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I rossi e i neri/Primo volume/XXIV

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XXIV

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Primo volume - XXIII Primo volume - XXV

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XXIV.

Nel quale si parla di molte stelle del cielo Ligustico

Quella sera il palazzo Vivaldi era magnificamente illuminato. I grandi finestroni sfolgoreggianti facevano impallidire le scarse fiammelle del gasse negli scarsi fanali della via Nuova, e gli sfaccendati, i musoni, stavano a contemplare quello spettacolo, senza sapere il perchè. I curiosi si stringevano intorno agli sfaccendati; e i viandanti, rattenuti da quell’ostacolo, intorno ai curiosi; di guisa che al vedere tutta quella calca di gente, si sarebbe potuto credere che fosse avvenuto in quel luogo un fatto grave, un alterco, una rissa, un’uccisione, uno insomma di que’ fatti che il giorno appresso dànno agli strilloni il diritto di assordare le genti.

- Che è? che non è? - Non sapete? - È la gran festa da ballo in casa Torre Vivaldi.

- Quella sì, è gente per la quale! Guardate che sfoggio di dorature! Come splendono, attraverso i vetri delle finestre!

- Hanno illuminato tutto il palazzo. Vedete? Anche dalle finestre che dànno sui vicoli c’è la medesima luce.

- Eh! le cose si fanno, o non si fanno. Ci saranno forse quattrocento invitati!

- Che quattrocento? Dite pur mille. Io conosco lo scritturale di casa, e so che le lettere d’invito salgono oltre al migliaio.

- Ve l’avrà data a bere, lo scritturale. O come volete che ci capiscano mille persone là entro?

- Che sfarzo da principi! Già, costoro vogliono andare a finir male con tanto lusso....

- Finir male! Siete pazzo? O non sapete che ci hanno dai dodici ai quattordici milioni, senza contare i quadri, e quei due leoni di marmo nella scala, che non hanno voluto vendere a un Inglese per cinquecento mila lire?

- Ah! ah? bella, la storia dell’Inglese!

- O che? non lo credete?

- Sì, credo tutto, ma so ancora che a Genova, dovunque c’è un capolavoro, c’è pure la sua brava leggenda dell’Inglese che voleva comprarlo a peso d’oro. [p. 206 modifica]

- Sia come vi garba; intanto è sicuro che ci hanno molti milioni.

- Oh, non lo nego. Ma poichè sono ricchi sfondati, dovrebbero pensare anche un tantino ai poveri.

- Ai poveri? Oh, non aspettano consigli, per pensarci, e si conta che facciano per centomila lire di limosine all’anno, oltre le opere pie nelle quali hanno mano.

- Davvero?

- Certo; sono gran signori, e amici della povera gente. Avrebbero ad essere otto o dieci di quella fatta, in Genova, e la vedreste cambiare dal nero al bianco.

- O dal bianco al nero! - soggiungeva un altro.

- E perchè dice questo, Lei? Non le par forse che io dica la verità?

- Dio me ne guardi! Ma chi le distribuisce, tutte queste limosine?

- Oh, fior di galantuomini; ottimi ecclesiastici, ed altre religiose persone.

- Sta bene; ma sono accorte egualmente?

- Come sarebbe a dire?

- Che la limosina fatta alla cieca, non è altro che uno sfoggio superbo, epperò avvilisce l’uomo, senza migliorarne lo stato. Oltre di che, mentre se la spartiscono i raccomandati, la vedova muore di fame con la sua figliuola, dopo avere inutilmente bussato all’uscio signorile, e l’onesto bracciante è cacciato dalla casupola perchè non ha pagato la pigione, e non ha lisciato acconciamente il fattore di Sua Eccellenza.

- Sarà; ma intanto dove mi trova Ella un uomo che spenda centomila lire in elemosine, come il marchese Antoniotto?

- Eh, non dico già questo per levargli il merito. Alla stretta dei conti son sempre uomini commendevoli, e degni, d’esser fatti consiglieri e sindaci della città.

- Ahi questa che Ella dice è una gran verità! Costoro almeno amministrerebbero a dovere il danaro del comune, e non ci sarebbe risico....

- Certo! - soggiungeva un altro. - Non ci sarebbe risico che rubassero essi, ma che lasciassero rubare gli altri. A costoro basterebbe di poter fare i prepotenti.

- Ohi ecco un’altra carrozza. Chi è quella signora che scende?

- È la marchesa Pellegrina Bracelli. Bella donna a’ suoi tempi! Adesso sua figlia è più bella di lei. [p. 207 modifica]

- Che novità! E probabilmente tra cento anni saranno morte ambedue.

- L’ha da essere una festa, ma di quelle! - diceva un altro. - Questa gente si ricorda d’essere sangue di dogi.

- Ci sono stati dei dogi nella casata Vivaldi?

- Nella casata Vivaldi, e anche in quella dei Torre.

- Peccato che non ne nascono più, dei dogi!

- Ma! è davvero un peccato. Essi valevano assai più dei vostri governatori e intendenti moderni.

- Oh, qui poi ci avete ragioni da vendere. Quando non ci fosse altro, basterebbe notare che erano animali domestici.

Erano questi i discorsi che la gente faceva sulla via.

Il popolo genovese è pieno di questi capi ameni, i quali si dànno pensiero d’ogni cosa, pel solo ed unico gusto di disputare; ciceroni da dozzina e curiosi di ogni risma, i quali sanno tutte le minuzie del passato, frugano tutte quelle del presente e vorrebbero anche indovinar quelle del futuro; la più parte avventori costanti del caffè della Liguria, in via Luccoli, o del caffè di Napoli in Soziglia; filosofi peripatetici dei portici del Teatro; speculatori del bel tempo sulle mura delle Grazie; uditori attentissimi alla Corte d’Assise, e alle parlate del Consiglio comunale.

Intanto giungevano le carrozze stemmate, e, mandando un po’ indietro la calca dei curiosi, si fermavano dinanzi al portone. Lo staffiere saltava giù da cassetto, apriva lo sportello, e, col cappello gallonato in mano, distendeva i gradini ripiegati dello smontatoio. Il cavaliere scendeva sollecito, e porgeva la mano alla dama, che, tutta ravvolta nella sua mantellina, non lasciava veder altro che l’acconciatura del capo e la noce del piede.

Era già molto pei riguardanti, se il viso era bello, sottile il piedino e ben tornito il fùsolo.

- È la tale! - No, è1 la tal altra! - E lì commenti, aneddoti, vita e miracoli della signora che passava.

La carrozza della nobile Ottavia Scotti, vedova Belmosti, si fermò a sua volta, e ne scese la vecchia dama, con Matilde Cisneri, il marchese De’ Carli e il conte Alerami.

Il lettore ricorderà che nei primi cenni intorno alla bionda contessa, abbiamo parlato d’una sua vecchia amica, la quale, non sapendo staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto. Era costei la Belmosti, ottima donna in fin dei conti, la quale con la sua nobilissima compagnia [p. 208 modifica]dava assai più che non ricevesse da altri. E la Cisneri lo sapeva benissimo, che, la mercè della sua vecchia amica, cugina del marchese Antoniotto dal lato materno, era stata invitata alla festa dai Torre Vivaldi.

Il nostro conte palatino si affrettò, con savio accorgimento, ad offrire il braccio alla nobile Ottavia. Il marchese Tartaglia si dinoccolò per offrire il suo alla Matilde, e tutti e quattro, gloriosi e trionfanti, salirono le scale.

Lorenzo Salvani, nascosto nella folla, ebbe agio di vedere tutta la scena e udire per giunta le chiacchiere degli sfaccendati, che tagliavano i panni addosso a quelle nobili persone.

Colla falda del cappello aggrondata sugli occhi, il colletto del pastrano alzato fino all’orecchio, egli era andato ad appostarsi colà, per vedere anche una volta la bella Matilde. Ultimo guizzo d’una lucerna che si spegne, ultima ubbìa d’un povero amante lasciato in asso!

Il cuore gli si strinse, quando vide Matilde, saltar leggiera e contenta dallo smontatoio sulla soglia del portico; gli occhi mandarono lampi, quando scorse l’Alerami.

- Domani; - borbottò egli tra sè. - Domani, se non siete un codardo.... -

Matilde era sparita col marchese De’ Carli, e Lorenzo vide ancora la vecchia gentildonna che le teneva dietro, appoggiata al braccio del conte palatino.

Su per le scale marmoree del palazzo Vivaldi era una luce vivissima. Numerosi servi in livrea e guanti bianchi stavano nella sala d’ingresso, che era pittorescamente ornata di fiori e piante tropicali, come le stufe dei nostri giardini.

Di là s’entrava in una fila di sale stupende, le quali giravano tutto intorno il piano nobile del palazzo, ricche delle tele, degli affreschi e degli ornati dei più famosi artisti.

Quelle sale, giusta l’antico costume dei signori italiani, portavano il nome delle divinità pagane che la fantasia del pittore aveva effigiate nella volta. Epperò in quella sontuosa dimora dei Vivaldi si notava il salotto di Cerere, dell’Aurora, di Diana, delle Muse e di Flora; divinità tutte rappresentate in altrettanti medaglioni a buon fresco, e accompagnate dai loro emblemi; storie particolari e scene simboliche negli altri scompartimenti e lunetti della sala.

Per tal modo gl’intendenti di cose artistiche potevano ammirare le opere del Semino, del Carlone, del Tavarone e d’altri buoni frescanti della scuola genovese, le quadrature dell’Adrovandini, le prospettive degli Haffner, e gli ornati recenti [p. 209 modifica]condotti con finissimo gusto e accortamente disposati alle antiche dipinture dal nostro valoroso Michele Canzio.

Che diremo noi delle tele d’ogni misura, le quali arricchivano quelle magnifiche sale? Erano dipinti del Caracci, dell’Albano e del Rubens, battaglie del Bourguignon e di Salvator Rosa, madonne del Dolci, ritratti di Tiziano, di Paris Bordone e del Vandyck. In un salottino, che era il pensatoio della marchesa Ginevra (diciamo italianamente pensatoio il francese boudoir, che ha una etimologia meno cortese) regnava solitaria ma splendida una Danae di Guido Reni, la quale aspettava la pioggia d’oro, e faceva sospirare tutti coloro che non si sentivano da tanto di contenderla a Giove. Alla luce dei doppieri i capegli d’oro e gli occhi desiosi della bella prigioniera sfavillavano; il molleggiare delle carni dava immagine di donna viva, e quella bianca cortina che di consueto nascondeva il quadro, tirata discretamente sui lati, faceva credere al riguardante che egli fosse davvero il furtivo testimone dei voluttuosi segreti di un’alcova pagana.

Le modanature d’oro, gli affreschi, gli ornati, le tele, gli arazzi antichi, insuperbivano le sale del palazzo Vivaldi, e tanto più degnamente in quanto che la luce, in ogni parte profusa, faceva risplendere ogni cosa in apparenza di freschezza e di novità. Le grandi masserizie mirabilmente intagliate e indorate con recente accuratezza, le tavole incrostate di marmi preziosi, i velluti di Utrecht orlati di frange e nappe d’oro, i damaschi azzurrini, rossi e gialli, i tappeti storiati, le larghe cortine rabescate, tutto attestava l’opera dei secoli più largamente magnifici; e tutto del pari era fresco, rilucente, sfolgoreggiante, come se tutti gli artefici che avevano arricchito il palazzo Vivaldi delle opere loro, avessero dato l’ultima mano ad ogni cosa il giorno innanzi la festa.

Mirabile su tutti gli altri era il salone di Flora, dove si facevano le danze. Quel salone che, se i lettori rammentano, non si illuminava se non nelle grandi occasioni, risplendeva per le opere di Pierin del Vaga, discepolo di Raffaello, che vi aveva fatto prova del suo mirabile ingegno, lavorando la volta con la vivezza de’ suoi colori e adornando in tal guisa le pareti, da sbandire anticipatamente i profani arazzi di seta e di carta felpata, i quali fanno testimonianza del lusso gretto e piccino dei tempi nostri.

Erano poi notevoli nei quattro angoli del salone quattro fauni del Montorsoli, stupende statue sul fare michelangiolesco, [p. 210 modifica]che sostenevano canestri di fiori e candelabri. Su questi erano piantati in gran numero i torchietti di cera che aggiungevano la loro luce a quella di un grande lampadario sospeso nel mezzo, e scintillavano, non sappiamo bene quante volte, nei molteplici riflessi de’ grandi specchi che pendevano dalle pareti. I canestri poi erano colmi di fiori freschi, che parevano raccolti alla rinfusa ed erano in quella vece le più accorte mescolanze immaginate dalla più sapiente tra tutte le sacerdotesse di Flora che mai profumasse della sua variopinta merce un portone della via Nuova o della via Carlo Felice.

Ma a gran pezza più splendide dei doppieri, e più belle dei fiori, erano le gentildonne genovesi, che portano il vanto della bellezza su tutte le donne del mondo (ogni scrittore o cortigiano d’altro paese potrà dire lo stesso di casa sua, che noi non ce ne recheremo più che tanto) e che, vestite in gala, ornate di perle, luccicanti di gemme e diamanti, apparivano stelle di prima e di seconda grandezza nell’azzurro del cielo, o Dee dell’Olimpo, che torna lo stesso per chiunque ricordi l’origine astronomica di tante umane idolatrie.

Mollemente adagiata su d’un ampio sofà, coperto di velluto verde scuro, stava la bella Usodimare, il cui nome non si usava mai scompagnare dall’epiteto, per modo che quest’ultimo era diventato necessario a far capire che si parlava di lei. Sebbene la marchesa Giovanna Usodimare avesse già contate le sue trentasei primavere, appariva pur sempre giovane, e non cedeva la palma ad altre parecchie di più recente splendidezza. Il naso, superbamente fermato senza incavatura al basso della fronte, la faceva rassomigliare alla Venere di Milo, della quale ci aveva pure la bocca disdegnosa e i capelli increspati: ma un diadema di conchiglie mezzo nascosto nelle ciocche rivoltate alla foggia greca verso le tempia, e un vezzo di perle che rompeva i magnifici contorni delle spalle ignude, ricordavano più agevolmente Anfitrite, la regina del mare. Perciò voi potete giurare, o lettori, che il marchese Onofrio De’ Carli, da quell’ostinato cultore del madrigale ch’egli era, non tralasciasse l’occasione di bisticciare tra la dea del mare e il casato della marchesa, e di paragonare i cavalieri che la ci aveva dintorno ad altrettanti Tritoni, sebbene non facessero tanto sprazzo di schiuma com’egli, quando gonfiava le gote.

Nè meno risplendeva per eleganza di forme la sua parente Erminia Lercari, sebbene la bellezza di costei derivasse da un tipo al tutto diverso. Era una svelta ed aggraziata [p. 211 modifica]persona, con una testolina che avrebbe potuto servir di modello al Canova, tanto ne erano fini e delicati i lineamenti. Ma se il Canova era morto, viveva il Duprè, che nel busto della marchesa Erminia aveva saputo dar vita ad un vero capolavoro, quantunque il marmo non avesse potuto ritrarre tutta la profonda virtù di quegli occhi, che parevano metter scintille. Certe movenze del capo e della mano asciutta e sottile, accennavano una donna d’animo forte, nata per comandare altrui. Ma quanto più robusta era la tempera, tanto più era fine; e perchè il gusto era eletto, cortese il pensamento, il comando riusciva dolcissimo, come quello che si volgeva sempre alle cose buone e gentili. La Lercari era colta e studiosa, e cotesto appariva facilmente, senza che ella pure il volesse, in una società come la nostra, dove le donne di consueto sono così poco addestrate nelle severe discipline, e gli uomini (diciamolo a nostra vergogna) anche meno. Però si sarebbe potuta paragonare a Minerva, come cento e dugento anni innanzi una di quelle mogli di dogi e senatori, le quali dettavano versi e prose, disputavano coi dotti, ed erano del pari ottime madri di famiglia, savie e cortesi matrone, che con la schietta bontà dei modi temperavano l’alterezza dei loro accigliati mariti.

Chi di noi vorrebbe oggi tornare a quei tempi in cui il popolo era servo, o poco meno, di quelli ottimati, e la repubblica stessa altro non era che un cadavere coperto di seta? E tuttavia que’ tempi si ricordano con affetto, la mercè di quelle belle e colte marchesane che il pennello del Vandyck ha tramandate alla nostra ammirazione, buone e pietose, con tutta la durezza che conferiva ai loro volti la gorgieretta insaldata a cannoncini e il taglio delle vesti spagnuole. Non altrimenti le Corti di amore, i colori della dama valorosamente portati in Palestina e l’ambito premio del torneo, ci rappattumano colle feroci memorie del Medio Evo. Quid foemina2 possit....

Ma torniamo alle nostre gentildonne in casa Torre Vivaldi. La signora Maddalena Torralba era anche essa degna di ammirazione, per quei suoi grandi occhi azzurrognoli, per le carni del color del latte, per la soavità del volto. Era una di quelle donne che si dicono molto acconciamente impastate di bontà, tutta dolci pensieri significati con dolci parole da una voce melodiosa, sebbene un tal po’ gutturale. Un cercatore di contrasti, ne avrebbe trovato uno bello e fatto, considerando la Torralba, seduta accanto all’amica sua, la Fulvia Cassana, che era la marchesa più bruna di [p. 212 modifica]Genova, che aveva gli occhi e le sopracciglia di un’Andalusa, e le fattezze e il portamento di un’antica Romana.

Un viso di Erigone, poichè siamo a capo fitto nei paragoni, era quello della marchesa Giulia Monterosso, dalle labbra tumide e coralline, dalle guance vivide come le pesche duràcine (lettori, per carità, non vi salti il grillo di mordere!) e dagli sguardi accesi che avrebbero rimescolato il sangue nelle vene al più tranquillo anacoreta della Tebaide.

- Tutte marchesane? null’altro che marchesane? - Sissignori; non è colpa nostra, se nella festa da ballo dei Torre Vivaldi ce n’erano tante, le quali portassero il pregio di un tocco in penna. E si noti che ne lasciamo nel dimenticatoio parecchie, le quali ci vorranno un mal di morte, perchè non abbiamo tessuto loro uno zinzino di panegirico.

Ma v’erano anche le signore senza corona, quelle tali che, come abbiamo detto, portavano alteramente i loro trentasei quarti di bellezza, e non li avrebbero barattati con altrettanti di nobiltà.

Tra queste era allora donna e madonna la Enrichetta Corani, il cui sguardo derivava tanta efficacia da certi occhi d’indaco, mezzo nascosti da lunghe ciglia. Era alta della persona, e non fu mai più acconcio il dire collo di cigno, che pel collo svelto e morbido della signora Enrichetta. Il colorito non aveva nè bianco, nè rosso, nè pallido, sibbene opalino, se ci è consentito di foggiare ad epiteto il colore bianco azzurrognolo latteo senza lucentezza di quella pietra che chiamano opale; colorito che sanno indovinare i grandi pittori, e per cui sovente i grami non fanno altro che impiastrare inutilmente la tela.

Era la signora Enrichetta che teneva in onore le cascate, o ricci a lunghe spire, che sbucavano da dietro gli orecchi e pendevano intorno al collo, per dar maggiore risalto alle carni. La chiamavano a Genova la signora dei tulipani, per una ghirlanda di questi fiori che ella s’era posta un giorno nella nerissima capigliatura. Tulipani simbolici! Molti erano gli innamorati che stavano intorno alla bellissima donna; ma neppur uno di que’ tulipani era voluto cascare a terra, per farsi raccogliere, come una tacita promessa d’amore.

Tra tante graziose dame, la bionda Cisneri non poteva esser dunque regina, come le aveva pronosticato tra due sbruffi il lezioso marchese De’ Carli. Ella poteva forse forse comparire come una stella di seconda grandezza in quel firmamento femminile; [p. 213 modifica]e soltanto la sua vedovanza, insieme con una maggiore libertà, le attraeva dintorno una maggior copia di adoratori.

Certo, se Lorenzo Salvani fosse stato in quelle sale, Matilde non gli sarebbe più sembrata la regina delle donne: poichè, senza pur mettere in conto che talune di quelle dame erano più appariscenti di lei, la bellezza raffigurata in tanti volti e persone diverse, adorna di tutte le incantevoli malìe che procaccia la ricchezza (anche Venere derivò la sua maggior possanza dal cinto miracoloso), è tal cosa che innebria come la copia molteplice dei vini.

Egli, verbigrazia, non avrebbe durato fatica a notare che il tipo di Matilde era un nulla al raffronto della Corani o della Usodimare, e che tra le donne a lui note, soltanto Maria, la sua sorella adottiva vestita da gran dama, avrebbe conteso il pomo della bellezza a tutte quante, e perfino alla regina della festa, alla Ginevra dagli occhi verdi.

Ci siam giunti, alla perfine, a questo gran nome! - dirà il lettore, che ha una voglia spasimata di conoscere la regina della festa. E la sua impazienza è ragionevole, dappoichè egli ha inteso che la bella Ginevra ha da essere gran parte di questa storia che gli andiamo narrando, e, come avviene in cosifatte letture, egli vorrà vedere se la gentildonna rassomigli a quel tipo di perfezione ch’egli ha immaginato, e se la ci abbia tutta quella virtù, quell’incognito indistinto di soavi fragranze, che sogliono tramandare le eroine da romanzo.

E noi, i quali l’abbiamo fatta sospirar tanto al cortese lettore, siamo impacciati a dipingerla, temendo forte che la grande aspettazione da noi prodotta non faccia torto ai grami colori della nostra tavolozza e alla imperizia del nostro pennello.


Note

  1. Nell’originale "e".
  2. Nell’originale fæmina.