Il Quadriregio/Libro primo/IX

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IX. Come la ninfa Lippea si duole che le convien partire.

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
IX. Come la ninfa Lippea si duole che le convien partire.
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CAPITOLO IX

Come la ninfa Lippea si duole che le convien partire.

     Letto ch’io ebbi ciò che nel sasso era,
io mi partii e dentro uno spineto
mi posi a stare ascoso insino a sera,
     acciò che il nostro amor fosse segreto.
5Presso all’occaso ed io scendea la costa
e per veder Lippea andava lieto.
     Ed una driada disse:— Fa’, fa’ sosta—
forte gridando, ond’io maravigliai
e ’nsin che giunse a me, non fei risposta.
     10Quando fu a me, ed io la domandai.
— Non sai— rispose— ciò ch’è intervenuto,
e Lippea quanti per te sostien guai?
     L’amor tra te e lei stato è saputo,
e conven che si parta: oh sé infelice,
15ché contra questo nullo trova aiuto!
     Io son sua driada e giá fui sua nutrice:
l’amor, che porta a te, m’ha rivelato,
ed ogni suo segreto ella mi dice.
     Se saper vuoi il fatto come è stato,
20la Invidia, che sempre il mal rapporta,
che mille ha orecchie ed occhi in ogni lato,
     disse a Iunone:— Or non ti se’ tu accorta
che Lippea ama il vago giovinetto,
che venne qui e tanto amor gli porta?—
     25Poscia sparío, quando questo ebbe detto
la rea, che ha mille occhi e tutto vede
e mille orecchie e tosco ha dentro al petto.

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     Ah Invidia iniqua, quanto a te si crede!
e perciò volentier tu se’ udita,
30perché troppo al mal dir si dona fede.
     A Lippea detto fu che ammannita
stesse ad andarne nel seguente giorno,
quando Iunon volea far sua partita.
     Pel gran dolor e per lo grave scorno
35d’amaro pianto si bagnò le gote,
e smorto diventò suo viso adorno.
     E per non far di fuor le fiamme note,
che Amor le aveva acceso dentro al core
coll’arco dur, che mai invan percote,
     40pigliava scusa pianger per l’amore,
ch’ella portava alla Diana dea
e alle sue ninfe come a care suore.
     — Sorelle mie— dicea,— perché credea
rimanermi con voi, però ’l cuor piagne
45che dipartir mi fa la ’Nvidia rea.
     E non sará che mai ’l mio pianto stagne:
tanto è l’amor, oh lassa me tapina,
ch’io conceputo ho qui, o mie compagne.—
     Poscia andò a Iuno e disse:— O mia regina,
50per darmi infamia e darmi vitupero,
l’Invidia con sua lingua serpentina
     detto ha cosí; ma s’ella dice il vero,
io cada morta, o s’io assento all’arme
di dio Cupido o mai n’ebbi pensiero.
     55Quando deliberasti, o dea, lassarme,
concepii amore a tutte, ed or mi dole
se io le lascio e altrove puoi menarme.—
     Iunon rispose a lei brevi parole:
— Voglio che vegni e, quando il carro parte
60crai, sii la prima sul levar del sole.—
     Poscia che mille lacrime ebbe sparte,
dicea fra sé dolente ed angosciosa:
— Come farò? oimè! ’l cor mio si sparte.—

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     Come va ’l cervio, a cui giá venenosa
65è giunta la saetta, e move il corso
or qua or lá, e insin che muor non posa:
     cosí ed ella per aver soccorso
giva ad ognuna, e poscia lacrimando
deliberò a Diana aver ricorso.
     70E disse:— O dea, tu facesti il domando
ch’io rimanessi, e Iuno fu contenta;
ed io anche assentii per suo comando.
     Ed ora pare a me ch’ella si penta,
non so perché: e se fia mia partenza,
75convien che gran dolor mio cor ne senta,
     perché tu, dea, a me benivoglienza
hai dimostrata, e Pallia e Lisbena
e l’altre, con ch’i’ ho fatto permanenza.
     Però partir da loro a me è gran pena,
80ch’io amo ognuna come mia sorella,
e sopra tutte te, o dea serena.
     Però, ti prego, alquanto tu favella
a dea Iunon ch’io stia sino alla festa,
che ogni anno, come sai, si rinovella.—
     85Rispose a lei Diana:— Manifesta
tu fai te stessa: or sappi che colei,
di cui è sospetto, non è ben onesta.
     Vanne con la signora delli dèi;
ché s’ella mi dicesse ch’io v’andassi,
90sí come a Iove, a lei ubbidirei.—
     Per la vergogna tenne gli occhi bassi
la misera e pensava tutt’i modi
per rimanere e che nessun ne lassi.
     O Amor folle, che sí forte annodi
95l’amante con l’amato e sí li leghi,
che dentro consumando li corrodi!
     Quando si vide non valer li prieghi,
giva ansiando come fa la cagna,
a cui veder li suoi figliuol si neghi.

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     E lasciò tutte e sol me per compagna
seco menòe; e salse tanto ad erto,
ch’ella pervenne in una gran montagna.
     Alquanto andammo lí per un deserto:
alfin venimmo in quel prato fiorito,
105ov’ella te di fiori avea coperto.
     Ella gittossi dov’eri dormito;
e cominciò a dir con pianto amaro:
— O dolce sposo mio, dove se’ ito?
     dove se’ ora, o mio amico caro?
110Oh ti vedessi ’nanti ch’io mi parta,
da che contra il partir non ho riparo!—
     Poi ch’ebbe pianto lí ben una quarta
d’una gross’ora, su in un sasso scrisse
col dardo suo, come chi scrive in carta.
     115E lí lo pose e poi indi partisse;
e per veder te, credo, mille volte
giú per la piaggia mirando s’affisse.
     Iunon le ninfe sue avea raccolte,
e perché Lippea sola v’era manco,
120mandat’avea a trovarla ninfe molte.
     La piaggia tutta non avea scesa anco,
che fu trovata e menata a Iunone
coll’animo ansioso e tanto stanco.
     Non valse a dir che sdegno era cagione
125del suo assentarsi, che creso era piúe
a Invidia il falso, ch’a lei ’l ver sermone,
     che non la fêsse dalle ninfe sue
battere prima, e poscia l’ha mandata
stretta e legata al monte Olimpo in súe.
     130Nel suo partir m’impose esta ambasciata,
la qual t’ho detta; e disse:— Dilli quanto
da lui mi parto afflitta e sconsolata.—
     Tanto negli occhi m’abbondava il pianto,
quando la driada questo mi proferse,
135che non risposi per lo pianger tanto.

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     Ma per le vie tant’aspere e perverse
con lei andai insino alla pianura,
ove Lippea di be’ fior mi coperse.
     E ratto corsi a legger la scrittura,
140la quale avea scolpita su nel sasso,
quand’ella fece la partenza dura.
     Ella dicea: «Perduto ho il bello spasso,
ch’io avea, vedendo te, o dolce drudo:
partir conviemmi, ed io il mio cor ti lasso.
     145Troppo Cupido a me è stato crudo:
egli, ch’io non ti veggia, t’ha nascoso,
e di te m’ha ferito a petto nudo.
     Fátti con Dio, o mio primaio sposo
ed ultimo anco: oimè, che non ho spene
150di rivederti mai, né aver riposo!
     Ché quel reame, che Iunon si tiene,
è alto tanto e posto sí lontano,
che mai nessun mortal tanto su vene».
     Letto ch’io ebbi quel tra me pian piano,
155volsi alla driada il lacrimoso volto,
il qual io mi percossi con la mano,
     dicendo:— Il mio conforto chi l’ha tolto?
Or dove se’, Lippea ninfa mia?
O dolce amore, in quanto duol se’ vòlto!
     160Driada, dimmi se c’è modo o via
o che io la giunga, o s’egli c’è speranza
ch’io venga ove Iunone ha signoria.
     — Il correr delle ninfe ogni altro avanza
— rispose quella;— e ’l regno di dea Iuno
165è tanto ad alto ed ha sí gran distanza,
     che non vi puote andar mortale alcuno.—
Cosí mi disse e poi si mosse a corsa,
d’ogni sperar lasciandomi digiuno,
     e se n’andò correndo piú che un’orsa.