Il Quadriregio/Libro secondo/V
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CAPITOLO V
Come l'autore trova certe anime, che
stavano penando presso al limbo.
Appresso al limbo, intorno e in ogni canto
son gran montagne selvagge e spinose
ed aspre sí, che mai le vidi tanto.
Ed anime stan lí, che van penose
5intorno errando per quel loco incolto
tra rovi e spin, che mai producon rose.
E, perch’è quivi l’aer grosso e folto,
io non scorgea alcun, bench’io mirasse,
tanto che ’l conoscesse ben nel volto.
10Però Minerva assentí ch’io andasse
ivi tra lor e, se trovava alcuno
conosciuto da me, ch’io gli parlasse.
Allor me misi tra quell’aer bruno
e tra gli sterpi, ed acuto mirai,
15tanto che l’occhio mio ne conobbe uno.
— O anima gentil, che tanto amai,
’nanzi che ’l corpo ti lassasse sola,
perché tra questi lochi asperi stai?
Son qui i compagni della prima scola?
20è qui Arnoldo ed Agnolo da Riete?
Potrei parlar ed udir lor parola?—
Rispose a me con sembianze non liete:
— Accorso e gli altri due, che tu m’hai detti,
son fuor d’inferno in piú alta quiete.
25Tra questi asperi luochi siam ristretti
quei che tu vedi, e tra montagna oscura,
ché su del mondo non uscimmo netti;
ché l’etá pueril, ch’è da sé pura,
ora è dal mondo rio cosí corrotta,
30ch’è piena di malizia e di bruttura,
ed in tutti que’ vizi è mastra e dotta,
che la natura a quell’etá occulta,
e senza possa col desío n’è ghiotta.
’Nanzi che alcun di noi all’etá adulta
35venuto fusse, ordinò l’alto Dio
che nostra carne su fusse sepulta.
Se tratti non ne avesse il Signor pio
di quella vita breve e che sta in forsi,
tanto ne arebbe infetti il mondo rio;
40ché noi saremmo in maggior colpe corsi,
e poi puniti in piú acerbo loco
e da piú pena in questo inferno morsi.
Per la montagna ingiú scendendo un poco,
i figli stan di quelle ree contrade,
45sovra li qual Dio piovve solfo e foco.
Se fussono venuti a piena etade,
sarebbon in piú colpa ed in piú duolo:
adunque dar lor morte fu pietade.
E lí con loro sta ’l picciol figliolo,
50che Gregor dice che nel sen paterno,
Dio biastimando, lasciò ’l corpo solo.
In piú penoso loco sta in inferno
chiunque a far male alcuno induce o tira
o non corrige, quando egli ha ’l governo.
55Quel loco è lí e quel padre martíra,
a cu’ il figliol co’ denti troncò il naso,
ascondendo nel bascio la iusta ira.—
Io credo che sarei con lui rimaso,
se non che Palla:— Assai— disse— hai veduto:
60vedi che ’l sole omai giunge all’occaso.
Sotto i piè nostri è giá Schiron venuto:
vedi che ’l tempo corre e non si folce
e non s’acquista mai, quand’è perduto.—
Quanto con lui lo star mi parve dolce,
65tanto da lui partir mi fu amaro;
quand’ella disse:— Al venir ti soffolce.—
Quivi lassai il mio amico caro,
figliol di Senso, il perugin Batista,
che ’l mondo il fece infetto, ch’era chiaro.
70Di gran piatá avea carca la vista,
quando Palla mi disse:— Perché ’l viso
porti tu basso? Or che dolor t’attrista?—
Ed io a lei:— Perciò che m’hai diviso
da colui con ch’i’ stava, o sacra dea,
75e ’l suo dolce parlar anche hai reciso.
In chiaro e bel latino a me dicea
che Dio la morte acerba altrui permette,
perché innocenza non diventi rea.—
Ella rispose:— E perché sian subiette
80a lei tutte l’etadi e da’ mortali
in ogni loco ed ogni ora s’aspette;
e perché son cresciuti tanto i mali,
che al vizioso sol peccar non basta,
se nel suo vizio molti non fa eguali.
85Come il fermento corrompe la pasta,
e l’altre poma un sol fracido melo,
cosí la prima etá l’altra poi guasta.
Questa è l’iniquitá e ’l grande scelo
far rio altrui e sé tanto peggiore,
90quanto s’appressa piú al canuto pelo.
Però provvede Dio che alcun si more
in quell’etá, che non è d’anni piena,
perché malizia non gl’imbrutti il core.
E forsi che il morir tolle la pena,
95ché destinata morte è forse impiastro
ad altri mali, a che fortuna il mena.
State contenti a ciò, che fa quel Mastro,
che regge il mondo e sa il come e ’l quando
e dispon voi sí come in cielo ogni astro.—
100Poscia tacette, ed io gli fei domando
dicendo:— O dea, un dubbio, il qual or penso,
la mente mia non vede, in lui pensando:
come il dimòn, che non ha corpo o senso,
dal foco corporal ovver dal ghiaccio
105in questo inferno puote esser offenso?—
Ed ella a me:— A molti ha dato impaccio
il dubbio, il qual il tuo parlar mi dice:
ma io dichiarerò quel che ne saccio.
Sappi ch’amor è la prima radice
110d’ogni allegrezza, e l’odio è fundamento
di ciò che attrista ovver che fa infelice.
Però alcun voler, quand’è retento
d’andar a quel ch’egli ama o che si toglia,
quanto piú l’ama, tanto ha piú tormento.
115Sappi ancor ben che quanto piú alla voglia
è odioso quel che la ritiene,
tanto piú se n’affligge e piú n’ha doglia.
Se queste mie premesse noti bene,
comprenderai il foco, onde si duole
120il dimonio in inferno e le sue pene,
ché non puote ir dov’ama e dove vòle,
e vedesi in prigione e fatto sozzo,
libero prima e piú bello che ’l sole.
E’ stava in cielo, ed ora sta nel pozzo
125di tutto il mondo e vede ogni suo velle
ed ogni suo desio essergli mozzo.
Come superbo, estima che le stelle
reggere debbia ed essere il sovrano,
fatto e creato tra le cose belle.
130E, bench’egli dal ghiaccio e da Vulcano
sensualmente non possa esser leso,
perché da lui è ogni senso strano,
niente meno dal corpo egli è offeso,
perché a quel corpo, ch’era a lui subietto,
135ora subiace e sta dentro a lui preso.
E non è maggior onta ovver dispetto,
che da quel servo, ch’è avuto in balía,
esser signoreggiato ovver costretto.
E se per arte di nigromanzia
140il demòn si costrenge ed è legato,
ben lo pò far piú alta signoria.
E perché in ogni modo, in ogni lato
e’ cerca di fuggir, quinci argumenta
che dal corpo, ove sta, egli è penato.
145Nell’aer sopra lí, dove diventa
folgore lo vapor, molti ne stanno
e molti fra la gente, ove si tenta.
Ma nell’ultimo dí dell’ultim’anno
tutti in inferno seranno serrati,
150nel gran supplicio dell’eterno affanno.—
Noi eravamo insú tanto montati,
che, nove miglia piú andando sopre,
suso nel mondo seriamo allitati,
perché quel loco solo un cerchio il copre.