Il Re della Prateria/Parte seconda/11. Il campo degli apaches

Da Wikisource.
../10. L'inseguimento

../12. Il tradimento IncludiIntestazione 28 marzo 2018 75% Da definire

Parte seconda - 10. L'inseguimento Parte seconda - 12. Il tradimento


[p. 207 modifica]

Capitolo Decimoprimo.

Il campo degli Apaches.



Il Rio Verde (Green-River) o Grande Riviera, come lo chiamano i cacciatori di prateria, o Piga-Oguè, ossia la Grande Acqua, come lo appellano gli indiani Yuta, od anche Sitsckidiagi, che significa Fiume delle galline di prateria, come dicono gli Apachi, deve il suo primo nome alle boscaglie che ne coprono le sponde ed alle isole verdeggianti, che si trovano in gran numero lungo il suo corso.

Si può considerare come il vero Colorado; anzi taluni, e con ragione, lo chiamano Colorado settentrionale, non essendo la Grande Riviera tributaria di nessun fiume. Quantunque il suo corso sia immenso, partendo dai monti Sassosi ed attraversando successivamente, prima di giungere al Golfo di California, l’Utah e coi suoi affluenti porzione del territorio chiamato Colorado, poi l’Arizona e parte del territorio messicano, e quantunque riceva a destra ed a sinistra grossi corsi d’acqua, fra i quali il Lino, il San Giovanni, il Rio Virgin, e presso la foce il Rio Gila, non è mai abbondante d’acqua, nel suo corso superiore.

Quel tratto che chiamasi Rio Verde, di rado supera i cento metri di larghezza, e le sue acque non sono più alte di novanta centimetri od un metro. Però, durante la stagione piovosa, si alza assai [p. 208 modifica]ed allora raggiunge una larghezza di dugentocinquanta ed anche di trecento metri.

I suoi flutti sono rapidi, essendo il fondo molto ripido e travolgono spesso delle pepite d’oro. Anche nelle sue sabbie si trovavano molte pagliuzze del prezioso metallo.

Fra i cacciatori di prateria, a proposito di questo fiume, corrono delle strane dicerìe. Dicono che presso le sue rive, fra i boschi ed i burroni o sulla cima di picchi inaccessibili si trovino delle grandiose rovine, lavori diroccati degli antichi messicani, dei discendenti di Montezuma, l’infelice imperatore indiano fatto barbaramente abbruciare da Fernando Cortez, il vincitore e anche il distruttore degli Aztechi. Aggiungono, inoltre, che quelle rovine conterrebbero dei tesori favolosi, colà nascosti dai parenti e dai generali dell’imperatore o dai loro discendenti, per sottrarli all’avidità degli Spagnuoli.

Può essere che in queste dicerìe vi sia qualche cosa di vero, poichè in quella regione ora deserta e sterile si trovarono più tardi parecchie rovine veramente grandiose non solo di templi, ma anche di fortezze, ed in queste costruzioni gli antichi Messicani erano famosi e potevano dare dei punti ai più abili architetti europei del 1500.

Il luogo ove erano giunti Sanchez ed i suoi compagni, era deserto. Nè sull’una nè sull’altra riva si udiva alcun rumore, nè fra le piante che le coprivano si vedeva brillare alcun lume, che indicasse la vicinanza d’un accampamento.

— Nulla? — chiese il marchese, che era in preda ad una viva ansietà.

— Nulla, — rispose Sanchez, facendo un gesto di rabbia. — Canarios! Dove si sono accampati quei dannati indiani?

— Che abbiano continuato il viaggio?

— È impossibile, marchese; i loro cavalli non devono essere meno stanchi dei nostri.

— Che cosa facciamo?

— Attraverseremo il fiume, — rispose Sanchez. — Se volete riuscire, bisogna attaccarli questa notte.

— Ma che ci siano proprio vicini? [p. 209 modifica]

— Ne sono certo. Montate tutti in arcione, e seguitemi. —

Gli arrieros risalirono sulle loro mule, Sanchez ed il marchese sui loro cavalli e scesero nel fiume, che in pochi minuti attraversarono, non essendo più largo di centoventi metri e assai basso.

Giunti sulla sponda opposta scesero d’arcione, avvolsero le teste degli animali colle coperte per impedire che nitrissero, e s’avanzarono cautamente, aprendosi il passo fra le artemisie eterne, le genziane e le obione, specie di acacie che somigliano al cammel thorn (acacie delle giraffe).

Procedendo con mille precauzioni per non fare rumore e tenendo gli occhi bene aperti per non cadere in un agguato, giunsero ben presto dinanzi ad una vasta radura circondata di alberi. [p. 210 modifica]

Si arrestarono subito, soffocando un grido di furore.

Là, a pochi passi, si trovava un accampamento indiano, ma quale accampamento! Non era quello dei dieci rapitori del povero Gaspardo, ma d’una intera tribù. Si componeva di un centinaio di grandi tende, di wigwans, come le chiamano gli indiani, di forma conica, sostenute da un grande numero di pali ed aperte sulla cima per dare sfogo al fumo, disposte in circolo attorno ad una specie di piazza dove brulicavano due o trecento cavalli.

Le tende erano per lo più composte di pelli di bisonte, cucite insieme a pezzi di tela di colori svariati, provenienti senza dubbio da qualche saccheggio. Alcune erano adorne di pitture rosse, che volevano rassomigliare a cavalli, a lupi, a bisonti, o ad orsi; altre invece erano adorne di lunghi pezzi di tela svolazzanti, scoloriti e stracciati.

Proprio nel centro, il marchese ed i suoi compagni, al vivo chiarore di fuochi accesi nell’accampamento, scorsero il palo di tortura, e presso a questo un barile sfondato, incastrato in terra, tappezzato di parietarie, che rappresentava l’Arca del primo uomo, il santuario della tribù; e un po’ più indietro videro due tende più vaste e più belle delle altre, che rappresentavano l’una il gran calli della medicina, ove gli indiani fanno incanti e invocazioni, e dove gli stregoni curano gli ammalati; l’altra, il gran calli del consiglio, dove si radunano i sackems o capi, per deliberare sulle grandi questioni. Attorno ai fuochi uomini e donne, adorni di penne e di anelli e di braccialetti di rame o d’oro e bizzarramente vestiti, mangiavano e bevevano allegramente, mentre le sentinelle, appoggiate alle loro lunghe lance e armate dei tomahwah, scuri formidabili che maneggiano con un’abilità spaventevole, vegliavano per la sicurezza comune.

— Troppo tardi! — esclamò Sanchez, mordendosi le dita dalla rabbia.

Il marchese, che pareva fulminato, non parlava. Girava gli sguardi smarriti su quello strano accampamento, cercando di scoprire il disgraziato Gaspardo.

— Venite, marchese, — disse il messicano, strappandolo da quella muta disperazione. — Chi sa! Forse tutto non è ancora perduto! — [p. 211 modifica]

Ritornò nella foresta, temendo di venire scoperto dalle sentinelle o da qualche esploratore, e condusse i suoi compagni nel fitto d’un gruppo d’alberi, circondati da alti cespugli.

Mandò due uomini a vegliare nei dintorni della macchia per non venire sorpresi, poi disse:

— Ascoltatemi, marchese: tentare un colpo di mano sull’accampamento, come vedete, è impossibile: poichè sarebbe lo stesso che esporci tutti ad una morte certa. Se avessimo raggiunti i rapitori, le nostre armi avrebbero avuto ragione sulle lance e sui tomahwah; ma ora la forza bisogna lasciarla da parte. Vi offro un mezzo, che forse potrebbe riuscire.

— Quale? Parlate, Sanchez; sono pronto a tutto!

— Se i rapitori fossero stati dei Navajoes, vi avrei detto: «tutto è perduto», ma fortunatamente sono Apachi; li ho bene riconosciuti.

— Forse essi sono meno feroci degli altri?

— No, marchese, ma io fo calcolo sul vostro nipote o sul capo Grand’Aquila. Quantunque ci troviamo ancora lontani dalla valle Tuneka e dalla Sierra Calabasa, questa tribù deve dipendere da quella della valle, che è la più potente e la più numerosa, e non deve ignorare l’esistenza d’un capo bianco.

Presentiamoci a questi Apachi, spieghiamo lo scopo del nostro viaggio, invochiamo la protezione del capo Grand’Aquila se è ancora vivo, o di vostro nipote, e tentiamo di salvare Gaspardo. Forse potremo riuscire al di là delle vostre speranze.

— E se ci fanno prigionieri, rifiutando di ascoltare le nostre spiegazioni?

— Gli Indiani sono talvolta ragionevoli e ci ascolteranno. Se non riusciremo nel nostro scopo, tenteremo un altro colpo disperato, o morremo colle armi in pugno. Decidete, signor marchese.

— Sono pronto a seguirvi ed a fare tutto ciò che vorrete.

— Badate che possiamo lasciarci la vita!

— Non temo la morte, Sanchez.

— Sta bene: domani ci presenteremo agli Apachi.

— Ma i nostri compagni?

— Siamo pronti a seguirvi, señor, — dissero gli arrieros. [p. 212 modifica]

— Grazie, amici.

— Silenzio, — disse Sanchez. — Non bisogna che gli Indiani ci scoprano qui, o tutto è perduto. Coricatevi, e, se potete, cercate di riposare un po’.

Ma il dormire, col campo indiano così vicino, era cosa assolutamente impossibile. Nè il marchese, nè gli arrieros, nè lo stesso Sanchez furono capaci di chiudere un occhio, temendo sempre di venire da un istante all’altro sorpresi da quegli Indiani, che sono eccessivamente astuti e diffidenti, e che indovinano la presenza dei nemici anche se questi sono ancora lontani.

Tutta la notte stettero in armi, porgendo ascolto agli abbaiamenti dei cani, bravi e fedeli animali che accompagnano gli Indiani a battaglioni, durante le loro spedizioni, che li difendono con zelo e che vegliano costantemente alla loro sicurezza, quantunque i loro padroni non siano larghi di carezze e li ingrassino solamente per mangiarli.

All’alba, quando l’accampamento cominciava a risvegliarsi, Sanchez, il marchese e gli arrieros si alzarono e salirono sui loro animali.

— Lasciate parlare me, — disse il messicano al marchese. — Io conosco meglio di voi quegli uomini, e so come trattarli.

— Sperate di riuscirvi, Sanchez?

— Forse, ma non facciamoci illusioni. Anzi nascondete le pistole ed i coltelli sotto le casacche, per non farci cogliere inermi.

— Dunque temete un brutto giuoco.

— Cogli Indiani vi è sempre da diffidare, marchese. Andiamo, amici; e se la cosa prenderà una brutta piega, al mio primo segnale fate fuoco sui capi, slanciatevi sui primi cavalli che trovate, e attraversiamo il campo come un uragano. Avanti! —

Usciti dalla macchia, Sanchez appese alla canna del suo fucile un fazzoletto bianco e si avanzarono intrepidamente verso il campo indiano, che si trovava a sei o settecento passi di distanza.

Appena fatta la loro comparsa nella spianata, si udirono gridare le sentinelle come se fossero impazzite, mentre i battaglioni di cani abbaiavano con furore, formando un concerto indiavolato.

In men che si dice, sessanta o settanta guerrieri balzarono sui [p. 213 modifica]cavalli che pascolavano fra le tende e si slanciarono incontro alla piccola carovana, gettando urla selvagge, che parevano emesse più da gole canine che umane, ed agitando minacciosamente le loro lance e le loro scuri con la lama larga e scintillante.

Giunti a quindici passi, quei cavalieri si arrestarono di colpo, descrivendo una specie di semicerchio che doveva, al primo segnale del capo, rinchiudersi attorno alla carovana.

Quegli Indiani erano tutti bei pezzi d’uomini, di statura alta e complessa, la pelle fuligginosa o rossastra, ma che in gran parte scompariva sotto uno strato di colori. Avevano gli occhi un po’ obliqui come quelli della razza mongola, ma che mandavano vivi bagliori; il naso aquilino, gli zigomi un po’ sporgenti, le labbra sottili ed i [p. 214 modifica]capelli lunghi, grossi e ruvidi, che cadevano disordinatamente sulle loro larghe spalle. Taluni avevano il viso tatuato; per lo più sulle guance portavano dei segni rossi, altri gialli od azzurri; nessuno aveva barba, avendo avuto cura di strapparsela, e così pure erano privi di sopracciglia.

Avevano la testa adorna di penne d’aquila o di tacchino, agli orecchi piastre d’oro incastrate nei lobi, al collo perle di vetro e denti di animali selvaggi, il petto nudo e le gambe coperte da calzoni azzurri o verdi, scotennati ed adorni, ai lati, di capelli strappati ai vinti nemici; altri invece portavano i mokassini, specie di uose di pelle di bufalo, adorne pure di capigliature.

Il capo, riconoscibile pel suo diadema di penne di tacchino selvatico, che gli scendeva lungo il dorso fino alla cintura, e per la sua coperta di lana di montone delle montagne tessuta con pelo di cane selvaggio, arabescata di disegni complicati e colorati e frangiata, si fece innanzi, e giunto presso Sanchez che agitava la sua bandiera, lo salutò col tradizionale A hu! poi impugnando fieramente la lancia, chiese:

— Che cosa vengono a fare i visi-pallidi nel campo di Ba-da-ah-sciou-du (il Saltatore)? Forse ignorano, che gli Apachi sono sempre stati in guerra coi visi-pallidi?... Ho detto!...

— Mio fratello-rosso il Saltatore, — rispose Sanchez, — s’inganna se crede di aver da fare con dei nemici. Noi siamo uomini che veniamo dai lontani paesi dell’occidente per cercare un grande capo degli Apachi, ma non per portare la guerra in queste ragioni, poichè non vogliamo male alle pelli-rosse, ai prodi guerrieri della grande prateria, come i larghi coltelli del Nord (Americani del Nord).

— Mio fratello il viso-pallido non ha la lingua biforcuta?1

— È leale come quella d’un cacciatore d’orsi,2 e per dimostrare a mio fratello viso-rosso che noi siamo qui venuti con intenzioni pacifiche, guardi! —

Sanchez alzò il rifle e lo scaricò in aria. Il marchese e gli arrieros fecero altrettanto. [p. 215 modifica]

Il capo indiano, rassicurato da quell’atto che metteva i visi-pallidi in sua piena balìa, non volle mostrarsi da meno di quegli stranieri che avevano in lui tanta confidenza, e gettò a terra la sua lancia e il suo tomahwah, dicendo:

How! How! — (Bene! Bene!)

Poi fece retrocedere di parecchi passi i suoi guerrieri, ed avvicinandosi vieppiù al messicano, disse con una certa nobiltà:

— Mio fratello viso-pallido è sotto la protezione del sackem Ba-da-ah-sciou-du e la sua capigliatura non correrà alcun pericolo. Suo fratello rosso lo invita a seguirlo nella tenda del consiglio e le sue parole saranno ascoltate come il canto del centrouztl (usignolo di prateria).

— E perchè no qui? — chiese Sanchez, che non si fidava del tutto e che non voleva farsi rinchiudere in una tenda, dove la fuga sarebbe stata quasi impossibile.

— Mio fratello viso-pallido mi ha detto che è leale come un cacciatore d’orsi, — disse il sackem. — Che cosa deve temere da suo fratello il Saltatore? E poi, chi ha fumato nel calumet dell’amicizia?

— Mio fratello il Saltatore ha torto di sospettare di me, — disse Sanchez. — Non ho scaricato or ora il mio rifle!

— Mio fratello bianco non mi ha compreso bene, quantunque la mia lingua non sia biforcuta. Mi segua nella tenda del consiglio, e dopo aver fumato il calumet di pace, gli accorderò il colloquio che desidera.

— Siamo con te, Sackem. —

Ad un cenno del capo, gli Indiani ruppero il semicerchio, lasciando nel mezzo un passaggio, e la piccola carovana, preceduta dal Saltatore, si avanzò nell’accampamento, dove altri dugento guerrieri, armati completamente, stavano presso ai loro cavalli, pronti ad accorrere in aiuto dei loro compagni.

Le mogli, le sorelle ed i figli dei guerrieri si erano ritirate sotto le tende; ma attraverso agli strappi delle pelli, si vedevano brillare i loro occhi e quegli sguardi non erano certo benigni.

Il Sackem si arrestò dinanzi alla tenda del consiglio, nel cui interno si erano radunati gli anziani della tribù ed i capi inferiori, in numero di quindici o sedici. [p. 216 modifica]

— I miei fratelli bianchi scendano e accettino l’ospitalità degli Apachi, — disse il capo.

Sanchez, il marchese e gli arrieros balzarono a terra lasciando i loro fucili appesi alle selle, per dimostrare che non avevano intenzioni ostili, ed entrarono nella tenda del gran consiglio.

Era questa più vasta delle altre, di forma conica, composta di pelli di bisonte cucite ed adorne di pitture rosse ed azzurre. Sulla cima sventolava una specie di bandiera, il totem o stendardo della tribù.

All’intorno stavano seduti sui talloni i capi minori, i sotto-capi ed i più vecchi guerrieri, che erano coperti di cicatrici riportate senza dubbio in guerra. Erano gravi, silenziosi e si studiavano di non tradire nè la loro curiosità, nè i loro pensieri. Il Saltatore fece sedere i visi-pallidi su di una pelle di bisonte che era stesa nel centro della tenda, si accovacciò di fronte a loro, e dopo d’aver ripetuto il saluto, il tradizionale A hu! comandò si portasse il calumet.




Note

  1. Vuol significare lingua doppia, non sincera.
  2. È un proverbio dei cacciatori di prateria, e vuol significare leale, schietto.