Giro del mondo del dottor d. Gio. Francesco Gemelli Careri/Libro III/V

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Libro III - Cap. V

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CAPITOLO QUINTO.

Cammino sino a Kars con pericolo di ladri.


A
Simiglianza del popolo d’Israele perseguitato da Faraone, passata la mezza notte del Martedì 18. ponemmo il piè fuggitivo fuori della Città io, il Padre Dalmazio, e’l Padre Martino Gesuiti Francesi; e’l Padre Fra Domenico da Bologna Domenicano. Era presso allo spuntar dell’Alba, quando sei miglia lontano dalla Città, ne uscirono all’incontro da una tenda le Guardie della Dogana; ma mostrata loro la licenza del Doganiere, ed un Rup (ch’è un quarto di ducato Napoletano) di regalo, ne lasciarono andare; con tutto che il mio mulattiere Giorgiano venuto a contesa con un’Armeno delle guardie, gli avesse dato molti pugni. Indi a tre miglia spaventato il mio cavallo mi scosse di sella, e cadendo mi si ruppe il teniere dello schioppo, che malamente posi in istato di servirmi per lo cammino.

Il Paese, per cui viaggiammo tutto quel giorno, era piano, e simile di molto alla Puglia piana del Regno di Napoli. [p. 439 modifica]Attualmente seminavano il grano, senza che vi fusse prima passato l’aratro. Verso la sera, passato un grosso fiume, andammo a prender riposo nel Casale di Axa, patria del nostro Catergì, in casa di cui albergammo; avendo fatto in 8. ore 20. miglia, fuori del cammino ordinario della Caravana; che palla sempre per lo picciolo, ma bel Castello di Hassan-kale, posto sopra un colle (e distante quattro miglia dal suddetto Casale) dove si paga un Rup, o quarto di ducato per cavallo. Stemmo bene in casa del mulattiere, ed avemmo un’ottima cena, perche il luogo è abbondante nelle cose appartenenti al vitto; avendosi per cinque tornesi de’ nostri quattro piccioni.

Il Mercordì 19. un Giannizzero, traversando la strada, ne uscì innanzi per farci tornare indietro nel Forte; a pagare un certo dritto; e a gran pena potemmo ottenere di pagarlo a lui, senza prender la fatica di tornare al Forte. Dodici miglia più avanti avemmo un’incontro peggiore, a cagion de’ mulattieri, che vollero seguitare il cammino per istrada non praticata dalle Caravane. Le guardie della Dogana di Taliscì, e del ponte [p. 440 modifica]detto di Scio-ban-nuprì, vedendo che non facevamo la strada del ponte, ne raggiunsero, e ne comandarono che andassimo con esso loro sino al Casale. Volendo liberarci da tal molestia con danajo, ne dimandarono cinque piastre; ma vedendosi sgridate per l’impertinente dimanda, si posero a fuggire per tema dì bastonate. Noi all’incontro temendo di qualche cosa di peggio, stimammo più savio consiglio sopragiungerle, e colle buone accomodarci per due piastre.

Per la fertilità del terreno il vitto vale ivi poco più che niente; tanto più che gli abitanti si sostentano di latte acido, di focaccie in vece di pane, e di acqua. Fatte 28. m. in dieci ore, giugnemmo nel Casale di Korason, patria d’un’altro nostro Catergì, a sinistra del fiume Arasse, che dalle radici della montagna dì Mingol và a gittarsi nel Mar Caspio. Le case di questo Villaggio sono sotterranee, a guisa di quelle di Balaxor.

Il Giovedì 20. festa dell’Ascensione del Signore, restammo nell’istesso Casale, per compiacere al Catergì. Venne a ritrovarmi in casa una persona deputata dal Doganiere, per riconoscere i forzieri, e’l Tascarè della dogana d’Arzerum. [p. 441 modifica]Non prese egli cosa alcuna; ma un Nazar, che venne seco, vedendoci senza licenza di passare, tornò la sera, e volle per via d’accordo una piastra: ciò che non fu approvato dal Doganiere. Egli si è certo, che i poveri Franchi, in ogni luogo e tempo sono molestati dall’ingordigia Turchesca, ma in alcune parti si contentano di poco. Le femmine di questo Casale cuoprono il viso, quasi all’Egiziana, con certe picciole piastre di argento, quanto un carlino Napoletano, che col moto della testa, fanno anch’elleno un grazioso movimento, e per ambi i lati della veste portano due ordini di grossi bottoni, con altre laminette di argento.

Il Venerdì 21. dopo 8. miglia di cammino sempre montuoso, facemmo alto sulla riva d’un fiume, dove vollero bagnarsi i nostri Catergì, per essere abbondevole d’acque minerali. Continuando poi il viaggio, ci abbattemmo in tre Giannizzeri, i quali, fingendosi persone del Caraggiere, voleano che pagassimo loro il tributo. Negando noi di pagarlo a cagion de’ nostri Firman, voleano farci tornare Indietro; onde fu di mestiere, avvegnache fussimo superiori di forze, [p. 442 modifica]dar loro una piastra per tornergli dinanzi. Per tutte queste campagne si vedeano bellissimi tulipani selvaggi, che sarebbono molto stimati in Europa.

Restammo in fin la sera in Misinghirt, Casale posto in una Valle appiè d’una rocca, sulla quale è un’antico, e quasi dirupato Castello. Quivi benche fussero molti Cristiani, alloggiammo nientedimeno in campagna. I naturali per truffarci anch’eglino qualche cosa, ne diedero ad intendere, che pochi giorni prima i ladri della montagna aveano rubato alcuni viandanti; perloche intimoriti i Padri, ed un tal Coggìa Abram nativo d’Erivan, vollero prendere in ogni conto quattro uomini per iscorta, e difesa. Io ben conoscea, che coloro erano spie, e peggiori de’ ladri stessi, e che stavano mal forniti d’arme; ad ogni modo acciò non credessero, che io ricusava per avarizia, mi contentai di pagar la mia parte di cinque Rup, che loro si diedero; cioè un ducato e mezzo di Napoli.

Per gir più cauti, camminammo di notte, per boschi di pini, e precipitevoli montagne nidi di ladri; de’ quali due, che ne incontrammo non ebbero ardire di assalirci. Perdei io la bacchetta dello [p. 443 modifica]schioppo nello stesso cadere che feci, per voler fare parte della strada a piedi, e star pronto ad ogni sinistro accidente.

Sul far del giorno il Sabato 22. trovammo i nostri bravi tali, quali io gli avea preveduti; imperocchè due di loro aveano lo schioppo a miccio senza coperta, e senza corda nelle mani; un’altro non avea palle, nè polvere; e’l quarto avea solamente una lunga asta, alla quale non bisognava altro per ferire, che un valente braccio. Costoro più ladri de’ maggiori ladri del Mondo, veduto che era giorno, prima di trarne fuori del bosco, dimandarono d’esser pagati. Negando il P. Dalmazio di ciò fare, perche non eravamo ancora fuor di periglio, un di essi si pose in atto di passargli il petto colla lancia; onde io lo consigliai a pagare, per non riceverne danno nella persona. Ricevuto ch’ebbero il danajo, ne rimasero soli, con due miglia di bosco a fare, ponendo in non cale il lor dovere. Appena avevamo fatti pochi passi per uscire dal bosco, che ci si fecero innanzi dodici persone, parte a piedi, parte a cavallo; alla cui vista avvicinatoli il mio Catergì, mi disse: Crusì o ladri, e mi chiese una pistola; ma io non volli [p. 444 modifica]dargliela. Questo accidente sbigottì molto la nostra comitiva, ma più il Coggìa, il quale, avvegnache io dalla sera antecedente gli avessi accomodato lo schioppo, per esserne difeso in caso di bisogno; nientedimeno amò meglio riporre la sua salvezza nella velocità del cavallo, senza curar dell’ignominia del fuggire, che facendola da bravo, porre in qualche ripentaglio la vita.

Restato io, e gli atterriti Padri a far argine all’impeto de’ ladri, posi piede a terra, avendo meco lo schioppo, e pistole pronte; e lasciati essi a cavallo con cattive pistole, e sprovveduti di polvere, m’appostai a sinistra dietro alcuni sassi; aspettando così al coverto quel che farebbono i masnadieri. Ma questi, ch’erano male in arme, ed alcuni di essi con bastoni, benché in numero di dodici, non vollero cimentarsi; e torcendo il camino si posero sulla montagna, restando a noi libero il passo. Commendarono molto i Turchi il mio portamento, e molto più i Padri, i quali da allora in poi mi chiamarono, per ischerzo, Caroan-Bascì, o capo della picciola Caravana. Era io talmente sdegnato col fuggitivo Coggìa, che in pena della sua [p. 445 modifica]codardia, volea lasciar le sue some esposte al piacere de’ ladri; ma poi a richiesta de’ Gesuiti le lasciai venire.

Passato il bosco facemmo riposare i cavalli in un piano, nelle cui vicinanze erano buoni pascoli, e un Casale di Kurdi. Indi a tre ore ci avviammo di buon passo, ed andammo a pernottare nel Casale di Cotanlò; avendo fatte 36. miglia in dieci ore di cammino tutta quella giornata. Il luogo era abitato da Armeni, i quali non lasciarono d’inquietarci co’ loro infermi, per aver qualche medicamento da’ Gesuiti, che ne portano di varie sorti: ciò che ne succedea da per tutto, ove passavamo. Dalle montagne in poi (che aveano importato la metà della strada) tutto il paese era d’ottimo terreno, però incolto per difetto di agricoltori.