I Mille/Capitolo XXXIX

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Capitolo XXXIX. L'Amore

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CAPITOLO XXXIX.

L’AMORE.

Che amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candidissimo adornando
Depose in grembo a Venere celeste.
 (Foscolo).


Sacerdotessa dell’amore! Immagine squisita dell’Infinito1 — se l’Infinito potesse avere un’immagine! Capo d’opera dell’umana famiglia ed educatrice che ingentilisce questa rozza creta! — e che sarebbe senza di te il mondo, o donna? il mondo sconoscente a tanta grandezza dell’essere tuo? E tu! sciagurata nella tua bellezza, o dominatrice? Ingrata alla prodiga di te innamorata natura — ti prostri ai piedi d’un rettile ed a lui sacrifichi patria, marito, figlio, e sovente diventi una prostituta negli amplessi avvelenati del tentatore! Tale, — o donna, — del prete!

E tale fu la contessa Virginia N... precipitata [p. 199 modifica] nella via di perdizione dal gesuita Corvo. — Bella, spiritosa, piena di nobili sensi; da giovinetta essa era una delle più splendide e preziose fra le bellissime figlie di Roma, e perciò condannata nella corruttissima metropoli alle brame disoneste dei porporati.

Da quel giorno la venustà della contessa appassiva come il fiore sullo stelo al soffio malefico dello scirocco.

Era ancor bella nei tempi da noi descritti, e felice il mortale che n’era beato d’un sorriso, ma le sue guance eran pallide, le una volta folgoranti sue luci eran languide, ed ogni atto della vezzosa persona, portava l’impronta del tedio, e segnava le tempeste della travagliata anima sua.

Amore! quell’amore celeste che innalza la creatura al disopra delle sozzure umane, che la spinge all’eroismo, che la santifica! essa lo presentiva, ma il serpe che l’avea tentata, sedotta, trascinata nel fango, l’avea bensì ingolfata nella lussuria di godimento brutale, ma il chercuto non era stato capace d’infondere la celeste scintilla. E come l’avrebbe potuto un prete? Un prete, la di cui esistenza s’inizia colla menzogna, segue con essa irrevocabilmente e col delitto, e termina finalmente col sacrilegio!

Povera giovine! inaridita nell’alba della sua vita ogni fonte della poesia, dell’ideale umano, l’essere avea perduto ogni dolcezza per lei, e le diventava ognor più insopportabile! Di natura [p. 200 modifica] forte, capace di generosi propositi, ad essa veniva sovente la smania di togliersi la vita.

Essa avea creduto di amare il Corvo da principio, quando ingannata, era stata involta nell’atroce setta, ove le furon strappati terribili giuramenti. — Ma progredendo nella vita, potendo per sè stessa apprezzare tutte le nefandezze loiolesche, e l’indole profondamente scellerata del suo seduttore, sparivano le illusioni usate per ammaliarla, e l’ardore con cui avea servito la nera falange, cambiossi a poco a poco in odio mortale.

Un giorno degli ultimi d’agosto del 60 l’atmosfera insalubre di Roma s’era impregnata di sì letale umore da farti cercare un ricovero e fuggire da quella pestilenza. — Gli affaccendati correvan per le strade scappellati, fiatando davanti a loro come in cerca d’aria più pura, e correvan sollecitando i proprii affari per presto giungere in casa e ripararsi dall’afa micidiale. Degli sfaccendati non ne scorgevi, essi eran nascosti nel più recondito dei loro palazzi, ordinando l’ermetica chiusura delle imposte e assaporando sorbetti ghiacciati, che ogni altro appetito era scomparso.

Eran le 4 pomeridiane, e dall’Apennino si scorgeva innalzarsi quel tetro, plumbeo, intenso nembo, precursore infallibile della tempesta. — E per minacciosa e terribile che fosse questa, essa era inferiore alla densa tempesta che travagliava l’anima della contessa. — Tutti avean chiuse le imposte, ed essa aprì quelle della sua stanza da letto, guardando a levante, cioè verso il nembo. [p. 201 modifica]

Tutti fuggivano dall’imminente temporale che si faceva minacciosissimo, e dall’afa. A lei le strade deserte, i lampi che già cominciavano a solcare il firmamento, i tuoni che già rimbombavano, e lo stato orribile del suo cuore, mossero la voglia di uscire al passeggio.

Da molto tempo sdegnando le femminili eleganze, essa raccolse in una reticella una bellissima chioma, si avvolse in un ampio sciallo, e accompagnata da una sola fantesca, s’incamminò quasi fuggendo la foga dei pensieri che la torturavano.

Il palazzo della contessa Virginia N... era occupato da essa e dalla madre attempata e bachettona, con numerosa servitù, giacchè la nostra eroina non solo apparteneva a cospicua famiglia, ma ricchissima, uno dei motivi principali delle sollecitudini degli avoltoi del sanfedismo. — Codesto superbo edifizio, come lo sono generalmente i palazzi del patriziato romano, ergevasi sontuoso sulla piazza S. Grisogono in Trastevere (non so ove diavolo i chercuti abbiano dissotterrato questo santo: sarà senza dubbio qualche parente di quel Griso che arrestò D. Abbondio).

La contessa uscì dal portone marmoreo della sua abitazione, ed avviossi celere per la Longaretta verso il Tevere a Ponte Rotto. — A quel ponte, metà in ferro, trovansi generalmente dei navicelletti; essa accennò ad un barcaiuolo conosciuto, ed avvicinata la barca alla sponda vi di[p. 202 modifica]scese dentro frettolosamente indicando all’uomo coll’indice «in giù».

La fantesca, amante della sua signora, non l’aveva veduta sì agitata giammai; — e quando il nocchiero disse alla padrona «Guardi, signora, che noi presto avremo una tempesta», la ragazza in atto supplichevole la guardò, senza ardire di articolar una parola, con tanta eloquenza negli occhi da impietosire uno scarafaggio.

La contessa però, come abbiam veduto, era buona e generosa, ma altiera ed ostinata nelle sue risoluzioni, quasi avesse ereditato il carattere delle antiche matrone di Roma; — essa non manifestò dispetto impaziente, ma il suo silenzio equivaleva a un comando.

Il motivo della passeggiata era per distrarsi, per fuggire ai rimorsi della solitudine — e chi sa non balenasse nella mente della bella infelice il pensiero della distruzione!

Il nembo da levante s’era limitato a qualche grosso gocciolone di pioggia, e siccome a quella direzione il vento veniva a traverso del fiume, poca agitazione vi aveva suscitato; — comunque come negli uragani, il forte del temporale, dopo d’aver girato i tre quarti della bussola, erasi spaventosamente condensato a libeccio, e da quella parte scatenò una bufera..... una bufera da far impallidire il più coraggioso navigatore.

Colla direzione da libeccio, il vento incontravasi e contrastava colle onde veloci del Tevere, scorrendo in una direzione opposta, e coll’urtarsi [p. 203 modifica] innalzavano marosi tali da non cederla ai rabbiosi ruggiti e sconvolgimenti di Scilla e Cariddi.

Manlio, il nocchiero della Contessa, che tale si stimava, avendola servita in ogni circostanza e sin da bambina, aveala prevenuta della tempesta e del pericolo, ma siccome è solito negli uomini coraggiosi di ripugnare nel mostrar paura, così il valoroso nauta mordevasi le labbra, ma non ardiva più consigliare la distratta signora.

Si era giunti alle rovine dell’antico ponte Sublicio, pur non volendo pericolare la vita e quella della generosa protettrice, Manlio cercò di ripararsi dalla bufera nell’angolo formato da una pila del ponte e dalla sponda destra del Tevere. — Poveraccio! ei non calcolò che riparato dal soffio impetuoso dell’ostro, la corrente del fiume padroneggerebbe il leggero palischermo sì, da spingerlo con violenza fuori della pila, e quindi nell’urto rabbioso dell’onda tra i marosi ed il Tevere ambi accaniti ad infrangersi, piuttosto di cedere il passo. Appena la barchetta incontrossi in quel frangente, non fu più possibile a Manlio di governarla, e presentando essa il traverso alle onde fu in un momento sommersa.

Il nocchiero coraggioso come lo sono generalmente la gente di mare, lanciossi al soccorso della Contessa, ma Lisa, la fantesca, gli vietò il successo di tale generosa risoluzione, abbrancandosi in modo al corpo di Manlio da non poter esserne staccata da forza umana. Poverina! essa amava molto la buona padrona, e forse in altra circostanza [p. 204 modifica] avrebbe rischiato la propria vita per salvarla, ma qui il caso era troppo terribile e al disopra del coraggio e del sangue freddo della giovinetta avvolta in tali frangenti, e da far raccapricciare i marini più valorosi. Il fatto sta che Manlio e Lisa in un solo gruppo nuotarono nei gorghi del fiume, scomparendo e ricomparendo alla superficie in modo lamentevole e fatale.

Alla Contessa vi volle la catastrofe, la freschezza dell’onda ed il prospetto della morte, per distrarla dallo stato di disperato stupore e maledizione della vita in cui l’avevano immersa ministri del demonio.

Essa mai disse se si pentiva in quel momento d’aver abbandonato la casa materna, e cercato il pericolo e la morte; — e dall’abbandono, dalla rassegnazione con cui essa si avvolse nel suo sciallo, e si abbandonò all’orrendo suo fato, senza un grido od uno sforzo per salvarsi, si poteva congetturare, esser essa disposta a finire una sventurata esistenza.

Ma non era giunta l’ora finale della bella infelice. Mentre travolta nei gorghi, la sua salma ora abbandonata ai capricci dei flutti, ed il suo spirito forse già rivolgevasi a quell’Infinito che tutto racchiude, e che probabilmente tutto regge — quell’Infinito da sostituirsi ragionevolmente alle menzogne dei preti, il di cui culto può solo, propagato dalla scienza, illuminare ed affratellare tutte queste razze d’insetti che brulicano sulla superficie d’uno dei mondi minori — in [p. 205 modifica] quel mentre, dico, una mano d’acciaio la stringeva sul destro braccio e la sollevava come una bambina dall’onda, per riposarla sul marciapiede d’una scalinata di granito alla sponda destra del Tevere.

Nel forte della tempesta, quel sito era rimasto deserto, ma siccome i nembi estivi non sono durevoli, presto la calma successe al temporale, e la gente ricominciò a circolare anche nel luogo della catastrofe; per cui la bella naufraga fu presto trasportata al coperto.

La prima casa vicina accolse la vezzosa svenuta, ed alcuni cordiali la resero alla vita. — Un giovane di marziali fattezze stava ai suo capezzale, e per sorte, nella folla che circondava il suo letto, colui fu il primo su cui fissaronsi gli occhi della contessa quando tornò in sè. Aprir gli occhi, fissarli sul suo salvatore, scuotersi e tentar di spingersi verso di lui, fu tutto un momento. E chi avea detto alla sedotta dal gesuita che colui l’avea tratta dall’onda, da morte certa, col pericolo della propria vita? L’avea essa scorto mentre travolta nei frangenti? Impossibile! forse quella corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote degli umani, di cui ci narra Foscolo, avea penetrato, o trovavasi senza dubbio nell’anima della sventurata nobile romana? — Forse in quei sogni di felicità che cullano ogni creatura, essa avea sognato, veduto nel delirio della immaginazione esaltata, tale bellissima e fiera figura, e s’era fatto un idolo di colui che ora è realmente davanti ad essa? [p. 206 modifica]

Comunque, quando Muzio (perchè altro non era che il nostro prode romano) fu certo che la donna salvata era fuori di pericolo, e si mosse verso la porta della stanza per partire, la contessa lo seguì cogli occhi, e vi volle tutta la verecondia femminile perchè non chiamasse e non scongiurasse a stare presso a lei il suo salvatore. L’arrivo di Lisa, salvata anch’essa dal coraggioso Manlio, ed in uno stato consimile a quello della sua signora, contribuì pure a distrarre ognuno dalla scena descritta. Da quel momento l’esistenza della contessa fu completamente trasformata. La lacuna la più interessante della vita donnesca s’era riempita, le brutali libidini gesuitiche caddero davanti all’amore celeste suscitato in lei da un uomo. Sì, da un uomo, e non da un gesuita, da un sacerdote della menzogna! E dico suscitato, e non creato, perchè quel celeste, amoroso senso esiste nell’anima nostra, se coltivato, se spinto verso la sua natura gentile, ma viene deviato, prostituito, distrutto, quando la graziosa creatura cade sotto il soffio appestato del tentatore.

Il nuovo stato dell’anima sua contribuì non poco a ristabilirla. Essa smaniava di trovarlo, di vederlo, di saper chi era il suo liberatore; quella bella bronzata, maschia sua fisonomia che dovea certamente albergare l’anima d’un generoso, d’un eroe! tale come lo aveva veduto sognando.

Essa smaniava, delirava, temeva di non più incontrarlo, ed avrebbe voluto precipitarsi dal letto [p. 207 modifica] nella sua impazienza malgrado le ammonizioni di coloro che la custodivano.

Solo un sentimento di ribrezzo, più forte di ogni altro, che quasi superava il primo, la tratteneva, la disperava, le faceva nascondere il volto tra le coltri per non esser degno di luce. Essa!... era stata l’ancella d’un nemico del genere umano! E tali sembravano a lei oggi i settari del Sanfedismo!




Note

  1. Ricordi il lettore che per Infinito io intendo lo spazio, lo universo, Dio, ecc. - Accenno, ma non insegno.