Il Re Giovanni/Atto primo

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Atto primo

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William Shakespeare - Il Re Giovanni (1597)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto primo
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IL RE GIOVANNI




ATTO PRIMO




SCENA I.

Northampton. — La sala del Consiglio nel palazzo regio.

Entrano il re Giovanni, la regina Elinora, Pembroke, Essex, Salisbury ed altri, insieme con Chatillon.

Gio. Ora, signor di Chatillon, parlate; che chiede da noi la Francia?

Chat. Quel sire vi saluta, e dice per bocca mia alla Maestà, alla simulata Maestà d’Inghilterra...

Elin. Strano principio... Maestà simulata!

Gio. Silenzio, buona madre; ascoltiam l’ambasciatore.

Chat. Filippo di Francia, disposando la causa e i giusti dritti del figlio di Gefredo, tuo fratello estinto, Arturo Plantageneto, reclama in nome della legge questa bella isola e il suo territorio, l’Irlanda, il Poitiers, l’Anjou, la Turarne e il Maine, e vuole che tu deponga la spada con cui t’afforzi in un ingiusto potere, e la rimetta fra le mani del giovine Arturo, tuo nipote, e tuo vero legittimo sovrano.

Gio. E che seguirà ov’io rifiuti?

Chat. Una guerra implacabile e sanguinosa che convaliderà quei diritti a cui ti opponi con violenza.

Gio. Avremo guerra per guerra, sangue per sangue, forza per forza. Bendi questa risposta alla Francia.

Chat. Ebbene, abbiti dunque per mia bocca la sfida del mio re. Qui finisce la mia ambasciata. [p. 8 modifica]

Gio. Recagli ora la mia e partiti in pace da questi luoghi. — Tu sarai agli occhi della Francia il lampo della folgore; imperocchè prima che tu abbia potuto annunziare ch’io v’entrerò, rimbombo del mio cannone vi si farà intendere. Animo, parti, sii la tromba nunziatrice di nostra vendetta e il foriero sinistro della vostra comune ruina. — Lo si riconduca con onore fuori de’ miei Stati. Pembroke, vegliate a ciò. — Addio Chatillon.

(escono Chatillon e Pembroke)

Elin. Ebbene, figlio mio? Non vel dissi io sempre che l’ambiziosa Costanza non troverebbe pace, finchè non avesse sollevata la Francia e il mondo per sostenere le pretese del figlio suo? Ecco quello che si sarebbe potuto prevenire. Si sarebbe potuto conciliar con mezzi facili e amichevoli la contesa, che è ora forza venga decisa dall’urto di due possenti regni, coll’esito incerto e sanguinoso delle battaglie.

Gio. Abbiamo per noi l’alto vantaggio del possedimento e del diritto.

Elin. Dite del possedimento più che del diritto; ovvero converrà confessare l’onta vostra e la mia. Sì, la mia coscienza vi mormora qui all’orecchio ciò che niun altro, tranne il Cielo, voi ed io, m’udrà pronunziare.

Entra lo Sceriffo della provincia di Northampton e parla sommessamente con Essex.

Elin. Mio sovrano, occorre la più strana controversia che mai udissi suscitata in questo paese. Le due parti chieggono che le giudichiate: le farò io comparire?

Gio. Fatelo. — (lo Scer. esce) Le nostre abbadie e i nostri priorati pagheranno le spese di questa guerra. — (rientra lo Sceriffo con Roberto Faulconbridge e Filippo suo fratello bastardo) Chi siete voi?

Fil. Vostro fedel suddito, generato nella provincia di Northampton e figlio primogenito, a quel che credo, di Roberto Faulconbridge, soldato che Riccardo Cuor-di-Leone, colla mano sua che dispensava l’onore, fece cavaliere sul campo di battaglia.

Gio. Chi sei tu?

Rob. Il figlio ed erede di quel medesimo Faulconbridge.

Gio. Egli è il maggiore, e tu vuoi esser l’erede? Voi non derivate dunque entrambi da una medesima madre?

Fil. Sì, da una madre stessa, potente re, ciò è ben noto; e voglio anche credere da un medesimo padre: ma per la certezza di tale verità la lascio al Cielo e alla mia genitrice; quanto a me, ne dubito, come ne potrebbero dubitare tutti i figli degli uomini. [p. 9 modifica]

Elin. Vergogna a te, villano! Tu deturpi tua madre e ferisci il suo onore con sì fatta diffidenza.

Fil. Io, signora? No: io non ho alcun interesse a farlo: è questa la pretesa di mio fratello, e non la mia. S’ei può fornirne prova, mi fa cader dalle mani almeno cinquecento belle lire sterline di reddito annuo. Conservi il Cielo l’onore a mia madre e a me la eredità.

Gio. Rozzamente franco è costui! E perchè dunque, se l’altro nacque dopo di te, pretende egli alla tua eredità?

Fil. Non so il perchè, se non è per aver le mie terre. — Una volta ei m’ha insultato col nome di spurio. — Se io sia nato legittimo o no, è cosa di cui lascierò rispondere la madre mia; ma ch’io sia, mio principe, nato tanto bene quanto lui (Dio accordi pace alle ossa che si presero la pena di generarmi!) è cosa che potrete conoscere comparando i nostri volti. Giudicate voi stessa se fu il vecchio sir Roberto che ne mise al mondo entrambi, e se è possibile ch’ei sia nostro padre, ed io suo figlio. Oh vecchio sir Roberto, inginocchiato, io ringrazio il Cielo di non rassomigliarti.

Gio. Che strano pazzo ne fu qui mandato?

Elin. Havvi nel suo viso qualcosa alla Cuor-di-Leone; di ciò vi è pure nel suo accento e nel suono della sua voce. Non vedete voi alcuna somiglianza con mio figlio nell’alta e forte persona di costui?

Gio. I miei occhi lo hanno bene osservato, e lo trovano in tutto simile a Riccardo. — Giovine, parla: qual cosa ti muove a reclamare le terre di tuo fratello?

Fil. Il non aver egli che un mezzo volto come mio padre, e il volere per quel mezzo volto tutti i suoi possedimenti. Ad un mezzo volto cinquecento lire ogni anno!

Rob. Mio grazioso sovrano, allorchè il mio genitore vivea, vostro fratello molto se ne servì...

Fil. Sta bene: ma questo non è un titolo per carpir le mie terre. Quel che dovete spiegare, è come ei si servisse di mia madre.

Rob. (continuando) E un giorno lo spedi ambasciatore in Alemagna per trattarvi con quel sovrano bisogne gravi riferentisi a quei tempi. Durante la sua lontananza ei fe’ soggiorno in casa di mio padre, e quali fossero i di lui progressi e la sua vittoria, arrossisco in dirlo: sebbene la verità sia verità. Vasti mari s’estendevano fra mio padre e mia madre adunque, come molte volte lo intesi dire al genitore mio stesso, allorchè il robusto garzone che lì vedete fu generato: onde mio padre col suo testamento, [p. 10 modifica]fatto in punto di morte, lascia le sue terre a me, dichiarando costui figlio di mia madre, non figlio suo; o, se suo, venuto al mondo quattordici intere settimane prima del termine stabilito dalla natura. Dopo ciò, mio buon sovrano lasciatemi possedere quello che è mio, conformemente agli ultimi voleri di lui che mi ha procreato.

Gio. Giovine, tuo fratello è legittimo. La sposa di tuo padre lo concepì dopo il matrimonio, e se essa violò i talami, tal fatto la concerne sola, ed è ventura a cui tutti i mariti si assoggettano nel dì in cui menano moglie. — Rispondimi: se mio fratello, che tu dici aver presa la pena d’ingenerar colui, reclamato avesse da tuo padre questo figlio per suo, tuo padre avrebbe potuto ritenerlo contro gli sforzi dell’intero mondo, e il torello uscito dai fianchi della sua giovenca, sarebbe rimasto perpetuamente seco: onde, se essendo figlio di mio fratello, mio fratello non poteva fondarvi sopra ragione, tuo padre, quand’anche suo figlio non fosse, non aveva diritto di cacciarlo. Questo argomento tronca il nodo della quistione. Il figlio di mia madre ha procreato l’erede del padre tuo; l’erede del padre tuo deve avere la sua eredità.

Rob. Ma il volere del mio genitore non sarà pesato per nulla nella bilancia?

Fil. Esso non ha più forza, amico, per ispossessarmi, di quello che non ne avesse, credo, per pormi al mondo.

Elin. Che preferiresti tu, o di essere un Faulconbridge, simile a tuo fratello, per avere la tua eredità, ovvero di essere il figlio riconosciuto di Cuor-di-Leone, possessore della tua sola grandezza personale senza un pollice di terra?

Fil. Madonna, se mio fratello avesse la mia persona ed io la sua; se le mie due gambe fossero quei due stecchi, le mie braccia quelle due intirizzite anguille, il mio volto sì magro e sparuto da non ardire di pormi una rosa all’orecchio, per tema che non mi si dicesse: mirate dove va quella moneta da tre denari!1 e che a prezzo della sua persona dovessi essere l’erede di tutto questo regno, vuo’ non mai più escire da questo luogo, se nol cedessi tutto per riprendere questo mio volto: per nulla al mondo vorrei essere sir Roberto.

Elin. Mi piaci. — Vuoi tu abbandonare la tua fortuna, cedere le tue terre e seguirmi? Sono guerriera, e sto per imbarcarmi verso Francia.

Fil. Fratello, prenditi i miei beni, io seguo la mia ventura: [p. 11 modifica]il tuo volto ti ha fatto guadagnare cinquecento sterline di reddito all’anno, e nondimeno quel tuo volto a cinque soldi sarebbe venduto assai caro. — Madonna, vi seguirò fino a morte.

Elin. Vorrei che arrivaste prima di me in Francia.

Fil. È costume nel nostro paese di cedere il passo ai nostri superiori.

Gio. Qual è il tuo nome?

Fil. Filippo, mio signore: Filippo, primogenito della moglie del buon vecchio sir Roberto.

Gio. Oramai porta il nome dell’uomo di cui hai le forme. Piega il ginocchio, Filippo, e rialzati maggiore. — Sorgi, sir Riccardo Plantageneto. (lo fa cavaliere)

Fil. Fratello dal lato di mia madre, datemi la vostra mano: mio padre mi ha conferito l’onore, il vostro vi diè terre: ora sia benedetta l’ora del dì o della notte in cui fui generato, assente sir Roberto.

Elin. Egli ha tutti i sentimenti di Plantageneto! Io sono tua avola, Riccardo: chiamami con questo nome.

Fil. Madonna, voi lo siete per caso e non per natura. — Ebbene? Quegli che non osa uscire il dì, conviene esca la notte: possedere è tutto, qual che si sia il modo; da vicino o da lontano ben mirò colui che ottenne il prezzo. Sono quel che sono, in qualunque guisa sia stato generato.

Gio. Vattene, Faulconbrindge: ora i tuoi occhi son paghi. Un cavaliere senza terre fa di te un signore possidente. — Venitene, madonna, e venite voi pure, Riccardo: convien partir per Francia, per Francia: ed abbiamo indugiato anche troppo.

Fil. Fratello, addio; buona fortuna a te che procreato fosti nelle vie dell’onestà, (tutti escono, tranne il Bastardo) Così ho fatto un passo di più nel cammino dell’onore; ma quanti piedi di terra io perdo in pari tempo! Non vale. Ora d’una meretrice posso fare una lady. Salve, messer Riccardo..... Gran mercè amico......... — E se il tuo nome è Giorgio, lo chiamerò Pietro: perocchè l’onore della nuova dignità fa dimenticare i nomi degli uomini. Sarebbe troppo avventurarsi, arrischiar troppo il permettere ad un vassallo di conversare con voi; ed è adesso, caro viaggiatore..... che assiso al desco, quando il mio stomaco di cavaliere sarà ben pasciuto, ch’io balbutirò sconnesse parole per interrogarvi sui vostri viaggi in paese estero2. — Mio caro [p. 12 modifica]signore, comincierò io, nettandomi i denti, adagiato sopra mia poltrona, vorrei pregarvi..... Questa è la mia dimanda a cui segue come A B C la risposta: Oh signore, parato ai vostri servigi; tutto a voi devoto. — No, mio caro ospite, dice la dimanda: son io, io, mio caro amico, che non anelo che a servirvi. E così, prima che la risposta sappia quello che vuol l’inchiesta, imbandisce un lauto pasto di amabili cerimonie, e mi parla di Alpi, di Apennino, di Pirenei, del fiume Po, onde il racconto vi guida fino al termine della mensa. Tale è il vivere degli uomini di corte, e ben si addice a un’anima elevata e fatta per salire come la mia. Degenere figlio del tempo è colui che non sa profittare dell’esperienza e delle osservazioni, e non segue il suo secolo nelle usanze, nei propositi, nei modi, inetto a proferire la seduttrice menzogna, o a fare il racconto maraviglioso che solletica il timpano dei vecchiardi. — Io non praticherò quest’arte per ingannare; ma l’apprenderò e l’impiegherò per evitare che mi si inganni. Quest’arte seminerà di fiori i gradini su cui salirò. Ma chi viene a me con passi sì concitati, e in abito da Amazzone? Qual donna corre sì veloce? non ha essa un marito che si prenda il fastidio di suonare un corno innanzi a lei? Oimè, è mia madre. — (entrano lady Faulcondbridge e Giacomo Gurney) Ebbene, buona signora, qual cosa vi induce a correr tanto?

Faul. Dov’è quel miserabile tuo fratello? Dov’è colui che mi diffama?

Fil. Mio fratello Roberto? Il figlio del vecchio sir Roberto? Il gigante Colbrand, il potentissimo?3 È il figlio di sir Roberto che cercate?

Faul. Il figlio di sir Roberto! Sì, irriverente garzone, il figlio di sir Roberto. Perchè insulti tu alla memoria di quel cavaliere? Egli è il figlio di sir Roberto come tu il sei.

Fil. Giacomo Gurney, vuoi tu lasciarci soli un istante?

Gur. Di buon cuore, Filippo.

Fil. Filippo? M’ha in conto di zingano costui?..... Giacomo, corrono voci pel mondo..... fra poco ne saprai di più. (Gurney esce) Madonna, non mai io fui figlio del vecchio sir Roberto. Sir Roberto avrebbe potuto mangiare nel venerdì santo la parte che ebbe alla mia concezione, senza guastare il digiuno. Sì, sir Roberto lo poteva. Orsù, di buona fede, confessate la verità; potè egli generarmi? No; sir Roberto nol potè. Conosciamo [p. 13 modifica]le sue produzioni: onde, mia buona madre, parlate: a chi son io debitore di queste membra nervose? Imperocchè sir Roberto non era uomo da far simili gambe. (accennando le proprie)

Faul. Cospirasti tu ancora adunque con tuo fratello contro di me? tu che per tuo bene dovresti assumere la difesa del mio onore? A che intende questo disprezzo, indomabile ribaldo?

Fil. Cavaliere, cavaliere, buona madre, e non ribaldo. Sì, sull’onor mio, ebbi la piattonata che fa i cavalieri, e ne porto il livido sulla spalla. — Madre mia, io non son figlio di sir Roberto: ho rinunziato a sir Roberto e a’ suoi dominii: la legittimità, il nome, tutto è annichilito. Perciò, tenera genitrice, degnatevi farmi conoscere mio padre, che sarà stato, spero, un valentuomo. Chi fu esso?

Faul. Hai tu rinnegato il nome di Faulconbridge?

Fil. Con tanto cuore con quanto rinnego Satana.

Faul. Il re Riccardo Cuor-di-Leone fu tuo padre. Sedotta da lunghe e vive istanze, gli accordai alfine un posto nel talamo nuziale. Voglia il Cielo perdonarmi la mia offesa! Tu fosti il frutto di fallo sì caro, e ch’io non commisi che vinta da una forza, che trionfò di tutti gli ostacoli!

Fil. Per questa luce del dì, se dovessi ancor nascere, signora, non desidererei, più nobile genitore. Hannovi certi falli che, sulla terra almeno, meritano scusa, e tale è il vostro. La vostra debolezza non fu follìa da insensata. Convenne ben dargli il cuore in piena balìa, come tributo sottomesso all’impero invincibile dell’amore, la di cui potenza irresistibile trionferebbe del più intrepido leone. Il leone non seppe proteggere il suo real cuore dalla mano di Riccardo, e l’uomo il di cui braccio strappa il cuore ai re delle selve4 può facilmente domare quello di una femmina. Sì, mia madre, vi ringrazio grandemente del padre che mi avete dato. Chiunque vive e oserà dire che commetteste un fallo concependomi, sarà da me mandato all’inferno. — Venite signora, vuo’ presentarvi alla mia famiglia. Tutti converranno che se il giorno in cui Riccardo mi generò voi gli aveste detto no, sarebbe stata una colpa, e chiunque dirà che colpa vi fu, dirà una menzogna.     (escono)


Note

  1. Nelle monete da tre denari stava effigiata una rosa.
  2. Nei tempi a cui questo dramma si riferisce una delle principali ricreazioni dei grandi era il racconto dei viaggiatori: di qui 11 volgar proverbio: buono è viaggiatore dopo il pranzo.
  3. Colbrand, gigante Danese che, avendo sfidati tutti gl’Inglesi a battaglia, fu ucciso dal conte di Varwick sotto il regno di Atlestano.
  4. Allusione a un’antica romanza, secondo la quale Riccardo avea ottenuto il nome che lo rende famoso, divellendo il cuore ad un leone al furore del quale lo aveva fatto esporre il duca d’Austria.