napoleone a Bologna di Francia ../Ritratto di una signora IncludiIntestazione 23 luglio 2018 25% Da definire

Napoleone a Bologna di Francia Ritratto di una signora
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EPISODIO

DELLA STRAGE

DEGLI INNOCENTI

Quadro ad olio

DI NATALE SCHIAVONI

Quel lottare di opinioni diverse ed opposite, di opposti e diversi sentimenti, che è il carattere dell’età nostra, ferve anche nei campi dell’Arte. Dalle opinioni trasmodate, dai sentimenti che bollono fremendo, nascono le ire sconsigliate, allorché sentimenti ed opinioni abbiano la buona fede per fondamento. Quando servono di maschera ad orgoglio o ad abbietti interessi, ne vengono male arti e laide colpe. Nell’un caso e nell’altro, ne scapitano la ragione e la verità, pericola [p. 40 modifica]il bene sicuro dell’umana famiglia, e si diminuiscono quei diletti dai quali è infiorata la vita.

Le sette che pugnano sui campi dell’Arte non sono meno iraconde né intolleranti meno, di quello fossero iraconde e intolleranti le sette che hanno diviso le religioni e le nazioni. Dalle quali, per certo, non venne alcun onore agli uomini, né alcun giovamento.

Più giovine di tutte, e per questo più forte, incede prima una schiera che ha scritto sul gonfalone: «Non v’è altra Arte che l’Arte cristiana; fuori dell’Arte cristiana non v’ha salute né gloria; il quattrocento è il limite dei trionfi dell’Arte». Questa setta nacque fuor della cerchia dell’Alpe; Lamagna la creò; Francia l’ha cresciuta. Superate le giogaje dell’inutile schermo (siccome ogni moda straniera) trovò proseliti fra noi, e tra questi anche uomini di nobile e specchiato ingegno. Severa austerissima, collo stesso martello distrugge il tempio ed il foro d’Atene, la chiesa del Palladio, il palazzo del Sammicheli; e manda le statue di Fidia e del Canova alla fornace acciò si convertano in calce. E perché? Perché sono opere che sanno di profanità. E fatto catafascio delle pitture di Tiziano, del Tintoretto, del Domenichino, di Guido Reni, dei Caracci e di quasi tutti i maestri che fiorirono dopo l’anno di grazia mille e cinquecento, ne forma un falò, e vi dà fuoco intuonando il canto di una divota laude. La quale interrompono con poco divote maledizioni scagliate contro Raffaello, perché abbandonò le montagne dell’Umbria e impaniatosi nelle profanità di Roma, dipinse le sale del Vaticano e la Trasfigurazione; perché Tiziano fu amico dell’Aretino e dipinse l’Assunta, la Maddalena, [p. 41 modifica]il Martirio di san Pietro e di san Lorenzo, la Fede del Doge Grimani. E sovra tutti imprecano contro la memoria di quel massimo guastatore dell’arte, che il profano cantor del Furioso ebbe l’ardire di chiamare Michel più che mortale Angel Divino.

Sopra tante ruine riedificano. Ma, la preghiera non può salire grata all’Eterno fuorché nella oscurità delle chiese di architettura settentrionale; e noi che abbiamo queste vesti strette e il cappello tondo non possiamo ragionevolmente abitare se non in case che ricordano colle architetture le care visite fatte dai settentrionali alla terra nostra. Ivi è che sotto le volte archiacute si deve parlare di ragioni ed uffizii dei popoli, di commercii e d’industrie di leghe doganali, di carità pubblica, di casse di risparmio, d’asili infantili, di strade ferrate e di elettromagnetismo, cose tutte notissime a que’ buoni settentrionali che inventarono quelle architetture. Della pittura soli maestri gli antichi; peccato oltrepassare i quattrocentisti; i tipi veri nelle catacombe e nelle cripte. Distrutto l’idealismo pagano vi si deve sostituire il misticismo; il ricopiare la verità e la natura (quale Iddio l’ha fatta), è dannato, chiamandolo naturalismo. V’hanno però dei meno osservanti, i quali vogliono che si trattino altri suggetti fuori dei religiosi, come vogliono gli osservanti e quasi direi metodisti; e concedono i suggetti storici e l’imitazione della verità. Ma nacquero nella terra nostra e non la dimenticarono, sebbene inchinatisi innanzi alle nuove dottrine delli stranieri. E sì che «ora (come scrisse quell’illustre e generoso uomo, Gino Capponi) per le idee che regnano presso taluni, l’antico mondo sparisce sotto la penna degli [p. 42 modifica]scrittori, così come fu atterrato dall’asta dei barbari, e come essi restaurarono tra noi la vigoria che era spenta (pur tuttavia ritenendone per uso proprio la miglior parte) così anche vuolsi che a noi dessero la scienza e l’ingegno, l’istituzioni e ogni cosa.»

Un’altra setta adesso è seconda; fu prima e potentissima quando Napoleone domava i popoli, e lui trionfatore pingevano l’Appiani ed il David, lui scolpiva il Canova. Dai Gerofanti di questa setta s’ode bandire che non v’è altra arte fuor dell’arte greca, e che il secolo di Pericle è il sommo dell’arte. Seguaci del Mengs, del Reynolds, del Winckelmann, dello Azara ricordano come le accademie fossero rinnovate per attuare ed insegnare le dottrine professate da loro, e come a queste dottrine si debba il risorgimento dell’arte incominciatasi sul finire del secolo passato.

Ma sebbene sia vero che molto debba loro l’Arte (più ancora dovendo ai tempi concitati), pure stanno fitti ed immobili come il lor Dio Termine. Guardano con occhio di commiserazione chi si toglie a suggetto, o chi commette argomenti che non sieno mitologie od allegorie; chi pingendo colorisce altro che non sia statue greche, scolpendo scolpisce in modo diverso dai greci; edificando, e l’edifizio debba pur servire agli usi ed ai bisogni della civiltà presente, si scosta dalle architetture dei templi di Pesto, e del Partenone e dei Propilei.

Gli alunni loro sudar debbono anni ed anni ricopiando le sacre imagini di Giove Tonante e della sua corte bizzarra, e poco modesta, e per nulla onesta. I modelli vivi proposti allo studio dei giovani devono esser atteggiati per guisa da parere statue antiche; la vita ed il moto debbonsi trarre dal manechino. La natura poi, come il Signore [p. 43 modifica]l’ha fitta, è una vera miseria; bisogna spigolare di qua e di costà per trarne parti diverse, e poi raffazzonarle unendole per formarne quella eccellenza metafisica che è il Bello Ideale. Siccome non esiste in realtà, cosi lo scopo di questa setta è il perfezionare la natura e la verità. Di comune accordo stabiliscono certe convenzioni loro, dalla freddezza dello studio che assidera l’animo, vengono certe maniere loro di dipingere e scolpire che, imitazioni d’imitazioni, lasciano freddo lo spettatore come l’artefice che le operò; e non aveva né l’ingegno de’ greci, né la credenza religiosa; per la quale era necessario coprire i vizii del panteismo sotto al velame delle allegorie e dei miti, e quindi cercare che sparisse la schifosità della credenza sotto alle apparenze di forme superiori a quelle che sono vere e naturali.

Un’altra setta è di coloro che ricopiano la natura meglio e più volentieri cercando le sue povertà che le ricchezze; che nello scopo morale delle opere dell’arte preferiscono quello che impiccolisce l’uomo, lo avvilisce a’ suoi propri occhi; e lo accenna ad altrui come pericoloso, malvagio, degno di odio e disprezzo. Ritraggono colpe e delitti, miserie e danni, come altri li conta nelle leggende e nelle ballate, li personifica nei drammi, li descrive nelle fole di romanzo. La differenza non consiste per tutti costoro che nelle vesti. Prima usarono le armi luccicanti, il sajone da romito dell’evo medio ed in ispezie dei Crociati; poi i velluti e le gemme delle Corti degli Enrichi e dei Luigi; poi la fustanella ed il cangiare dei Botzari e dei Canaris: adesso che è l’intimo in voga, si studiano i cenci ed il ciarpame dei poveri. [p. 44 modifica]

Per altri l’Europa è vecchia: bisogna correre in Africa ed in America per cercare modelli ed argomenti.

Ad altri prestano suggetti le vaporose immaginazioni orientali, come un mezzo secolo fa quelle settentrionali, e la reggia di Odino e di Freja; e tante sono le divisioni e suddivisioni di chi professa l’arte, e più di che ne discorre e ne scrive, che a parlarne distesamente ci vorrebbe assai pazienza, ed assai più ad ascoltarle.

E l’arte intanto dove sta ella?

Domenico Cimarosa fu potente ingegno, che sentì l’arte e la metteva in atto. Sebbene quella applicazione dell’arte professasse che è la più labile nella durata delle sue opere (perché più suggetta alla moda), la musica, vive tuttora il suo nome e vivono alcune delle sue fatture.

Richiesto un giorno del perché i suoi discepoli facessero poco profitto delle lezioni e del suo esempio, e nessuno promettesse di venir grande nell’arte, rispose nel suo efficace vulgare napoletano: mancano di questo qua; e colla mano accennava al cuore.

Dicano a posta loro i trattatisti, l’arte, privilegio da Dio dato a pochi, l’arte sta nel cuore dell’artista. Se scalda il cuore, la fiamma passa ad illuminare l’intelletto, ad afforzare il braccio. L’artista vero studia fino a che la mano sia sperta, erudita la mente, e poi fa.

E fa di per sè solo, ed irrequieto ricusa servire come schiavo a qualsivoglia teorica, sapendo che le teoriche non precedono, ma seguono l’arte; e che assai pochi di coloro che dettano teoriche sanno poi metterle in pratica.

Non ignora però le teoriche, e delle dottrine buone [p. 45 modifica]fa senno; ma non si lascia allucinare dalle metafisiche strane e diverse; ha per guida la ragione che gli insegna doversi proporzionare i mezzi allo scopo, le forme al suggetto; segue l’impulso del cuore, e non ricopia alcuno, ricordevole di quello che scrisse il Da Vinci, che aveva diritto di scrivere se sapeva tanto operare: «Dico alli pittori che mai nessuno dee imitare la maniera di un altro, perché sarà detto nipote e non figlio della natura; perché essendo le cose naturali in tanta larga abbondanza, piuttosto si dee ricorrere ad essa natura; che ai maestri i quali da quella hanno imparato.» Gli si oppongono talvolta preoccupazioni, ignoranza in toga da dottore, e più spesso malignità e invidia. Non cede, scoraggiato, non imbestialisce iracondo; delle oneste, e sien pure schiette critiche non s’adira, ché lo ammaestrano; alle censure mordaci ed ingiuste risponde con le opere, migliori; e così procaccia il bene vero, il diletto vario dell’umana famiglia. Egli non isgarra il cammino, e lascia di sé ai posteri memoria difficilmente peritura.

Fra i pittori dell’età nostra che possedono il questo qua che disse il Cimarosa, è indubbiamente da noverarsi Natale Schiavoni. Il suo nome ed i suoi meriti sono conosciuti per tutta Europa, e le sue opere sono cercate e compensate nobilmente. Dopo severi studii, egli lasciò ogni altra strada e creò un genere suo proprio di pittura. E di vero, la fusione dei colori e la lucentezza e trasparenza, un fare delicato, soave ed in uno disinvolto e naturale, una grazia nei contorni e la incarnazione de’ suoi lieti e gentili pensieri, de’ suoi affettuosi sentimenti, si trovano nelle sue opere, per cui non si confonderanno mai con quelle d’altri maestri. [p. 46 modifica]

Nella pubblica mostra che si fece nell’Accademia di Belle Arti di Venezia in questo anno 1844, Natale Schiavoni mostrò il suo valore nelle parti diverse che formano l’arte. La bellezza naturale, era in tutta la sua pompa nella donna, che nel volto accennava giovinezza matura, adulta estate, la quale ha in mano un fiore.

Bellezza più grave si mostrava nella Sibilla, bellezza congiunta a solenne ispirazione di chi profeta il futuro.

Gran maestria nell’impasto delle carni si lodava nell’Adamo ed Eva, e gentilezza di espressione e vaghezza del colorare.

Ma il questo qua del Cimarosa si conobbe ancor più in un altro quadro. Rappresenta una cara, e vispa, e amorosa e gentile fanciulletta in sullo sbocciare della vita, che scherza tra i fiori, fiore più bello di tutti. Quadro così armonico che mette tale una soavità nell’animo, da disgradarne quella che desta l’inno dell’ussignuolo, quando saluta l’alba in primavera; quadro che ottenne il più bello dei suffragi, quello che viene dall’intimo animo. Le donne s’affoltavano ad ammirarlo, e nel volto e negli atti loro traspariva commossa quella fibra del cuore di donna che è la più delicata e potente, la più solenne e più santa, l’amore materno. «Oh benedetta!» udii sclamare le donne del popolo. Ed una gentile signora che aveva perduto una sua figliuoletta, caro angioletto; io la vidi piangere dirottamente, in vedendo questa dallo Schiavoni così dipinta da parere persona viva.

Il Serenissimo Arciduca Vicerè di questo Regno allogava allo Schiavoni l’ancona che rappresenta nostra Donna che in beata estasi contempla il Divino Lattante.

Se per arte Cristiana s’intende secchezza di contorni, [p. 47 modifica]aridità di pieghe, figure che pajono di legno, certo che la Madonna dello Schiavoni non è fornita di queste doti.

Ma se per arte cristiana s’intende castità di pensiero e di forme, pietà e dolcezza di sentimento e d’espressione; e nelle immagini dell’Ancella del Signore, purità di vergine e affetto di madre, devozione di creatura innanzi al Creatore, mestizia che viene da un futuro che sventuratamente si prevede, fede e certezza di Colui che deve portare il peso delli peccati umani, francherà il pensiero, santificherà gli affetti degli uomini; se ciò tutto s’intende, allora non sarà per certo chi sia schivo di piegare il ginocchio, e orare innanzi a questa effigie della Madre del Signore.

Chi raccolse queste gemme dell’Arte Italiana a’ dì nostri, volle accrescerla con un’opera di Natale Schiavoni.

Tutti lo salutano come il pittore della gentilezza e della letizia. Qui si volle mostrare che egli è anche pittore robusto di storia quando lo voglia. Per questo fu scelto il quadro che rappresenta un episodio della strage degli innocenti. È suggetto storico; suggetto che desta nell’animo affetti diversi e potenti: la reverenza per l’amore di una madre che non paventa e non s’arretra innanzi al pericolo che minaccia la sua creatura, e v’oppone tutte le sue forze; la pietà pel poveretto bimbo, vittima innocente per cui suonò dolente una voce in Roma, e s’udirono molti pianti e ululati molti.

Era Rachele che piangeva i suoi figli e non volle consolarsi perché non sono più. E desta disprezzo pel manigoldo presente che senza ira compie l’altrui delitto, perché l’interesse e l’abituatezze di servitù gli hanno attutato nell’animo ogni senso generoso. E desta ira quel tiranno che non si vede, ma [p. 48 modifica]che si sente, il quale sospettoso e tremante ordinò la strage di tutti i pargoli di Betlemme, da due anni all’ingiù, per involgervi il Promesso dall’Eterno, il quale doveva salvare e regnare sul genere umano.

O giovani Artisti sentite, voi la vostra dignità? Sapete voi a qual sacerdozio vi chiami la Provvidenza?

Dopo diciannove secoli il delitto del tiranno di Galilea non è punito abbastanza. L’arte viene a farlo maledire ancora. E questa è potenza dell’arte, la quale non segue alcuna delle parti che pugnano in suo nome, ma vive e trionfa in chi la sente intera, come è Natale Schiavoni.

Al quale artista valoroso, uomo onesto, ottimo padre è concesso tale privilegio che pochi ebbero. Il suo merito è conosciuto e riverito da tutti, e dovunque le sue virtù amate e rispettate. E vede, in età fresca ancora intera, conservarsi l’eredità del nome onorato e delle sue nobilissime fatture per opera de’ suoi figli; ed anche cresce nuove speranze all’arte nei figli dei figli suoi. Invidiabile privilegio! E tanto più invidiabile, ché coronato da mutuo e dolcissimo affetto.

Agostino Sagredo