I Marmi/Parte terza/Ragionamenti de' cibi fatti a tavola da due academici Peregrini/L'Ardito e il Quieto e un servitore

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L'Ardito e il Quieto e un servitore

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L'Ardito e il Quieto e un servitore
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L’Ardito e il Quieto e un servitore.

Ardito. L’arte della milizia è tutta, o in una gran parte, contraria alla sanitá: e la vostra, che è della quiete, del riposo, non è molto buona; voi sete tutto peccia e parete pregno. Però, se noi non temperiamo le cose che ci danno disturbo con quelle che ci giovano, penso che noi faremo pochi carnesciali insieme.

Quieto. Io dormo bene, mangio, come avete veduto, meglio; il poco esercizio m’è sano e la poca fatica sanissima. Che cosa è sanitá, se non un non sentir male?

Ardito. Inanzi che io attendesse all’armi, studiai non so che tempo farmi medico e andai in pratica, feci mille recipe, ma, stufato di quella arte, mi diedi a questa: però, s’io dirò qualche cosa fuor dell’arme, non è gran fatto. La sanitá adunque, il mio signor Quieto, non è altro che temperamento e complessione pari e unita in noi altri, donde procedono tutte le nostre operazioni debitamente.

Quieto. Che cosa fia adunque la infirmitá? Una confusione distemperata, senza ordine o misura, che fa tutte le cose nostre andare in precipizio.

Ardito. Non sapete voi che il troppo esercizio vi fa affanno, male, e disturbavi tutto? Il dormire assai vi fa mezzo insensato, [p. 44 modifica] l’empiervi troppo vi fa nausa, il votarvi debilita e dolore: ecco le radici dell’infirmitá dove le si fondano.

Quieto. Io che mangio bene, come posso amalarmi?

Ardito. Io vi dirò: bisogna fare al nostro ragionamento, e a ciò che voi m’intendiate meglio, un poco di peduccio, e entrare in termine. Dico adunque che tutto quello ch’entra nella nostra bocca, per via di liquido o di sodo, o egli è puro cibo e nutrimento o puro veleno, pura medicina, cibo medicinale o velenosa medicina.

Quieto. La mia memoria non è capace di tanti termini; ditemi a cosa per cosa: che chiamate voi nutrimento o cibo che nutrisca?

Ardito. Il mangiare e bere, ch’è puro nutrimento, è convertito dalla nostra digestione in pro del corpo, e non guasta il corpo, anzi si convertisce in sustanzia per utile e conservazione di quello; ma non vuol esser tanto cibo che superi la forza della natura che digerisce, perché, chi ne pigliasse molto e superchio, farebbe male.

Quieto. A me pare d’avere un certo ordine che non mi alteri; e la mia complessione (che so io come la si sia?) o calda e umida o secca o riarsa..., basta, io mi sento bene e mangio bene, e non voglio entrare in piú regole di vivere né di affaticarmi, mentre che questa mi giova.

Ardito. Voi favellate troppo bene; cosí fate: non accade che io dica altro.

Quieto. Anzi n’avrò piacere, per sapere ragionarne a un bisogno ancóra io. Di coloro che troppo mangiano che ne dite?

Ardito. Generano i troppi cibi su lo stomaco superfluitá, perché non si possono smaltire, onde si corrompono; e alle volte la gran caldezza ha vinto il caldo naturale e s’è trovato alcuni morir subitamente, per troppo mangiare e troppo bere. E come ho detto, si corrompono i cibi spesso, perché la natura non gli può regolare, e quella corruzione offende quel calor nostro temperato e distempera la complessione.

Quieto. Non voglio sapere altro per ora di quel resto che avete detto di medicine; ma mi basta sapere che ogni cibo che [p. 45 modifica] sia troppo in quantitá o qualitá o sia di troppa sustanza, fa danno a’ nostri corpi; anzi, a volere che noi siamo sani, che sia temperato. L’inverno, signor mio, o che sien le cose o che le non sieno, io mangio meglio assai e smaltisco benissimo.

Ardito. Il caldo naturale n’è cagione, il qual fugge le parti di fuori del corpo e si ritira a quelle di dentro e si unisce con piú forza, e quella virtú, piú potente e insieme, fa smaltire meglio, e però l’inverno si patiscono cibi piú grossi e piú viscosí che la state.

Quieto. Le cose dolci non mi fanno troppo utile.

Ardito. Le dolci son dilettevoli alla natura e la carne le piglia piú tosto che non è il dovere; onde i membri si tiran dietro a quella dolcezza gli altri cibi che non sono smaltiti e vengono a esser viscosí, grossi e mal cotti; tal che gli upilano le vene, per la quale strada il nutrimento se ne va ai membri.

Quieto. Come io v’ho detto, la mia complessione non l’intenderebbe Vaquatú, e pur sento quando una cosa m’è cattiva allo stomaco: le dolci mi nuocono, e voi avete detto buona ragione; le carni grasse ancóra non mi vanno, anzi mi fanno fastidio; credo che sia perché ho del grasso assai, e pur troppo, adosso.

Arduo. Messer no; tutte le cose che sono untuose vanno a galla e vengano su la bocca dello stomaco e, cosí, stuccano e saziano l’apetito, perché l’apetito è nella bocca dello stomaco e la digestione nel fondo, e per questo non vi fanno piacere alcuno; le fanno poi, come le sono a nuoto di sopra, gravezza di testa, per i fummi cattivi che svaporano, e vi fanno piú pigro che voi non siate.

Quieto. L’è vera, verissima. Ma ditemi: un medico mio amico fa che io faccio fare il pane con alquanta farina di spelda dentro, e non mi ha voluto mai dire per che cagione.

Ardito. Anzi ve la doveva dire, perché è ottima: la natura della spelda, a ciò che voi sappiate, è tra il caldo e il freddo temperata e rasciuga con una sua virtú e disecca tutti i cattivi umori. Nell’idropico la risolve l’acqua e nel grasso, come sète [p. 46 modifica] voi, consuma la grassezza; e se non fosse stato quella, forse forse che voi saresti grasso e grosso altretanto.

Servitore. Messer Quieto, che istoria è quella di quel Giove di marmo lá su alto? che serpente velenoso è quello che gli è inanzi?

Quieto. Non mi stare ad interrompere il ragionamento: guarda, questa bestia che l’ha veduta cento volte né mai ha detto nulla, ora che si dice qualche bella cosa, tu vieni a rompermi la testa! Lievatimi d’inanzi.

Ardito. Anzi ha fatto bene a framettere qualche atto: io che l’ho rimirata sei volte quella scoltura e non l’intendendo, ve ne voleva dimandare. Ditemi, di grazia, quel che la significa.

La favola del serpente.

Quieto. Lo scultore, che me la diede, fu un certo fiorentino de’ Mini, giovane galante e gentile; e dice che la fu una finzione d’una favola che trovò l’Unico Aretino quando era araldo della signoria di Firenze. E l’invenzione è sií fatta: voi vedete un Giove, lá, in maestá, che riceve da tutti gli animali qualche presente; per quello che egli fosse presentato, ora l’udirete. Dopo il diluvio, pare a me che Giove gli venisse voglia, formati e moltiplicati che furono gli uomini un’altra volta, di fare un solenne convito e vedere in viso ciascuna nuova creatura; e lo fece; poi, per onorarlo e farlo piú sontuoso, pomposo e superbo, che egli ordinò che tutti gli animali dovessero portargli qualche presente, fusse che cosa si volesse. Cosí mandò Momo in terra e comandò agli uomini, uno per sorte, che andassero a questa cena o desinare che si fosse, e alle bestie che portassino un presente per una. Deh, udite che bella novella, se l’è come mi raccontò quel fiorentino. Giove ricompensava, come cortese signore, tutti i doni con altretanto dono, forse piú e manco secondo che gli pareva. Dice che l’Elefante gli portò un castello che gli era stato posto adosso dagli uomini per combattere; onde egli súbito lo portò in cielo a Giove (qui è dove Luciano si fondò a far castelli in aria, perché s’abatté a veder questo [p. 47 modifica] lionfante fra le nugole con questo castello), e Giove allora gli dette l’intender sopra tutte le bestie, perché gli fece sí gran presente. Il Bufolo, tirando non so che carro, si fuggi di terra e lo tirò in cielo a Giove, che fu poi da quella frasca di Fetonte aggirato con quei cavalli; ma perché era carro da bufoli, però n’ebbe poco onore di quella sua impresa: Giove ricompensò il Bufolo in questo, che le sue corna fussero d’un mirabil osso e bello. Il Bue non portò nulla, perché Giove si fece in forma sua; onde non era lecito che facessi altro che farsi vedere da Giove, ed egli lo convertí in un segno del cielo. Il Cerbio gli menò molti cerbiatti per far pasticci e gne ne donò; e tanti quanti bestioli vi condusse tanti rami di corni gli diede Giove, con dirgli: — Tu sarai il piú bel cornuto che sia al mondo. — L’Asino vi condusse una soma di vino; ma pare a me che per la via egli ne beessi un certo che, onde i barili andaron sempre diguazzando, e, quando e’ fu lá su alto, egli sapeva di stantio bene bene e tutto rotto e mezzo intorbidato, talmente che fu datogli per gastigo che portasse il vino e beesse l’acqua, per insegnarli a metter bocca ne’ presenti che vanno a’ gran maestri. Il Castrone gli portò lana, la Pecora latte, la Vacca vitelli, il Becco capretti, il Cavallo cacio; insino agli Scoiattoli gli portaron delle nocciuole. Alla fine alla fine il Serpente, che era tutto veleno, andò pensando di portargli qualche cosa; ma non aveva se non fumo, fuoco, veleno e superbia: pure, bisognando portare, se n’andò in un giardino e colse una fresca e bella rosa incarnata e se ne volò dinanzi a Giove; cosí se gli presentò e alzò da lontano la testa, portando in bocca quella rosa, e mostrava grande allegrezza. Giove, quando lo vidde lontano, gli fece cenno che aspettasse, e, congregati tutti gli dei, disse: — Voi vedete che questo pestifero animale, essendo stato sempre nelle grotte, nelle caverne e ne’ boschi, ha voluto comparire anche egli per onorare il convito, con una bella rosa in bocca. — Momo, che aveva la lingua lunga, parlò súbito e fu il primo e disse: — Egli è venuto prosontuosamente cotesta bestiaccia, ché io non gli ho comandato che venga né lui né alcuno altro velenoso bestione; e non te ne fidare, perché, con quella bella [p. 48 modifica] vista d’una rosa, egli ti avelenerebbe tutto il convito. — Allora Giove, considerato il pericolo, andò e lo fece scorticare e la pelle la messe e distese lá su alto, dove gli astrologi poi v’hanno apiccato non so che stelle, e lo gettò in terra e fulminò: cosí la bestia porta sempre il fuoco in bocca, e quella rosa, quando gli uscí di bocca, fu convertita in spine dal fiore in fuori, e tutte le gambe delle rose sono state fatte spinose, acciò che le serpi non ne possin piú cogliere e, con quella coperta di bella vista, darle poi avelenate alle persone; il Serpente fu poi condannato a mangiar terra e a scorticarsi ogni anno per ricordo del volere avere voluto portare il veleno in cielo, al convito di Giove, fatto dopo il diluvio.

Servitore. Sapeva bene che la significava qualcosa, però n’ho dimandato.

Ardito. La debbe aver qualche coperta di qualche significazione.

Servitore. Io, che son famiglio e non ho lettere, gne ne ho fatto una.

Ardito. Dilla, per tuo fede.

Quieto. Dilla, ché io son contento, per vedere se la cucina sapesse anch’ella nulla di scrittoio.

Servitore. Credo, secondo la mia fantasia, che voglia significare che spesso spesso i servitori con le buone parole e con i cattivi fatti ingannano il padrone, per la prima.

Quieto. E per la seconda?

Servitore. Che bisogna guardarsi da coloro che naturalmente son tristi e ghiottoni, e, se bene, sotto spezie di qualche cosa buona, e’ vengano da te con roselline, che per conto alcuno non si debba creder loro: quest’è la seconda.

Ardito. Sarebbeci la terza per sorte?

Servitore. E la quarta, se bisognerá.

Quieto. Séguita.

Servitore. Che sarebbe il meglio lasciar talvolta l’amicizia d’un maligno uomo con tuo danno che tenerla con qualche utile, perché, sotto quel poco d’utile, tu cápiti spesso male. La quarta fatevela dire a lui. [p. 49 modifica]

Ardito. Favellano forse i marmi?

Servitore. Ogni cosa favella: il cerchio dell’osteria dice: — Qua si alloggia e si bee e mangia — ; i nugoli favellano e dicon: — Guardati che io t’immollerò, se tu non vai al coperto — ; il fuoco dice anch’egli: — Non mi toccare — ; e, brevemente, ogni cosa favella, pur che noi intendiamo il linguaggio: sí che non sarebbe gran fatto che favellasse ancóra quel marmo. Udite che favella; vedete s’io v’ho detto il vero?

Giove di marmo parla.

Il serpente sí fu da me fatto e gli diedi gran forza, gran potere, ed egli contro all’uomo, per propria malignitá, che è mio simile ed è come me medesimo, ha sempre cercato d’operare; ma l’uomo s’è difeso il meglio che ha potuto, pur non ha saputo sí bene schermire che non abbi ricevuto danno da lui. Adesso veniva al mio convito per far del resto; ma io, accortomene, l’ho gastigato; e si può dire, cosí per allegoria: che mai alcuno si fidi d’uomo che viva, per dire: — Io gli ho fatto del bene e giovatogli, onoratolo e fattogli utile — perché artifiziosaniente egli ha preso di questo serpente veleno e con le buone parole t’inganna e con il mèle ti porge assenzio e con le rose spine: e questo fu il fine dello scultore.

Ardito. Io come stupefatto mi leverò da tavola e non dirò altro, perché son fuor del mio ardire.

Quieto. Andiancene nel nostro giardino domattina a desinare; poi di questo caso raro e del restante del nostro ragionamento ragionaremo a bell’agio.

Servitore. Io in questo mezzo potrò dire d’essere stato cagione di far favellare una figura di marmo.