Il Raguet/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA I

Aliso e Ermondo.

Aliso.   Signore, io credo aver fatto un bel colpo.

È arrivato a l’osteria, ove siamo,
un forastier che forse è incamminato
a qualche fiera, poiché roba a mondi
ha seco: abiti, arnesi sí da uomo
che da donna. l’ho visto quasi tutto,
perché ho fatta amicizia con un suo
servo ch’è barbagian di prima riga.
Fra l’altre cose mi ha mostrato questo
ritrattino che, se non fallo, egli è
di quella figlia che ha da esser vostra.
Ermondo.   Lascia ch’io ’l vegga: è dessa, è senza dubbio
Ersilia, e ben espressa. Or come l’hai
tu in mano?
Aliso.   In mano l’ho, perch’ora è mio,
cioè vostro. Offersi a colui quattro scudi,
dicendo che potea fra tanto morbo
di scatolette e di custodie dire
che si è smarrito e non si trova piú.
Quegli accettò il partito, ed il ritratto
sta per voi.

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Ermondo.   Ben facesti, e verrá forse

occasion di farne uso. Ma come
questo ritratto avea chi vien di fuori?
Aliso.   Forse de le piú belle del paese
qualche suo amico gli mandò le effigie,
poiché altre tali tavolette c’erano
che non abbiamo aperte, ma ch’io credo
esser ritratti. Eccovi Ersilia appunto.

SCENA II

Ersilia, Despina, e detti.

Ermondo.   Damosella gentil, come si porta?

Ersilia.   Chi è che porta?
Auso (ad.   Ersilia).
come si sente?
Ersilia.   Benissimo.
Ermondo.   Io sono
per chiedervi un favore e sperar voglio
che l’accordiate incessantemente.
Ersilia.   Che vorrá egli mai, che di continuo
debba durare?
Aliso.   Eh no, vuol dire: súbito.
Ermondo.   Io penso d’ora innanzi di trattare.
Despina. (da sé) Da galantuomo o da furbo?
Ermondo.   E però,
fuor dell’albergo avendo preso stanze,
la prego molto di onorare il primo
trattamento e venire il landimani
insieme col signor Anselmo e con
madame Idalba per mangiar la suppa.
Despina.   Le ha prese per gazotti.
Aliso.   Ma invitare
a desinar passerebbe ora per

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poca creanza.

Ersilia.   A tal richiesta io
non posso far risposta; convien parli
col signor padre, il quale credo senz’altro
che non assentirá.
Ermondo.   Deh, non mi nieghi
questo favore! Perché lo conceda,
abbraccierò i suoi ginocchi.
Despina.   Io non ho
saputo mai che fossero i ginocchi
fra le parti abbracciabili.
Ermondo.   Io farò
che non resti servita trivialmente,
non le darò cibi plebei: guazetti,
manicaretti, intingoli, stufati,
torte, pasticci, polpette, sfogliate,
gelatine, animelle, ciambellette;
io le darò sagú, parsí, gattò,
cotelette, crocande
, e niente cotto
sará mai nello spiedo, ma allo spiedo,
anzi alla brocca. Non farò la mala
creanza mai di far portare in tavola
un cappone, se non in frigandò;
non mangerá frittelle, né presciutti,
né vii vivanda d’anitra, ma sempre
canár, sambón, bigné. Non mancherá
cressón, che passa per saporitissimo,
perché finisce in on. Che dirò poi
del deserto?
Despina.   Anderan dunque al deserto?
Aliso. (a Despina) Chiamati cosí lo sparecchio, allorché
si portano le frutta.
Ermondo.   Graziosissimo
sará questo, perché finge una danza
di marionetti.
Aliso.   Vuol dir: burattini.

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Ermondo. Che dirò poi de’ vini? Non vedrá

se non botteglie.
Aliso. (a Despina)   Cioè bottiglie, bocce,
caraffe. Non udrá che Frontignac
e sciampagna e Bordò.
Ersilia.   Ma i nostri vini
saran dunque banditi?
Aliso.   Si, signora.
Ersilia.   Ma se sono miglior?
Aliso.   Che importa questo?
Non si cerca se non che costi molto;
l’ambizione ha da ber, non la gola.
Ersilia.   Non si potrebbe incivilir, dicendo:
Santo, Moscatellác, Monpulcianò?
Aliso.   Quando non costi qual se fosse balsamo,
non sará mai al caso; ed a l’incontro,
quando costerá assai, foss’anche insipido,
troverá sempre chi ’l dirá exce1lán.
Ermondo. In fatto di cucina io non ho tema
di fallare; son pien di buone massime,
son allevato in buon paese. Un giorno
sovvienmi ch’imparai molto, trovandomi
a sontuoso e nobile convito.
Applaudia ognuno a la delicatezza
de le vivande; ma un soggetto grave
che m’era appresso, raccoltosi in atto
serio: — E pur (disse) signore, può essere
che tutto questo oggi non vaglia un fico. —
— Come (diss’io) che ciò ch’or mangio e trovo
sí buon non sia buon? — Cosí è (rispose)
perche può darsi che sien giá sei mesi
che di questi mangiari né pur uno
a Parigi si faccia piú. I’ l’ho detto
piú volte a tutti: per assicurarsi
e non c’è altra via che di tenere un cuoco
residente a Parigi, il quale avvisi

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di tempo in tempo.

Ersilia.   Nel paese vostro
si trovan funi per legare i matti?
Ermondo. In somma, Ersilia, se mi fate grazia
resterete gustata e ci farò
essere anche un mio amico di riguardo,
col quale ho avuto l’onor d’ubriacarmi
piú volte, ed è giocator singolare.
Ersilia.   O signore, io non giuoco mai.
Ermondo.   S’intende
di flauto, e gioca tutto a libro aperto.
Despina.   E gli altri a libro chiuso?
Auso (a Despina)   Vien a dire
che suona tutto all’improvviso.
Ermondo.   E se
rinfrescar si vorrá con un sorbetto,
non d’ampomole, qual donna ordinaria,
ma l’averá di framboesie.
Ersilia.   Io tróvomi
cosí ripiena de’ squisiti cibi
ch’ella mi ha messi innanzi, che m’è forza
con sua licenza d’ir a passeggiare.
Ermondo. E fra tanto io n’andrò da l’altra parte.

SCENA III

Anselmo e Idalba.

Anselmo.   Voi dite bene, cosí credo anch’io;

se ha parlato cosí, quegli è lo sposo
d’Ersilia, e non il primo.
Idalba.   Piú che penso
piú mi par veder che cosí è.
Ermondo è grazioso, è costumato,
ma non è quello.

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Anselmo.   Mi par ch’ei le vada

molto a genio e non abbia dispiacere
che resti in libertá. Mostra egli d’essere
assai ricco; però, essend’ella in grado
d’accompagnarsi, può pensarci.
Idalba.   Oh! questo
ricerca prima molte informazioni:
indole, facoltá, costumi.
Anse imo.   O se
tante perquisizioni ognun facesse,
pria di venire a tal passo, ben pochi
matrimoni farebbonsi.
Ioalba.   E piú ch’altro
convien prima accertar s’egli è o non è
il destinato a vostra figlia.
Anselmo.   Questo
si fará chiaro fra poco, perch’io
non voglio piú tal incertezza; il mio
decoro e quel de la figlia non vuole
gl’intimerò che s’è Flavio da Modona,
si manifesti; e se non è, ritirisi,
né in casa mia non venga piú.
Idalba.   Saviamente.
Io, se volete, sarò pur con voi
a stringerlo; e possiamo farlo subito,
poich’è nell’orto e suol sedere al fonte.
Vado a condurlo qua, ché questo sito
appartato è piú ch’altro opportunissimo
a parlar di negozi.
Anselmo.   Io qui v’attendo,
perché volete far grazia.
Idalba.   Vedete
voi quell’allocco che vien qua? È un famiglio
del nuovo forastiero, me l’ha fatto
conoscer ora Aliso; procurate
di ricavar notizie anche da lui.

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SCENA IV

Anselmo e Lippo.

Anselmo.   Buon giorno, galantuom; parmi che siate

forastiero in Livorno.
Lippo.   Signor si
e sono servitor del mio padrone.
Anselmo.   Cosí mi penso; ma il vostro padrone
come si chiama?
Lippo.   Non si sa: perché —
secondo tempi e secondo occasioni.
Anselmo.   Come a dir? forse va cambiando nome?
Lippo.   Non mai, la non m’imbrogli: egli si chiama
Alfonso Corbi ed è onoratissimo
e virtuoso, fa composizioni
lunghe e corte e sa legger francamente.
Anselmo.   Ha egli moglie?
Lippo.   Non l’ha ch’io sappia.
Anselmo.   E credesi
la voglia prender?
Lippo.   Forse sí e forse no.
Anselmo.   Di qual cittá è egli?
Lippo.   O questo poi,
nol dirò mai.
Anselmo.   Non vien da Modona?
Lippo.   Chi glie l’ha detto?
Anselmo.   E quando si partí,
non partí da sua casa?
Lippo.   Chi ne dubita?
Ma di qual parte sia, non voglio dire;
e perché non m’interroghi, vo’ girmene,
non vo’ parlar piú con lei.

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SCENA V

Anselmo.

  Il babbuino

ha mezzo confessato senza corda.
Poco è da dubitar, che quest’Alfonso
non sia in effetto Flavio e non sia
il mio genero nuovo; tuttavia
in affar cosí grave si conviene
andar col piè di piombo. Or ecco Idalba
che mi conduce l’amico.

SCENA VI

Idalba, Ermondo e Anselmo.

Idalba.   Signore,

eccovi Ermondo, al quale ho detto che
gli parlerete qui d’affar gravissimo.
Ermondo. Io non so quali viste di presente
ell’abbia, ma io son presto ad ubbidirla.
Anselmo.   Riverito signore, ella ben vede
in qual modo da me e da la famiglia
tutta sia stato accolto; ella ben vede
che le si dá libero accesso in casa
e a piacer conversa anche con la
fanciulla nubile; io credo però
d’aver diritto di obligarla a dirmi
con veritá finalmente il suo vero
nome.
Ermondo.   Ma dunque non l’ho detto? Dunque
crede ch’io menta? Io sono Ermondo Alfani;

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di me, de’ miei, dell’esser mio ben può

facilmente trovar riscontri certi.
Mi fa restar tutto sorpreso e ontoso.
Idalba.   Signore, non si offenda; abbiamo indizi
grandi ch’ella si celi e per suoi fini
si finga un altro e non voglia scoprirsi.
Ermondo.   Comán un altro? Dunque io non ci
sarò piú e sará venuto un altro
ne la mia pelle in cambio mio? Che? forse
per quest’abito unito. . . . .
Anselmo.   Unito, o
separato, convien ci dia sicure
pruove de l’esser suo.
Ermondo.   Ben vedo come
perdo il mio tempo.
Anselmo.   Perda il suo, o perda
quel d’altri, la faccenda sta cosí.
Ermondo.   Mi farebbe giurar.
Idalba.   Questo vuol dire
bestemmiare, imparailo l’altra sera.
Anselmo.   A le corte: ha ella lettere d’Ortensio?
Ermondo.   Io le dimando perdóno.
Anselmo.   Ha ella lettere?
Ermondo.   Io le dimando perdón.
Anselmo.   Le perdono
per tutto un anno, ma risponda ormai.
Idalba.   Con quel suo modo viene a dir di no.
Anselmo.   Ella in fine non fu mai Flavio Trinci?
Ermondo.   Che il diavolo m’amporti, se ’l conosco.
Anselmo.   Gli credo, dice il vero, non è quello;
era soverchio far tante ricerche,
bastava ciò che disse il servitore
de l’altro. Or dunque mi convien parlare
in altro tuono: Signor mio gentile,
da ora innanzi vi contenterete
di non metter piú il piede in casa mia

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e di astenervi ancor dal ragionare

a mia figliuola, se in questo passeggio
a sorte la vedrete. Finor preso
séte stato in iscambio. È ricercata
per consorte da un altro; e ciò assai prima
che voi compariste; ond’è ben chiaro
che non è di dover guastare i fatti
suoi, né voi credo il vorreste.
Ermondo.   Ben dura
ed amara è la nuova ch’or mi dá.
lo con Ersilia avea l’istesso fine
di maritaggio e non per vista d’utile,
ma per piacer d’alliarmi sí bene.
Anselmo.   Tant’è, avete inteso.
Ermondo.   Ella mi fa
gran torto, perch’io ho amata questa giovane
assai prima del mio venire or qua.
E se nol crede, eccogliene una pruova
che non ammette replica: è assai tempo
ch’io feci far questo portreto e serbolo
fra le piú care cose.
Anselmo.   O che vegg’io!
Questo è il ritratto di mia figlia Idalba,
questo è il ritratto ch’io mandai a Ortensio
quando trattava e ch’ei mi scrisse avere
consegnato a lo sposo. Or finalmente
con bel modo si scuopre. O signor Flavio,
perché mai darci sí lungo martello?
Idalba.   Mi faccio serva al signor Flavio anch’io.
Ermondo.   Che Flavio? quai sottise.
Anselmo.   Quanto ha
ch’è partita da Modona?
Ermondo.   Che Modona?
Anselmo.   Come sta Ortensio?
Ermondo.   Che Ortensio? Costoro
vogliono farmi impazzare.

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Anselmo.   Or perché ancora

sta duro? Venga ormai, ché la finzione
non cade piú a proposito.
Ermondo.   Finzione?
Son io dunque uomo finto? o dentro me
sta qualcun altro? Che diable succede?
Dovrebbe farsi segnar l’uno e l’altra.
Idalba.   Vuol dire cavar sangue; me lo disse
l’altro dí, ma bisogno n’ha egli.
Anselmo.   Appunto
io temo, Idalba, ch’egli abbia del matto.
Perché star forte nel celarsi, quando
mi ha dato un controsegno indubitabile?
Tuttavia sospendiamo ancora. Chi
sa qual fine in sí fatta stravaganza
possa aver? Secondiamo ancora un poco
suo bell’umore e lasciam che la scena
corra. Ritratto, amico, ciò che prima
vi dissi, e vi lascio come prima
padron di casa.
Ermondo.   Oh questo si è ben detto!
Con questo sí si mostra uomo abile!
Vo’ gire in cerca d’Ersilia; io peno,
quando non miro il suo vago visaggio.