Il Quadriregio/Libro secondo/XIX
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CAPITOLO XIX
Come l'autore trova Satan trionfante nel suo reame.
Dentro la porta su per una grotta
fu la via nostra insin in co’ del monte
con poca luce, come quando annotta.
Quando fui su e ch’io alzai la fronte,
5vidi Satáno star vittorioso,
ove risponde il deritto orizzonte.
Credea vedere un mostro dispettoso,
credea vedere un guasto e tristo regno,
e vidil triunfante e glorioso.
10Egli era grande, bello e sí benegno,
avea l’aspetto di tanta maièsta,
che d’ogni riverenza parea degno.
E tre belle corone avea in testa:
lieta la faccia e ridenti le ciglia,
15e con lo scettro in man di gran podèsta.
E, benché alto fusse ben tre miglia,
le sue fattezze rispondean sí equali
e sí a misura, ch’era maraviglia.
Dietro alle spalle sue avea sei ali
20di penne sí adorne e sí lucenti,
che Cupido e Cilleno non l’han tali.
Ed avea intorno a sé di molte genti,
che facean festa, e questi tutti quanti
al suo comando presti ed obbedienti.
25Ma i primi e principal eran giganti
con orgogliosi fasti e con gran corti,
con presti servidor, che avean innanti.
Alla guardia di questi arditi e forti
erano quei che son viri e cavalli,
30con li lor capitani saggi e accorti.
Su per li prati ancor vermigli e gialli
andavan donzellette e belle dame
con melodie soavi e dolci balli.
Quand’io stava a mirar tanto reame
35e vedea il gran Satán nell’alto seggio,
sí bello ed obbedito pur ch’e’ chiame,
io dissi:— O Palla, or che è quel ch’io veggio?
Giá calo ad adorarlo li ginocchi:
tanto egli è bello, e grande il suo colleggio.—
40Ed ella a me:— O figlio mio, se adocchi
per mezzo del cristallo del mio scudo
— allor mel diede ed io mel posi agli occhi,—
tu vederai il vero aperto e nudo,
e non ti curerai dell’apparenza,
45alla qual mira l’ignorante e rudo.
Ché chi è saggio risguarda all’essenza,
ché su in quella sta fundato il vero,
e non si muta ed ha ferma scienza.—
Allor mirai e vidi Satan nero
50cogli occhi accesi piú che mai carbone
e non benigno, ma crudele e fèro.
E vidi quelle sue belle corone,
che prima mi parean di tanta stima,
ch’ognuna s’era fatta un fier dragone.
55E li capelli biondi, ch’avea prima,
s’eran fatti serpenti, ed ognun grosso
e lungo insino al petto su da cima.
E cosí gli altri peli, ch’avea indosso;
ma quelli della barba e quei del ciglio,
60mordendo, el trasforavan sin all’osso.
Le braccia grandi e l’ugne coll’artiglio
avea maggior che nulla torre paia;
e le man fure e preste a dar di piglio;
e di scorpion la coda e la ventraia;
65nell’ano e presso al membro che l’uom cela
di ceraste n’avea mille migliaia.
Argo non ebbe mai sí grande vela,
né altra nave, come l’ali sue,
né mai tessuta fu sí grande tela;
70ma non atte a volar troppo alla ’nsue,
se non come l’uccello infermo e stanco,
che tenta volar alto e cade ingiue.
Serpentin era il piè deritto e ’l manco;
e diece draghi maggior che balena
75faceano a lui il seggio e ’l tristo banco.
E questo a Satanasso è maggior pena:
che sempre insú volar s’ingegna e bada,
e la gravezza sua a terra el mena.
E Dio permette ben che alla ’nsú vada;
80ché, quanto piú volando in alto monta,
tanto convien che piú da alto cada.
Io ’l vidi in piè levar con faccia pronta
dall’alto seggio suo, e con orgoglio
udii ch’e’ disse:— O Dio, alla tua onta
85sopra gli astri del cielo or salir voglio:
io intendo prender l’uno e l’altro polo
al tuo dispetto, ed ora il ciel ti toglio.—
Cosí dicendo, alla ’nsú prese il volo:
ben diece miglia insú s’era condotto,
90quando ’l vidi calar al terren sòlo
a trabocconi e col capo di sotto,
e come un monte fece gran ruina.
E, poiché ’n terra fu col capo rotto,
la faccia verso il ciel volse supina,
95e fe’ le fiche a Dio ’l superbo vermo
e biastimò la Maiestá divina.
Poi si levò sí come fusse infermo,
e verso il suo gran seggio mosse il passo
con mormorio e dispettoso sermo.
100E lí a seder se puse fiacco e lasso;
e menacciava Dio, alzando il mento,
che fe’ che ’l suo volar li venne in casso.
Quando ’l vidi cadere, io fui contento,
perché conobbi che quanto piú sale,
105tanto egli ha piú ruina e piú tormento.
Tenendo io ’l bello scudo per occhiale,
vidi i neri giganti e lor palazzi,
pieni d’invidia, d’ira e d’ogni male.
Vidi mutati in pianti lor solazzi
110e che smongono altrui e sono smonti
dalli centauri e dalli lor regazzi.
Vidi che li gran sassi e li gran monti
conducean sopra sé per far la torre,
sopra la qual da loro al ciel si monti.
115Sí come, quando vòlsono il ciel tôrre,
che pusono Ossa sopra il gran Peloro,
talché Iove gridò:— Vulcan, soccorre!—
cosí in quel pian s’ingegnan far coloro;
ma, perché la lor possa non seconda,
120ritorna sempre invano il lor lavoro.
Ed ogni volta che la voglia abbonda
piú che la possa, avvien che mal viaggio
faccia l’impresa e che ’l fattor confonda.
Però colui che è prudente e saggio,
125perché l’impresa non gli torni invano,
fa che la possa sempre abbia vantaggio.
Elli facean le torri nel gran piano,
e chi portava sassi e chi la malta,
chi ordinava e chi facea con mano.
130Io vidi una di quelle andar sú alta
sin dove del vapor fa pioggia il gelo,
tal ch’io dicea fra me:— Giá ’l cielo assalta;—
quando Iove percosse su da cielo
con un gran tuono, e la torre e ’l gigante
135mandò a terra il fulgoroso telo.
Per parlarli, ver’ lui mossi le piante
e dissi:— Chi se’ tu, caduto a terra
di sí gran torre col capo dinante?
— Io son Fialte, e fui nella gran guerra
140— rispose,— che facemmo contra Dio,
che le saette contra noi disserra.
Cosí le grandi imprese e ’l lavorio
fanno il gran signor sí com’io feci,
e poi caggiono a terra sí com’io.
145Cadde Alessandro, il gigante de’ greci,
cadde Priamo e cadde la gran Troia,
che combattuta fu per anni dieci.
Cadde Pompeo e Scipio, la gran gioia
dell’alta Roma e Cesare ed Agosto,
150Dario e Assuero con pena e con noia.—
Io averia al suo detto risposto,
se non che a me apparve un altro obietto,
al qual lo sguardo mio mi venne posto.
Io vidi che Satán di mezzo al petto
155un serpentello con tre lingue scelse,
che parea pien di tosco maladetto.
Tra’ giganti el gittò quando lo svelse;
ed egli il suo venen tra loro sparse,
ch’era piú ner che non son mézze gelse.
160Allora ogni gigante un drago farse
cominciò dentro; e, l’uman quindi tolto,
e’ fuor nel viso sí com’uomo apparse.
Ma non si può giammai tenere occolto
amor, né invidia o colpa ch’aggia il core,
165che non appaia alquanto su nel volto.
L’imago dentro cominciò di fuore
appalesarsi e mostrarsi in la faccia;
e questo fe’ tra lor guerra e romore.
Sí come quando il mar prima ha bonaccia
170e poi si turba e tutto in sé ribolle,
e l’acque, che son sotto, sopra caccia,
e pare ogni onda grande quanto un colle,
quando la luna solo il fratel mira,
e tutto il lume suo a noi ne tolle;
175cosí facean color commossi ad ira,
e davansi fra sé li colpi gravi,
e con grand’onte l’un l’altro martíra.
Non fecer mai abeti sí gran travi,
come eran le lor lance lunghe e grosse,
180né mai sí grandi legni portôn navi.
Pensa, lettor, che quei c’hanno gran posse,
dánno gran colpi, e cosí anche credi
che, quando coglie, han piú gravi percosse.
E poscia a maggior fatti io mossi i piedi;
e, poco andato, tanto mi stancai,
185ch’a riposarmi giú in terra mi diedi,
insin ch’apparson li raggi primai.