Il Re della Prateria/Parte seconda/12. Il tradimento
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Capitolo Decimosecondo.
Il tradimento.
Il calumet, al quale gl’Indiani dell’America settentrionale annettono una grande importanza, non è altro che una pipa di dimensioni per lo più gigantesche, poichè sovente la sola cannuccia misura undici piedi, ossia più di tre metri.
Si conserva religiosamente e si tramanda di generazione in generazione, ed il perderla equivarrebbe alla perdita della bandiera della tribù, se non di più! Vi sono perciò degli uomini appositamente incaricati, i quali devono avere una grande cura di questa pipa e badare soprattutto che non tocchi mai la terra, poichè se ciò accadesse, attirerebbe sulla tribù qualche grave sciagura.
L’indiano non comincia un consiglio od una funzione religiosa o non prende una deliberazione, se prima non ha fumato il calumet. Se deve trattare con uno straniero, devono fumare insieme, senza di che si considererebbero nemici mortali.
Al comando dato dal Sackem il Saltatore, l’hachesto o porta-pipa, che è anche il banditore pubblico della tribù, entrò recando la pipa adorna di perle di vetro e di chiodi d’oro ed un bastoncino, in cima al quale bruciava un frammento di legno d’ocote e porse tutto ciò al capo.
Questi, dopo essersi assicurato che era carica di moriche, che è una specie di tabacco forte messo in infusione nell’acquavite, poi fatto seccare al sole e mescolato con tabacco ordinario estratto dal sommaco, l’accese con tutta gravità e aspirò tre boccate pronunciando il nome di Wacondah,1 e gittando il fumo verso i quattro lati dell’orizzonte.
Compiuta quell’importante cerimonia, fece passare la pipa a Sanchez, il quale, dopo alcune boccate, la diede al marchese.
Quando tutti visi-pallidi, sotto-capi e vecchi ebbero aspirato alcune boccate, il Sackem riprese la parola.
— Mio fratello viso-pallido, ora che ha fumato coi suoi fratelli rossi il calumet di pace, può parlare; ma badi che la sua lingua non sia biforcuta; altrimenti non risponderò più della sua capigliatura! Ho detto! —
Dopo quell’esordio poco incoraggiante, il Sackem si assise sui talloni ed incrociò le braccia sul petto in attesa delle parole di Sanchez.
— Mio fratello il Saltatore, — disse il messicano, — diffida ancora di noi ed ha torto. Noi siamo venuti nel campo degli Apachi con intenzioni tutt’altro che ostili, e il Grande Spirito2 è testimone della lealtà delle mie affermazioni.
— Che mio fratello spieghi lo scopo della sua visita. Gli Apachi sono leali e non odiano che i loro nemici del Gran Nord (yankee) e del gran sud (messicani).
— Quest’uomo, — rispose il messicano additando il marchese, — è un gran Sackem del suo paese, che si trova lontano assai, al di là dei mari, ed è amico dei visi-rossi delle regioni del sud. Egli è qui venuto a cercare un grande capo degli Apachi suo amico, ed un altro capo che è suo parente e che qui venne condotto, molti anni or sono, durante la stagione del wasipi-ou (luna della pazza avena e che corrisponde al principio dell’autunno).
Dimmi, Sackem, hai mai udito parlare del capo Grand’Aquila, la cui tribù si trova presso la Sierra Carriso e la valle Tuneka? Parla, e che la tua lingua sia leale. —
Udendo quel nome, il capo indiano, che aveva ascoltato fino allora con affettata indifferenza, trasalì; ma riprese subito la sua impassibilità.
— Mio fratello viso-pallido, — disse dopo qualche istante, — intende parlare d’un capo bianco?
— Sì, Sackem, — disse Sanchez, mentre il marchese, per meglio ascoltare, non respirava quasi più.
— Il capo Grand’Aquila era mio amico, ma è morto da lungo tempo.
— Morto! — esclamarono Sanchez ed il marchese impallidendo.
— Morto, — ripetè il capo.
— Allora mio fratello rosso, — riprese Sanchez, — mi dirà se vive l’altro capo bianco, qui venuto molti anni or sono, quando era giovane ancora.
Il Sackem non rispose. Egli guardava fissamente il marchese che impallidiva a vista d’occhio, e che era in preda ad una viva agitazione. La risposta del capo era tutto: o realizzava o si spegneva per sempre la speranza di ritrovare Almeida.
— Parla, Sackem, — disse Sanchez, che vedeva il marchese tremare.
— Mio fratello bianco, intende di parlare del Re della prateria, l’erede del capo Grand’Aquila? — chiese l’indiano.
— Sì, — disse Sanchez, dopo aver tradotto al marchese le parole del Saltatore.
— E che vuole dal grande capo bianco il mio fratello viso-pallido?
— Vederlo.
— Ed il motivo?
— È il nipote di quest’uomo, di questo Sackem dei paesi del sud.
— Hug!, — esclamò l’indiano. — E chi mi assicura che la tua lingua non mentisce? I visi-pallidi odiano il Re della prateria, perchè è un bianco al pari di loro e comanda gli uomini rossi della valle Tuneka.
— Ma è mio nipote! — esclamò il marchese, scoppiando in singhiozzi.
Il Saltatore gettò sul marchese uno sguardo corrucciato, e vedendo quell’uomo piangere, disse con accento sprezzante:
— È una squaw3 costui o il figlio d’un culatta?4
— No, — rispose Sanchez, frenando un moto di rabbia, — è un uomo che ha cuore, che ama il Re della prateria perchè è suo nipote.
— Hug! — esclamò il capo. — Sta bene: vi condurremo dal gran capo della valle Tuneka; ma bada, viso-pallido, se cerchi d’ingannarmi per salvare la tua capigliatura, o per tentare un colpo di mano sul grande capo della nostra tribù, ti farò legare al palo della tortura e ti farò soffrire tali strazi, da farti maledire il momento in cui hai posto piede sul territorio degli Apachi! È qui tutto quello che volevi sapere?
— No, Sackem, ho ancora una cosa da chiederti.
— Parla, mio fratello viso-pallido.
— Mentre noi eravamo accampati sul Rio Virgin, alcuni tuoi guerrieri ci rapirono un cacciatore che inseguiva i tacchini selvatici. Io reclamo la libertà di quell’uomo che al pari di noi non è tuo nemico, e che viene dai lontani paesi del sud. —
L’indiano a quelle parole scattò in piedi coi lineamenti contratti da un improvviso accesso di furore, e tendendo una mano verso Sanchez, gli gridò:
— Tu menti!
— Che cosa vuoi dire, Sackem? — chiese il messicano che si teneva pronto a balzare in piedi.
— Che tu menti, poichè quell’uomo che tu dici non essere nostro nemico, ha fatto fuoco sul Sackem Dorso Duro fracassandogli un braccio.
— I tuoi hanno assalito il nostro cacciatore ed egli si è difeso.
— È stato il tuo cacciatore che ha sparato sui miei uomini.
— Capo! — disse Sanchez, che cominciava a perdere la calma. — Avresti la lingua biforcuta?
— Cane d’un viso-pallido! — urlò il Saltatore. — Sono un Sackem io!...
— E tu menti egualmente!
— Hug! Il viso-pallido intende d’insultare il Saltatore?
— Chiedo giustizia, non insulto.
— E giustizia avrai.
— Mi cedi il cacciatore?
— Sì, ma quando l’avrò scotennato.
— Bada che egli è protetto dal gran capo bianco.
— Egli è lontano e quando verrà qui, il cacciatore non vivrà più.
— Ma gli narreremo la tua malvagità.
— Hug!... I visi-pallidi sono nostri nemici, e le vostre capigliature orneranno i nostri wiwam!... —
Sanchez si era alzato di scatto.
— Cane d’un Apache! — urlò. — A me, amici!... —
Colla rapidità di un lampo aveva estratte le pistole. I quindici Indiani, che forse non aspettavano che un segnale per gettarsi addosso agli uomini bianchi, balzarono innanzi come un solo uomo, gettando selvaggi clamori.
Il messicano scaricò i suoi colpi nel più folto del gruppo, poi con una spinta irresistibile rovesciò quelli che cercavano di chiudergli il passo e si precipitò fuori della tenda gridando:
— Fuoco e fuggite!... —
Lì presso c’erano i cavalli. Balzare sul suo, cacciargli gli sproni nel ventre e attraversare il campo prima ancora che gli altri Indiani, stupiti, pensassero a chiudergli il varco, fu un solo momento.
Raggiunta la macchia, si volse per vedere se era seguìto dai suoi compagni; ma scorse invece una banda d’Indiani che si lanciava ventre a terra sulle sue tracce.
— Gran Dio! — esclamò. — Sono stati presi!... —
Alcune detonazioni che parevano prodotte da scariche di pistole ed urli feroci giunsero al suo orecchio. Senza dubbio, nella grande tenda del Consiglio si combatteva.
Esitò un istante, non sapendo se salvarsi o se ritornare per dividere la triste sorte dei suoi disgraziati compagni; ma poi cacciò gli speroni nel ventre del cavallo e fuggì velocemente verso l’est, mormorando:
— Forse posso ancora salvarli; tutto dipende dalla resistenza del mio corsiero. —
Caricò il rifle che aveva trovato ancora appeso alla sella, se lo mise dinanzi e gettò un rapido sguardo dietro di sè.
Una banda composta di trenta o trentadue Indiani, usciva allora dal bosco urlando ed agitando furiosamente le lance ed i tomahwah. La caccia all’uomo cominciava!
Sapendo di aver da fare con degli abili cavalieri, che senza bisogno di speroni, di scudisci e di staffe, fanno divorare la via ai loro cavalli, si sbarazzò del sacco da viaggio, delle provviste, degli otri e perfino delle coperte e delle pelli di bisonte, per alleggerire il peso del proprio cavallo, poi si mise a spronare senza pietà, dirigendosi sempre verso l’est.
Dove andava egli? Come intendeva di salvare i suoi compagni che in quel momento dovevano essere tutti prigionieri e già condannati a subire, al palo della tortura, il più atroce martirio? Lo sapremo fra breve.
Gli indiani non lo perdevano di vista e si vedevano eccitare i loro piccoli ma rapidi mustani di razza spagnola, impazienti di impadronirsi dell’ardito messicano, il quale cercava di mantenere la distanza. Però questi s’accorse ben presto che due cavalli indiani, forse perchè più freschi o migliori corridori di tutti, sopravanzavano i loro compagni guadagnando via.
Erano montati da due guerrieri di alta statura, ed uno dei due pareva un sottocapo, dalla penna d’aquila che portava infissa nei capelli.
— Carrai! — esclamò il bravo messicano, che si volgeva di frequente, per vedere se guadagnava spazio. — Temo di dover sudare parecchio per sfuggire al loro inseguimento; ma bah! Tanto peggio per loro, se giungeranno a portata del mio rifle.
Avanti, mustano mio, bisogna che tu corra, dovessi aprirti il ventre e bruciarti gli orecchi. Bisogna che prima di questa sera sia là o tutto è perduto!... —
Ed il povero cavallo, sempre spronato, correva, correva come il vento salendo e scendendo le alture, attraversando piccoli boschetti o precipitandosi attraverso l’erbe della prateria, che falciava coi suoi robusti zoccoli.
Pareva avesse indovinato che dalla sua rapidità dipendeva la salvezza dei prigionieri, e che sapesse il pericolo che correva il suo padrone; perciò galoppava disperatamente.
Malgrado quegli sforzi, i due indiani guadagnavano sempre, e Sanchez udiva le loro grida avvicinarsi. Si volse sulla groppa e guardò: non erano che a trecento passi.
— Aspettate, bricconi!... — esclamò.
Trattenne violentemente il cavallo, puntò il rifle e mirò il più vicino. Stava per far partire il colpo, quando un pensiero lo trattenne.
— Posso peggiorare la condizione dei prigionieri, — mormorò. — Tanto peggio pei cavalli! —
Premette lentamente il grilletto e fece fuoco. Il cavallo dell’indiano più vicino ebbe uno scatto improvviso e stramazzò fra l’erbe, sbalzando innanzi a sè il cavaliere.
— Ecco uno che non m’inseguirà più, — disse Sanchez, allentando le briglie e lanciando il suo destriero al galoppo. — Poi, toccherà all’altro!... —
Ricaricò il rifle, e percorsi otto o novecento metri, tornò ad arrestarsi. Il secondo cavaliere lo inseguiva urlando di rabbia ed agitando la lancia. Non era che a dugentocinquanta passi, mentre il resto della banda distava più di mille.
— A te, adunque, — disse Sanchez, rialzando il fucile.
Il secondo colpo non fu meno fortunato del primo. Il cavallo, colpito nel petto dall’infallibile palla del cacciatore di prateria, stramazzò al suolo, trascinando nella caduta l’indiano.
— Vola! Vola! — gridò Sanchez, spronando il proprio destriero. — Speriamo che quei birbanti mi lascino un po’ in pace.
E la corsa continuava sempre rapida e le speronate si succedevano alle speronate, e le scudisciate alle scudisciate; ma gli indiani, quantunque non guadagnassero via, non interrompevano la caccia, sicuri di raggiungere, presto o tardi, il fuggiasco.
A mezzodì, dopo aver percorso trenta miglia e più senza un istante di riposo, il cavallo di Sanchez cominciò a dar segni di stanchezza. Respirava penosamente, rompeva il galoppo per mettersi al trotto, ed incespicava di frequente nelle alte erbe della prateria.
Il messicano si volse e guardò i suoi accaniti persecutori. Erano lontani due miglia almeno, ma i loro cavalli mantenevano un galoppo regolare.
— Temo di aver forzato troppo il mio mustano, — disse Sanchez, asciugandosi il sudore che gli inondava la fronte. — Quei serpenti non stimolano i loro cavalli per non rovinarli, sicuri di prendermi; ma per me è questione di velocità. Orsù, dieci minuti di riposo, e poi di galoppo a qualunque costo! —
Balzò a terra per alleggerire il povero animale e lasciò che andasse al passo. Gli Indiani, vedendolo scavalcato, spinsero i loro mustani e raddoppiarono le grida, credendo senza dubbio che il suo cavallo fosse sfinito.
— Non mi tenete ancora, miei cari, — mormorò Sanchez, che non li perdeva di vista. — Vi farò correre un bel pezzo prima di raggiungermi, o farò scoppiare i vostri mustani. Carrai! Non sono di ferro e poi ho ancora delle palle da mettere nel mio rifle. —
Quando vide che la banda era lontana cinquecento metri, rimontò in arcione e ripartì di gran galoppo. Il suo cavallo si era rinfrancato in quel breve riposo, ed allungava sempre fendendo impetuosamente le alte erbe della prateria.
Gli Indiani non aizzarono i loro animali, che mantenevano, con una resistenza incredibile, il loro galoppo serrato.
Un’ora dopo, il mustano di Sanchez tornava a dare segni di stanchezza: dal mattino aveva percorso quasi quaranta miglia senza bere un sorso d’acqua e senza mangiare un filo d’erba. Doveva essere stremato di forze, e se non gli dava un altro riposo, non doveva proseguire ancora per molte miglia.
Sanchez si alzò sulle staffe e guardò innanzi a sè. Là, dove la prateria confondevasi col cielo, si scorgeva come una forma indecisa alzarsi in punte aguzze. Poteva essere una lontana nube od una lontana catena di montagne.
La osservò a lungo con profonda attenzione, poi mise un sospiro di soddisfazione.
— La Sierra Carriso! — mormorò. — Venti miglia ancora!... Resisterà il mio cavallo fin là?...
Si volse indietro e guardò: un grido di rabbia gli uscì dalle labbra compresse.
— Sono perduto! — mormorò.
La banda indiana era a soli cinquecento passi; ma quantunque fosse composta ancora di trenta cavalli, mezzi indiani erano scomparsi.
— Canaglie! — esclamò il messicano, impallidendo. — Ora comprendo la vostra manovra! Avete lasciato i vostri compagni per tenervi dei cavalli freschi da cambiare. Ah! È così! Ebbene, se io non ho cavalli da cambiare, farò galoppare il mio come il vento! Sarà un trattamento crudele, ma la mia pelle e quella dei miei compagni valgono più di quella d’un mustano. —
Balzò a terra ed aprì il machete, la cui larga e lunga lama tagliava come un rasoio. Afferrò il cavallo pel morso e con due rapidi colpi gli tagliò le nari. Il povero animale a quell’orribile mutilazione gettò un nitrito di dolore, e parve che impazzisse; ma Sanchez lo teneva con pugno di ferro.
Approfittando d’un istante di sosta, balzò agilmente in groppa e spronò furiosamente.
Il cavallo fuggì rapido come una freccia spruzzandosi il petto di sangue e respirando rumorosamente, ma più liberamente. Finchè gli restava un atomo di vita, non doveva ormai più fermarsi.
Gli Indiani, che avevano allora lasciati i mustani stanchi, balzando su quelli che erano privi dei cavalieri e che perciò erano più freschi, vedendo il messicano guadagnare via, mandarono urla furiose e forse per la prima volta stimolarono i loro corsieri colle aste delle lance.
Il mustano di Sanchez pareva che avesse le ali ai piedi, e precipitava la corsa. Ansava, rantolava, incespicava, ma subito si rialzava e riprendeva l’indiavolata corsa.
Aveva salita una collinetta, e stava per superare la cresta, quando Sanchez mandò un grido di trionfo.
Nella sottostante prateria aveva scorto un grande accampamento indiano, formato da più di quattrocento tende e brulicante di guerrieri, di donne, di ragazzi, di cavalli e di cani.
— Speriamo! — mormorò. — Dio mi aiuti! —
Spronò il cavallo, ma non si mosse: si era arrestato colla testa china e rantolava sordamente, come se il sangue gli montasse alla gola.
Gli caccia furiosamente gli speroni nei fianchi. Il povero animale manda un rauco nitrito e scende la costa di galoppo; era questo l’ultimo sforzo.
Passò dinanzi alle sentinelle prima che queste potessero arrestarlo, e giunto in mezzo ad un gruppo d’Indiani, stramazzò pesantemente al suolo, trascinando nella caduta il cavaliere.
Sanchez, quantunque stordito dall’urto, si rizzò sulle ginocchia, e volgendosi verso gli Indiani che lo guardavano con stupore, chiese con voce rotta:
— È questo il campo del Re della prateria?
— Questo, — rispose una voce. — Che cosa desiderate?
— Parlare col capo!
— Eccomi: parla!... —