I suicidi di Parigi/Episodio terzo/XVII
Questo testo è completo. |
◄ | Episodio terzo - XVI | Episodio terzo - XVIII | ► |
XVII.
Corbezzoli! Fidatevi dunque dei fiori!
Due settimane sono scorse.
Una mattina, a mezzodì, il duca si presentò in casa del dottore di Nubo.
Il duca non aveva ancora trent’anni.
Ieri ancora, egli sembrava sì giovane, sì felice! Alcuni giorni di quella zona torrida della sventura lo avevano maturato subitamente!
Par di quarant’anni adesso.
Vari capelli bianchi si fan passo sulle sue tempie. È fosco. È affranto. Il suo sguardo, capovolto indentro, è velato e tetro. I suoi abiti non dinotano la negligenza, ma la gravezza delle preoccupazioni dello spirito.
E davvero, gli era impossibile di cumular più disastri sur un capo di uomo, in minor tempo e con altrettanto rigore!
Era marito invidiato, padre contento, circondato di una considerazione relativa, onorato. Aveva un’amante che gli apriva olimpi incogniti. Possedeva un parafulmine che lo metteva al sicuro dalle disgrazie della sua corte e dalla ingratitudine della regina Bianca. Poteva innalzare ancora la fronte con orgoglio: sua moglie era pura; la sua casa casta; la sua fortuna al livello dei suoi bisogni e del suo grado.... Tutto codesto si è sprofondato come una valanga! Un bacio di donna à creato più ruine che il ciclone nei mari del Sud ed il simoun nel deserto!
— Io sono un misero! — sclamò egli infine, essendosi assiso, dopo qualche istante di tacere, cui il dottore non interruppe perchè gli scandagliava il cranio ed il petto del suo occhio scrutinatore.
— Bah! bah! io sono abituato a quelle frasi — rispose il dottore di un tono gaio. Tutti coloro che vengono a consultarmi cominciano per quel motto. Come la lingua francese è povera, e lo spirito umano poco elastico!
— Il dolore è un grido e non una lingua, dottore — osservò il duca. Voi lo ignorate; tanto meglio!
— Che vi càpita, dunque? Io credeva, al contrario, che la calma vi ritornasse.
— Io sono agli estremi. Mi affliggono a questi tre abissi: uccidermi, lasciarmi uccidere, o assassinare!
Il dottore, forte pensoso, si grattò la fronte, e dimandò lentamente:
— E voi avete scelto?
— Ve lo chieggo a volta mia.
— Insomma, spiegatevi.
— Voi non mi comprendete, dunque? Avete voi mai assaporato la gelosia dell’odio?
— Ignoro quella dell’amore — figuratevi! Allora?
— Scandagliate. Voi conoscete una parte dei miei disastri.
— Sopra una parola anticipata della morte del re Taddeo — cui il signor di Lavandall si lasciò scappare a disegno — ò guadagnato alla Borsa cento mila franchi. I nostri debiti comuni, e quelli di cui aveva risposto, addossando le vostre cambiali, sono pagati.
— Non è il danaro che cagiona le mie sventure.
— Morella dunque?
— Morella parte dopo domani per la Turchia, a traverso la Russia, in compagnia di parecchi signori. Lord Warland guadagna l’handicap. Ella finirà per recarsi in Italia, e sposarvi un marchese, un ministro, un duca, o che so io.
— Voi non l’amate dunque più?
— Non ne so nulla. Galleggio nella nebbia.
— In questo caso, venite a vedermi quando sarete sboccato nel chiaro.
— Voi non vedete dunque altro nel mondo, voi, che la pecunia e la ganza?
— Vi trovate voi altra cosa?
— Io era padre. Mi si viene a dire: voi siete disonorato; il vostro figliuolo non porterà più il vostro nome! Ero marito. Mi si dice: voi siete infame; vostra moglie è vedova!
— La sentenza è feroce.
— Ora, io amo il mio bambino. Senza proprio amarla, tengo a mia moglie. Protesto. Mi si risponde: lascerete Parigi fra un mese, solo, ovvero io vi sforzo a battervi in duello e vi uccido.
— Battetevi allora.
— Non mai. Io sono vile. Spiegate ciò. Se mi trovassi alla testa di uno squadrone, io mi slancerei il primo sur un quadrato di fanteria, sur una batteria. Svenirei, se vedessi una pistola puntata su di me, o una puntata di spada volteggiare attorno al mio petto. Io sono affatto l’opposto dei nostri Siciliani, i quali ànno il terribile coraggio di battersi al duello del coltello, e levano il piede sul campo di battaglia, al primo colpo di cannone.
— Sarebbe egli il conte di Alleux che vi accocca quell’intimazione?
— Egli stesso.
— Egli ama dunque vostra moglie?
— Si amano.
— Ne siete voi ben certo, di parte della duchessa?
— La cameriera — che fin qui fu al soldo del conte di Alleux per riferirgli tutto ciò che Vitaliana faceva — è passata al soldo mio, adesso che il conte viene due volte al giorno ad informarsene da Vitaliana ella stessa. Questa cameriera dunque me lo assevera.
— Allora, partite.
— Impossibile. Osservatemi come sono cangiato. La mia vita è un letto di aculeo. Dovunque io mi giri, gli è tenebre. Dovunque io mi proponga abbordare, gli è l’onta, il delitto o la morte. Non oso più escire, ed ò paura di restare a casa. Se veggo un fanciullo nelle vie, il singhiozzo, il soffoco mi prendono. Se incontro una coppia felice, le lagrime inondano gli occhi miei. Io trovo uno scherno in tutti gli accenti. Ogni parola mi sembra un’allusione. Si direbbe che una mano invisibile scriva le mie colpe sulla mia fronte, e che ciascuno ve le legga. I miei colleghi mi squadrano singolarmente. Morella non mi discaccia neppur più; io non esisto più per lei! Sono andato al teatro, pensando distrarmi; ò creduto riconoscere che mi avevano messo in iscena. Sono andato al ballo della mezza-quaresima; una maschera si è avvicinata e mi à detto: «Ai tu incontrato tua moglie?» Evitano al club di giocare con me. Io trascino nelle feste un piglio che mette le donne in fuga, gli uomini in guardia. All’ultimo ballo delle Tuileries, la regina non mi à parlato. E dietro a me, un militare chiedeva ad un altro, facendo certo allusione ai casi miei: «Come vanno le vostre colombe?»
— Non ne avete dunque mica abbastanza di guai reali, che ve ne create tanti con l’immaginazione? — dimandò il dottore.
— L’immaginazione non alloggia in casa mia. Gli è il fatto materiale che mi schiaccia. Avevo una posizione: me ne cacciano! Avevo una casa: me ne esiliano! Avevo credito: è distrutto! Avevo dei documenti che mi potevano permettere di forzare le porte del favore e scongiurare la disgrazia: me li ànno rubati! Avevo un’amante: me l’ànno sedotta, e se ne vola con l’ultimo mio scudo! Avevo una moglie: si mette al suo capezzale una pistola, ed una spada per interdirmene l’approccio. I miei famigliari sono spie. La mia casa un Calvario... E, malgrado ciò, bisogna che fra due settimane io la lasci!
— Cazzica! se v’incomodate qualcuno!
— Oh! che notti sono le mie, dottore! Vagabondo per Parigi, tanto che io non mi caggia spossato. Io cionco senza potermi ubbriacare ed obliare! Ritorno a casa inzaccherato, lasso, infetto. Credo che quel letto, il quale, ieri ancora mi offriva il sonno, mi tenda le braccia: la disperazione vi si apposta, l’insonnia vi sibila di tutti i suoi serpenti! Le tenebre sono implacabili: non vi è fantasma che non vi sputi le sue furie. Io mi alzo scacciato dall’incubo delle visioni, dei desideri, dei delirii, dei rimorsi, della gelosia... tutto il mondo dell’inferno si rizza sulla mia fronte! Ed io vo, corro, urto a tutti gli angoli, investo tutti i mobili, mi rotolo sul tappeto, striscio, mi trascino fino alla porta di lei... Dessa è chiusa! Ella è rinchiusa! Ma io odo quella respirazione dolce, calma, eguale, talvolta un piccolo gemito... La pace è colà!... forse anco un’anima che pronunziò la sua finale sentenza — e trova il riposo nella risoluzione estrema. Guardo attraverso il buco della serratura quel nido rischiarato da una luce d’ambra... Ecco le sue vesti; ecco la psiche che la rifletteva or ora, facendosi bella per un altro; ecco le sue calze, le sue pantofole... Ella sogna... delle parole le sfuggono dal cuore... Io brucio ed i miei piedi sono nudi, il mio petto è nudo, appena se sono coverto... Vado a picchiare? vado a chiamare? vado a torcermi alle sue ginocchia e gridare: grazia!?... Oh! giammai! Tre parole implacabili sono nella sua bocca: codardo, ladro, infame! Me ne fuggo e ritorno nella mia camera per vegliare, inabissarmi e riflettere... riflettere che, qualche ora innanzi, quella medesima bocca, che à per me propositi sì feroci, diceva ad un altro: io ti amo! Ed ecco i miei giorni, ecco le mie notti. E malgrado ciò, lo ripeto, notti e giorni sono contati.
— Siete voi deciso a partire?
— No. Li ucciderò.
— Riflettete. Val meglio battervi. Avere una probabilità...
— Alcuna. L’ò visto all’opera.
— Un assassinio, anche nel caso di flagrante delitto, provocherà discussioni. La giustizia cava come l’acqua che cade. Essa rimuoverà tutto, rimuginerà dovunque, interrogherà tutti: e d’indagine in indagine, d’induzione in induzione, si arriverà al gabinetto di Lavandall, al salone di Morella. Siete allora perduto senza remissione. Ascoltatemi: battetevi o rassegnatevi.
— Io non posso rinunziare a Vitaliana — riprese Balbek dopo un minuto di riflessione... Perocchè, l’ò capito, ecco ciò che mi vogliono. Si dice: Ci amiamo da dieci anni, ed abbiamo rispettato il vostro onore, perchè voi stesso lo rispettavate. L’avete contaminato; ci stimiamo affrancati. Nulla c’impegna oggimai a preoccuparcene più che voi non ve ne preoccupate. Voi non amate Vitaliana. Ella non vi ama. L’avete oltraggiata... Via, dunque, via! Il vostro posto non è più allato di lei.
— I colpevoli son sempre logici — osservò il dottore di Nubo.
— Ma io non posso staccarmi da lei. Ella è il mio complemento. Il delitto nell’educazione dei gesuiti, presso i quali venni educato, è precisamente in questo: ch’essi producono degli uomini che non bastano a sè stessi e che ànno il loro complemento altrove. Qui la mano, là la lingua; qui il cervello ed il cuore collettivo, là la persona singola!
— Questa è la base e la forza dell’educazione cattolica.
— Orbene, Vitaliana finisce e completa la mia personalità: ella è quella, metà del me che colma il vuoto. M’intendete? Io mi disonorava fuori; ed avevo l’onore in casa mia! Io ballonzava le vecchie baldracche politiche per ragione di Stato, nelle regioni superiori; e venivo a prendere un bagno di giovinezza e di purità nella mia alcova! Lottavo di menzogne e d’intrighi nel mondo officiale; al mio focolaio, trovavo la lingua casta e sincera, il sorriso morale! Mi attossicavo di amore adulterato e fatturato presso le dame e le cortigiane; la mia ingenua mi disinfettava! Vedevo dovunque il culto del diamante; in casa mia, trovavo la religione del fiore! La febbre dappertutto; in quel salottino, poco bazzicato, la calma! Nel mondo, l’artificio, il belletto, la posa; nei miei lari, la semplicità ignorante! Io mi ritemprava qui, per lottare colà; mi temperavo là, per piacer qui. Io repugnava al vizio, ma non adoravo la virtù. Il delitto mi trovava inabile; l’onore improprio: ero incompleto dovunque. Le ganze erano mia moglie; mia moglie, il mio rimorso.
— Trista parte per una donna! — sclamò il dottore.
— Ond’è, che le donne se ne stancano. Or bene, io, il quale non sono che un istinto stroppiato da casuisti; io aveva trovato la mia direzione: perchè mia moglie, essendo il candore stesso, era una luce. Questa luce è estinta. Vitaliana non mi seduceva...
— Perchè la bianchezza non è un colore — ed i mariti sono tutti come gli Indiani: amano il tatuaggio.
— Io ò corso dietro al tatuaggio come gli altri. Però, in mezzo a quel diavolìo di forme, di spezie, e di colori, io sentiva che, se Vitaliana non era un’esca, era un riposo. Il riposo è l’aria vitale della nature incomplete: me l’ànno involata! Voi sapete come sono stato abbattuto dappertutto; in casa Lavandall, in casa Morella, in casa mia. Che volete voi che io mi divenga in questa situazione? Ricostruite col pensiero il vostro cuore a trent’anni, provate d’intendermi, e venite in mio soccorso.
— In che modo?
— Non importa come. Accetto tutto. Funzionario disonorato, padre senza figlio, marito senza sposa, signore povero... Che ò fatto io dunque perchè tante sventure si precipitino ad una volta sopra di me?
— Che avete voi fatto? — disse di Nubo sogghignando. Ma!... Avete avuto l’inaccortezza di trovarvi lì quando la valanga s’è scardinata.
— Non risaliamo più alle cause. Io non veggo oramai che questi quattro spettri: battermi, uccidermi, assassinare, bandirmi — abbandonando mia moglie nelle braccia di un amante. Fin ad ora ella è pura ancora. Fra tre giorni, nol sarà più.
— Chi vi dice codesto?
— La sua cameriera. Gli è dopo dimani l’anniversario dei nostri sponsali. La vedova si rimarita — là, nella casa mia stessa, in quel nido di rifugio ch’ella s’era costrutto, quando, nelle mie braccia, ella sognava dei suoi giorni di vergine! Ora io non ò nè il coraggio di battermi, nè quello di uccidermi; non voglio a prezzo alcuno lasciarli entrare in quel paradiso. Li ucciderò.
— E poi?
— Poi, poi... Dio crea l’avvenire ed il diavolo lo cavalca. Io soffoco. Il pensiero mi rode; il cuore mi divora. Prometeo era un Sibarita, paragonato a me. Oh sì! li assassinerò... l’è la mia calma, è il sonno che essi ànno estinto negli occhi miei.
— Ascoltatemi un po’. Se venite a me perchè sentite il bisogno di esser salassato, io son chirurgo e sono pronto. Se venite per intrattenermi dei vostri delirii, voi avete mal preso il vostro tempo. Io ò fretta. Il mio editore mi intima di consegnargli un certo trattato sui Fiori, cui gli ò venduto.
— Avete ragione, signore, io sono uno zotico a venire ad appestare l’atmosfera innocente e soave che vi circonda. Il fiore! mille scuse. Io non sospettava d’infettare codesta innocenza del mio alito di omicida.
— Ebbene, caro duca, non vi abbiate di rimorsi a causa di ciò. Imperocchè, ve lo assicuro, io non conosco nulla nella natura che sia così assassino che il fiore.
— Scherzate, scherzate...
— No, punto. Dimandatelo alla duchessa, che li conosce i fiori. Quella cara dama li ama dessa sempre?
— Sempre.
— Allora dimandatele che cosa è il fiore. Io comprendo che Luigi XIV, sì profondamente tenero di sua persona, non li amasse un’acca. Io comprendo che quella giovinetta, di cui parla Filippo Salmuth, preferisse loro l’odore dei vecchi libri; e quel giureconsulto, perfin quello dello stabio! Io comprendo che il famoso medico Paolo Zacchia detestasse la rosa; e che quella dama, di cui parla Samuele Lede’, cadesse in sincope alla vista di una rosa rossa. La natura produce certi istinti indicatori, come dessa dota di un grifo il compagno di S. Antonio, per scovrire i tartufi. Respirate il salano, lo strammonio, il giusquiamo, il papavero, la noce, il sambuco... e voi vi addormite. Valmont di Bomare dice che chi sradica la betonia diventa ebbro. Il dottore Berton, pingendo dalla natura il puthos fetido (draconium foetidum) contrasse un’oftalmia. Areteo di Cappadocia parla di certi fiori che provocano l’accesso dell’epilessia. La Gazette de la Santé narra di certi operai che, essendosi addormentati in un granaio dove si erano sparse delle radici di giusquiamo per bandirne i topi, si svegliarono attinti da stupore e cefalgia. E Martino Grunewald assicura che due individui furono colpiti da alienazione mentale per aver respirato, in una farmacia a Dresda, il fumo dei granelli di questa pianta che vi si bruciavano. Barton afferma che il fiore della magnolia glauca occasiona la febbre ed accelera i parossismi della gotta. Le emanazioni della lobelia grandiflora cagionano, secondo Jacquin, dei soffocamenti. In Creta, l’odore dell’anagyris dà la febbre. Il fiore del lauro rosa (nerium oleander) uccide, se si dorma nella camera ove è rinchiuso.
— Uccide? sclamò il duca raddrizzandosi.
— Uccide — continuò il dottore — come le emanazioni del manzanillo di Surinam e della camoeladia dentata di San Domingo. Triller, che à scritto un trattato: De morte ex violarum usu, racconta di una fanciulla trovata morta in un letto da lei cosparso di viole. Nel 1779 occorse lo stesso accidente ad una dama che si era coricata in una camera profumata da mazzi di rose. Le rose uccisero la figlia di Nicola I di Salin; e, secondo Kramer, anche un vescovo di Polonia. Attesta Mattioli, che un fiore avvelenato uccide chi lo respira. Voi sapete come Giovanna d’Albret fu avvelenata con dei guanti profumati... Clemente VII fu morto con una torcia cui gli si portava dinanzi e che bruciava dell’arsenico. Il famoso Dippel si suicidò di questa fatta... E che so ancora! Vedete, dunque, duca, se, scrivendo sui fiori, io sguazzo in quell’empireo di azzurro, cui voi credete aver contaminato dei vostri delirii di omicida.
Il duca rimase silenzioso, la fronte celata nelle mani. Soffriva visibilmente. Si sarebbe detto che lottasse contro il destino.
Infine, si alzò e sclamò con tristezza:
— Voi siete felice! voi raccontate degli aneddoti.
— Be’! egli chiama aneddoti la scienza! Voi credete dunque i nostri autori di scienze naturali un branco di romanzieri?...
— Poco divertenti — interruppe il duca. E si vorrebbe darci a credere che si vorrebbe sostituire, per suicidarsi, un vaso di fiori al carbone tradizionale?
— Esattamente... E voi potete domandarlo alla duchessa.
La connessione di queste due parole, suicidio e duchessa, fece abbrividire il duca. Quantunque pallido di già, impallidì ancora, e balbuziò:
— Mistificatore, va!
Ed uscì.
Il dottore lo accompagnò del suo sguardo fisso e penetrante, e mormorò a sua volta:
— Assassino!
Il duca di Balbek ritornò al palazzo, e parlò alla cameriera. Poi uscì di nuovo, e passò il rimanente del giorno a visitare le stufe di tutti i fiorai di Parigi.