Il Quadriregio/Libro quarto/VI

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VI. Della fortezza e delle sue spezie

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Federico Frezzi - Il Quadriregio (XIV secolo/XV secolo)
VI. Della fortezza e delle sue spezie
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CAPITOLO VI

Della fortezza e delle sue spezie.

     Menommi poi l’Umilitá piú suso,
tanto ch’io giunsi al reame secondo;
e, come il primo, il varco aveva chiuso,
     ed anco ’l muro avea girante in tondo
5ed era tutto quanto d’oro fino,
alto ben cento piè da cima al fondo.
     Enginocchiato, al mur mi fei vicino;
allora l’uscio grande ne fu aperto;
e noi intrammo su per quel cammino.
     10Forse duo miglia era ito suso ad erto
tra dolci canti e tra li belli fiori,
da’ quai tutto quel pian era coperto,
     ch’io vidi in mezzo delli sacri còri
star la Fortezza ardita e triunfante
15come una dea adorna di splendori.
     Mirava al cielo e tenea le sue piante
fisse e fermate su ’n una colonna,
ch’era tutta di fino adamante.
     La spada in mano avea la viril donna
20e l’elmo in testa ed in braccio lo scudo,
e la panziera in scambio della gonna.
     — O vertú alta, o nobil Fortitudo
— diss’io a lei inginocchiato appresso,—
che non curi Fortuna e suo van ludo,
     25per l’aspero viaggio mi son messo,
passando i vizi insú con grande affanno,
per veder questo regno a te commesso,

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     e per veder le dame che qui stanno;
e vengo, alta regina, ché m’insegni
30l’offizio e l’operar, che da te hanno.
     Se ’l priego basso mio, donna, disdegni,
Minerva disse a me ch’io ti richieggia
e che venissi qui, ove tu regni.—
     Siccome, quando le sue schier vagheggia,
35si mostra ardito il nobil capitano,
ed ognun delli suoi, perch’egli il veggia,
     cosí fec’ella con la spada in mano,
e cosí se mostroe ogni sua ancilla,
in forma femminile ardir umano.
     40Non mai Pantasilea ovver Camilla
tanto valor nell’arme dimostrâro,
né donna d’Amazona o d’altra villa.
     — Da c’hai passato il cammin cosí amaro
— rispose quella,— e mándati Minerva,
45degno è che io t’insegni e faccia chiaro.
     La parte, che nell’uom debbe esser serva,
per due cagioni alla ragion s’oppone
e contra buona legge sta proterva.
     Prima è dolcezza delle cose buone
50secondo il senso, e, quando troppo move,
a questa Temperanza il fren gli pone.
     L’altra è quand’ella andar non vuol lá, dove
la ragion ditta e fállo per paura
o per diletto, che la tiri altrove.
     55Ora a’ due offizi miei porrai ben cura.
Uno è che arma l’uom e che lo sprona
alla vertú contra ogni cosa dura.
     E, perch’abbia vittoria, la corona
io gli dimostro; e, se vince l’asprezza,
60prometto fama e premio, che ’l ciel dona.
     L’altro è che, come Ulisse, la dolcezza
lassa di Circe e, come Sanson fiero,
svegliato, i lacci di Dalida spezza.

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     E giammai non ti caggia nel pensiero
65che di fortezza virtual sia armato
chi il mal fa forte o casual mestiero,
     cioè per furia o ira, o che infiammato
sia d’amor troppo, e forse per temenza
o per guadagno ovver come soldato.
     70Per molta ovver per poca esperienza
alcun par forte; ma vera radice
nullo ha di questo, ma sola apparenza;
     ché la fortezza, che fa l’uom felice,
è animo costante a non volere
75ciò ch’a ragione ed a Dio contradice,
     per questo apparecchiato a sostenere
ogni fatica, ogni briga e periglio
e voler contrastar con suo potere,
     e per le quattro cose, a quali è figlio,
80la patria, il padre, la vertú e Dio,
ire alla morte con allegro ciglio.
     Non ha però di morte ella il disío;
ché quanto al mondo è utile sua vita,
tanto il morir gli dole e pargli rio.
     85Ma la sua carne libera e espedita
tiene alla morte, e sol quando bisogna
e in bene di color che l’han largita;
     ch’è meglio assai che l’uom la vita pogna,
che Cloto fila e fa corte le tele,
90che viver vizioso e con vergogna.
     Perché non fusse a’ nemici infedele
nelle promesse, il buon Regulo Marco
tornò alla morte ed al dolor crudele.
     Ristette solo Orazio su nel varco
95del ponte, insin che gli fu dietro rotto,
portando de’ nemici tutto il carco,
     e poi nel Tever si gittò di sotto
non per fuggir, ma che non contentasse
color ch’a ritener s’era condotto.

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     100Fortezza fe’ che Curzio si gittasse
nella ruina, acciò che la sua morte
da morte la sua patria liberasse.
     Omai contempla la mia bella corte.
Questa che ’n testa porta due ghirlande,
105perché a destra ed a sinistra è forte,
     Magnanimitá è, che ha ’l cor sí grande,
che Fortuna nol flette, se minaccia,
né lieva in alto con losinghe blande;
     ma tra la gran tempesta e gran bonaccia
110conduce la sua barca con salute,
e troppa spene o tèma non l’impaccia.
     Non per ambizion, ma per vertute
s’ingegna di salir in grande onore,
e solo a questo ha le sue voglie acute,
     115e, non perch’i subietti ella divore,
ma per far prode, sí come fa ’l lume,
che, posto in alto, mostra piú splendore.
     Il vizio d’arroganza, e che presume,
ha ella in odio e la gloria vana
120sí come cosa opposta al buon costume.
     Troppa audacia ancor da lei è lontana
e ’l timor troppo e l’animo pusillo,
e la temeritá da lei è strana;
     ed è verace, e l’animo ha tranquillo
125e tra li grandi mostra aspetto magno,
ed eccellente ed alto è ’l suo vessillo,
     ed usa tra’ minor come compagno.
L’onor e la vertú vuol che antiposta
sia all’utilitá ed al guadagno.
     130Quell’altra donna, che gli siede a costa,
è sua sorella, chiamata Fidanza:
questa è seconda, in questo regno posta.
     Questa comincia con molta baldanza
le cose dure, pria pensando il fine
135e la fatica ed ogni circumstanza.

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     La terza poscia di queste regine
è Pazienza, ed ella è che sostiene
della battaglia le piú acute spine.
     E sono dolci a lei l’amare pene,
140pensando il premio e ’l grande onor che spera,
ché senza affanno non si monta al bene.
     La quarta è la vertú che persevéra
insin al fine, e l’opera conduce
tutta perfetta e tutta quanta intera.
     145Ogni atto buono ed arduo, che produce
la volontá zelante ed iraconda,
a questo mio reame si reduce.
     Io dico l’ira, quando non abbonda
tanto che offusche il lume della mente,
150ma quella che a ragion sempre seconda.
     In questo regno mio tanto eccellente
stanno i romani antichi e li gran reggi
e gli uomin forti dell’antica gente,
     i quai voglio che odi e che li veggi.
155Quivi sta Ettòr e quivi stan coloro
che in magnanimitá fûn li piú egreggi.—
     Allor partíssi, e tutto il sacro coro,
seguendo la Fortezza, i passi mosse,
sin che trovammo una gran porta d’oro.
     160La donna principal quella percosse;
e senza alcun indugio ne fu aperta;
ma quel portier che aprío, non so chi fosse:
     tanto attesi a seguir la scorta esperta.